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Autore: Malvagiuo    05/06/2016    2 recensioni
Una canzone sussurrata nel silenzio, un uomo solitario che viaggia verso un villaggio abbandonato. Un'entità sovrannaturale lo attende, circondata da forze demoniache evocate dall'oscurità degli abissi. Cosa spinge quell'uomo a sfidare una potenza così malvagia? Chi è l'entità che infesta sia quel luogo desolato che l'anima dello stesso viaggiatore, disposto a rischiare la vita pur di incontrarla?
Genere: Dark, Horror, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Piangi, bambina, nella notte e nel giorno
sotto l’albero dalle lunghe fronde,
persa nell’abbraccio delle nebbie,
chissà dove, nella notte e nel giorno.
 
La canzone gli era tornata in mente all’improvviso, anche se era passato tanto tempo dall’ultima volta che aveva sentito qualcuno cantarla. Il trascorrere degli anni aveva consumato le strofe fino a sbiadirle, fino a farne rimanere poche tracce nella memoria del mondo. Forse, era rimasto l’unico a ricordarla.
Neren scrutò il promontorio in lontananza. La luce grigia del mattino filtrava attraverso la coltre di nubi gravide di pioggia. L’eco della risacca giungeva alle sue orecchie dal fondo della parete rocciosa, come il ruggito sommesso di un animale imprigionato. C’era il villaggio, lassù, proprio come gli avevano detto.
Nessuna colonna di fumo risaliva dai comignoli. Il vento gli soffiava in faccia, ma non portava altro suono che quello del mare mosso.
Non c’era motivo di avvicinarsi di soppiatto. Qualunque cosa ci fosse nel villaggio, sapeva che lui stava arrivando. Forse si era accorto della sua presenza da ben prima che Neren individuasse il villaggio in cima al promontorio. Era atteso, non aveva dubbi. Quello che non sapeva era se per tendergli un agguato o per parlargli un’ultima volta.
I suoi stivali affondavano nel fango lungo il sentiero che conduceva al villaggio. Era una strada impervia in salita, con segni di ruote di carro e impronte di piedi entrambi vecchi di settimane. Un altro brutto segno.
Una folata di vento gelido gonfiò il mantello in cui Neren era avvolto. Il gelo gli penetrò fin nelle ossa, con un’intensità molto superiore a quella di una normale brezza marina. Non c’era niente di naturale, in quel freddo. Senza il mare, quel luogo sarebbe stato immerso nel silenzio che regnava nelle profondità disabitate delle caverne abissali.
Era in mezzo alle case, adesso. Piccole dimore dai muri di pietra, con semplici tetti di paglia a ripararle dalle piogge. Niente focolari, niente aromi di cibo o trambusto di uomini al lavoro. Il villaggio sembrava disabitato da anni. Ma Neren sapeva che non gli avevano mentito, quando gli era stato detto che il posto era vivo e prospero fino a poche settimane prima. Aveva creduto ai passanti anche quando gli avevano confessato di aver paura di quel luogo, senza sapere perché. C’era qualcosa laggiù, dicevano, che li teneva alla larga. Un terrore che non trovava radici in una minaccia concreta, eppure forte nel loro cuore non appena si trovavano nelle sue immediate vicinanze. A Neren non occorreva sapere altro, per esser certo di essersi imbattuto in chi cercava.
Eccola lì, davanti ai suoi occhi.
Aveva l’aspetto di una fanciulla nel fiore degli anni, forse una ragazza che abitava nel villaggio. Indossava un sottile abito di stoffa con cintura, troppo leggero per non essere scossi da brividi di freddo. L’aria si insinuava al suo interno, mentