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Autore: _bianconeve_    04/06/2016    7 recensioni
"Luke Hemmings, nato il 16 luglio 1996. Leucemia."
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Luke Hemmings, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Era il venticinque novembre, e per quanto mi costi ammetterlo, ricordo quel giorno perfettamente.

Era una giornata come un'altra. Mi ero svegliata alle sette meno dieci, come tutti i giorni, ed ero scesa in cucina a fare colazione. Mia madre indossava la sua vestaglia da notte color lavanda, ricamata ai polsi e con il colletto di pizzo, la faceva sembrare molto più anziana di quanto fosse in realtà, ma era comunque bellissima.

Era seduta su uno sgabello mentre sorseggiava del caffè bollente.

Mi sedetti al suo fianco e le baciai la guancia, lei appoggiò la tazza sul bancone e mi diede il buongiorno.

Io e RoseMary avevamo deciso di marinare la scuola.

Volevamo divertirci un po'.

Preparai lo zaino e avvertii mia madre che stavo uscendo, lei mi salutò e mi augurò una buona giornata, le sorrisi e chiusi la porta principale.

Rose mi stava aspettando appena fuori dalla porta, mi sorrise e mi abbracciò, stringendomi forte a se.

«Pronta a divertirti un po'?» mi chiese con tono carico ed energetico. Le rivolsi timidamente un sorriso.

«Non so, Rosy. Sono incerta, non mi sembra una buona idea.» Lei mi tirò una pacca sulla spalla e, aprendo la portiera della macchina mi disse «Andrà tutto bene, non c'è nulla per cui tu ti debba preoccupare.»

Salimmo entrambe in macchina e accendemmo la radio.

Ero una ragazza molto allegra, anche se spesso mi lasciavo prendere dalla paura e perdevo le migliori occasioni.

Mentre Rose, be' lei era strana. Troppo allegra, troppo felice, troppo fatta.

Io non mi drogavo, lei sì.

Io odiavo tutta quella roba. Mia madre mi aveva sempre detto che la droga cambiava le persone. Lei ne sapeva qualcosa di sicuro, essendo che mio padre era morto a causa di un'overdose. Non mi ha mai raccontato la storia dall'inizio alla fine, ma le poche volte che me ne ha parlato ho percepito molto, se non troppo, dolore.

Arrivammo in un bar isolato. Il barista mi sorrise «Cosa posso portarti?» ricambiai il sorriso e tutta d'un fiato gli dissi che desideravo solo un bicchiere d'acqua.

Lui si arrampicò con le mani ai più alti ripiani ed estrasse un bicchiere, si avvicinò al lavandino e mi versò dell'acqua.

Rose, invece, gli chiese un bicchiere di Vodka con limone e ghiaccio.

Alzai gli occhi al cielo: come diamine può una ragazza bere vodka alle sette del mattino?

Il ragazzo iniziò a bere con lei. Lei tirò fuori una canna dalla tasca dei jeans e fumarono.

Sarebbe successo a breve il disastro.

L'alcool prese fuoco, e con esso, la maggior parte degli oggetti che avevamo vicino.

Presto arrivarono i vigili del fuoco, i poliziotti. Chiamarono i nostri genitori.

Mia madre mi guardava furiosa, dritto negli occhi.

Rose venne arrestata, ma come mi diceva sempre: stette una notte al fresco e poi tornò tutto come prima.

Mentre io (povera decerebrata che non ha fatto nulla), sono stata obbligata a fare del volontariato in un ospedale.

Ma la cosa peggiore in assoluto fu che mia madre cambiò completamente.

La mattina non mi guardava più in faccia.

A stento mi rivolgeva la parola, e quando tentavo di spiegarle cosa era successo se ne andava in salotto.

Erano passati ormai 24 giorni dall'accaduto, e sarei dovuta andare in ospedale a breve.

La cosa non mi entusiasmava molto, ma mia madre pensava che far volontariato mi avrebbe fatto “rimettere la testa a posto”.

Dopo l'incendio Rose non si era più fatta sentire, e siccome a scuola tutti mi vedevano come quella che aveva dato fuoco ad un bar, passavo l'intervallo in classe.

I giorni passarono in fretta ed arrivò il mio primo giorno da volontaria al RiverYou Hospital.

Mia madre mi venne a prendere a scuola e mi accompagnò personalmente all'ospedale, aggiungendo in fine che aveva paura non ci andassi.

Entrai dentro il grande edificio ed una infermiera robusta mi venne in contro.

«Posso esserle utile, signorina?» con una smorfia buffa si risistemò gli occhi all'estremità del naso.

«Sono qui per...del volontariato?...» dissi confusa.

«Voi ragazzi che venite qui ad aiutarci siete la nostra salvezza.» disse, prese una cartellina rosso carminio e me la consegnò. «Si chiama Luke, ma non chiamarlo mai con il suo nome di battesimo. Lo fa imbestialire. Trovagli un soprannome carino e fallo divertire un po', ha solo 19 anni.»

Le sorrisi ed immediatamente corsi verso l'ascensore.

Aprii la cartella medica ed iniziai a leggere sotto voce.

“Luke Hemmings, nato il 16 luglio 1996. Leucemia.”

L'ascensore si bloccò ed io uscii non appena si aprirono le porte. Il corridoio era semi vuoto, si vedevano solo visi tristi e smunti.

Ripresi in mano la cartella e lessi il cartellino bianco al margine. 274.

Arrivai alla camera del malato e bussai.

«Avanti.» poggiai il palmo della mia mano sul pomello rotondo, arrugginito. «Scusi se la disturbo, sto cercando il Signor Hemmings. Sa per caso dov'è?» dissi maneggiando ancora una volta la cartellina che avevo tra le mani. «Certo. Sono io.» mi sorrise e mi disse di sedermi sulla sedia di fianco al suo letto.

«Allora, cosa le piace fare?» abbassò lo sguardo e mise a posto le proprie lenzuola. «Suonare.» si schiarì la voce «Cantare. E a lei cosa piace fare?» continuò.

Sorrisi e presi la mia borsa tra le mani. «Mi piace disegnare. A lei piace disegnare?» gli chiesi curiosa.

«In realtà, Signorina...» lo interruppi, «Dio, mi scusi. Mi chiamo Evelyn.» abbassò lo sguardo e continuò «Io amo disegnare, ma non ne sono capace. Spesso disegno, da quando sono chiuso in questa gabbia. Ma tutto ciò che riesco a fare sono semplici scarabocchi. E sono disegni banali. Mio fratello di cinque anni riuscirebbe a disegnare meglio di me, si fidi.»

Estrassi dalla mia borsa alcuni disegni e glieli mostrai. «Ora le faccio vedere i miei disegni, Evelyn.» il magro ragazzo si alzò dal letto, e portando con se il trespolo si avvicinò ad un armadietto color alluminio. Appoggiandosi ad esso ne aprì una porticina e cercò alcuni dei suoi disegni.

Infine si avvicinò a me e si sedette sul letto.

«Quello dove ci sono io che cavalco un unicorno è quello che mi è venuto meglio. Le avevo detto di essere un disastro nel disegno.» mi fece sorridere.

I suoi disegni erano completamente sbagliati.

Il modo in cui li colorava era così scontato e poco preciso.

E Dio, quell'unicorno era storto e lui sembrava una palla rosa con dei bottoni azzurri cuciti in cima al viso.

Ma mi aveva fatto sorridere come non mai.

«Be'...Non sono male. Ci possiamo lavorare insieme, se ti va. Magari tu mi insegni a suonare e io ti insegno a disegnare.» dissi dando ancora un'occhiata ai disegni infantili di Luke.

«Tornerà domani, quindi?» il ragazzo era seduto sul disfatto letto e dondolava le gambe come un piccolo bimbo che si dondola sull'altalena, al parco giochi.

«Certo che tornerò domani, Signor Hemmings.» si grattò la fronte e si infilò di nuovo sotto le lenzuola tiffany consumate. «So che ti hanno detto di non chiamarmi Luke, Evelyn. Solitamente mi da fastidio perché le persone passano con me un giorno e poi se ne vanno. Non mi conosco e mai mi conosceranno e mi chiamano come se mi conoscessero da una vita o anche di più. Ma tu puoi farlo, se rimani con me.»

I giorni passavano, ogni pomeriggio dopo scuola mia madre mi accompagnava in ospedale. Quei corridoi così lunghi, così bui mi perseguitavano persino di notte. L'infermiera mi aspettava nell'atrio tutti i giorni, con una tazza di caffè macchiato. 
«Oggi Luke ha chiesto di te più del solito.»
Quelle parole mi riempivano di gioia e allo stesso tempo mi terrorizzavano.
Bussavo alla porta, stanza numero 274. Sospiravo profondamente, poi una voce calda mi invitava ad entrare. Luke mi aspettava seduto a letto, con i piedi nudi.
Gli leggevo un libro intitolato Grandi Speranze, di Charles Dickens. Mi innamoravo ogni giorno di più della storia, una storia che mi intrigava e che mi appassionava e che a quanto potevo vedere, tutti i giorni, piaceva anche a Luke nello stesso modo in cui piaceva a me.

Prima di tornare a casa Luke mi salutava, ci teneva che io lo baciassi tre volte sulla guancia, aggiungendo poi che gli aveva fatto davvero piacere passare un'altra interminabile giornata in mia compagnia, e che per quanto fosse interminabile, non era mai abbastanza.
Il tragitto verso casa era sempre molto silenzioso. Temevo che stare in ospedale mi avrebbe resa più cupa, ma speravo sempre che aiutando Luke sarei stata più felice. In realtà, la mia felicità terminava quando poggiavo i miei piedi fuori dall'uscita principale dell'ospedale ed ero obbligata a tornare a casa. Mia madre si preoccupava sempre molto, mi riempiva di domande sull'ospedale, sulla scuola. Rosy non si era ancora scusata e i miei vecchi amici a quanto pare si erano creati una nuova compagnia. A me rimanevano solo Luke e mia madre, e per quanto sia orribile e scomodo dire una cosa del genere, la compagnia di mia madre non era più gradevole come una volta.
Una volta finito il racconto chiesi a Luke che cose volesse fare, ripensando alla prima volta che ci siamo visti in cui ci siamo proposti delle attività che avrebbero occupato entrambi.
Lui giocò con le sue dita, si guardò intorno e poi mi chiese «Hai qualche altro libro?» io sorrisi. La lettura lega le persone forse più di qualunque altra cosa. Estrassi dalla mia borsa un libro intitolato Furore, di John Steinbeck, un altro libro fantastico che avevo letto e riletto mille volte. Condividere uno dei miei libri preferiti con qualcuno era una cosa che mi spaventava molto, era come se gli stessi regalando un pezzo di me. Aprii il libro ed iniziai a raccontare. Eravamo tutti e due concentrati ed estasiati, ancora una volta. Arrivarono presto le sette, la Signorina Elisabeth bussò alla porta e mi ricordò che l'orario di visita era finito e che di conseguenza sarei dovuta tornare a casa. Salutai Luke ed uscii dalla stanza. Nell'atrio mi aspettava mia madre, aveva deciso di venirmi a prendere e portarmi a cena fuori. Andammo da Gao, un ristorante cinese. Non facevamo una cosa del genere da anni, vederla così felice e spensierata rendeva felice anche me, anche se mimimamente. Il giorno dopo mi aspetteva una lunga giornata, non sarei potuta andare a trovare Luke, dovevo vedermi con una psicologa che, a detta di mia madre, mi avrebbe aiutato a superare qualsiasi tipo di problema stessi affrontando al momento. Non me la sentivo proprio, ma non volevo caricare mia madre dei miei problemi. La psicologa si chiamava Ginevra, era una donna deliziosa e il suo studio odorava di muffin al mirtillo, come quelli che faceva la nonna Marika quando ero piccola. Parlammo a lungo, le raccontai del servizio che facevo all'ospedale e di Luke. Le dissi che non avevo alcun problema, che vivevo una vita felice, tutto sommato. Mia madre a cena poi mi chiese come fosse andata ed io ancora una volta le mentì, per non caricarla di problemi inutili. 

La mattina dopo mi recai in ospedale, Elisabeth era dietro la scrivania che parlava al telefono, mi vide e indicò una cartella rossa sul bancone, io andai a prenderla e lessi il contenuto sotto voce "Max Eisenberg, 27 ottobre 1993. Tumore al cervello." Mi guardai intorno, lo sguardo perso e mille pensieri che mi ronzavano in testa. Fu allora che Elisabeth si avvicinò e con tono triste mi disse «Mi dispiace.» di impulso mi misi a piangere e corsi alla stanza. La numero 274. La aprii e ciò che vidi mi lasciò senza parole. Luke era coricato e di fianco il suo letto, seduta sulla poltoncina nera, c'era una ragazza castana, occhi scuri, con in mano un libro. Un sospiro di solievo si fece spazio nella stanza. 
Luke era vivo.
«Scusate.» dissi io, nel panico e in imbarazzo.
Luke corrucciò la fronte e mi chiese dove fossi stata.
Non trovai una risposta.
Continuavo a sgranare gli occhi, a guardare la ragazza di fianco a lui, non capendo cosa fosse successo.
«Puoi lasciarci soli un attimo?», chiese Luke quindi, alla bruna. Lei annuì ed uscì dalla stanza, portando con sè il libro e la borsa.
Io mi sedetti, Luke non disse niente per una decina di minuti, io neanche.
«Hai intenzione di dirmi cosa sia successo?» chiese di nuovo, disturbando i miei cupi pensieri.
«Chi è?» gli chiesi, indirizzando la punta del mio naso alla porta, riferendomi alla ragazza.
«La tua sostituta» disse infine «tu te ne sei andata, hai finito le tue ore di servizi socialmente utili con me».
In quel momento ricordai perchè io fossì lì, perchè io fossi stata obbligata a fare volontariato. 

«Ma io non voglio andarmene».
Il suo volto scavato si voltò verso di me e prendendo il mio viso tra le mani mi rassicurò «Mi verrai a trovare comunque, vero? Quando finirai il turno con l'altro paziente, intendo, tornerai da me alle sette?»




Spazio autrice:
Ciao a tutti, io sono Alessia e dopo quasi due anni dalla mia più totale scomparsa ho ritrovato la password del mio account e, rileggendo le mie fanfiction (274 in particolare), mi sono sentita di riscriverne un paio, rivisitando alcune cose, alcuni capitoli che non mi piacevano e che, a dirla tutta, mi vergogno un po' ad aver pubblicato. Sono aperta a qualsiasi tipo di giudizio, recensione positiva e negativa e chi ne ha più ne metta, se avete voglia di darmi un parere concreto sulla storia in generale, sugli errori che ho fatto etc, ne sarei estremamente felice. Per chi si stesse ponendo domande come "perchè la leucemia?", "perchè stanza numero 274?" Rispondo ora:
Il mio ex fidanzato è leucemico, questa cosa mi hainfluenzato molto, tant'è che ancora oggi, nonostante la nostra relazione sia finita, ne risento. Il numero 274 invece non ha nessun significato particolare, quindi non pensateci troppo.
Vi ringrazio per la collaborazione, vi prego di rimpiermi di critiche costruttive o semplicemente pareri sulla storia.
Vi mando tanti baci, Alessia.
   
 
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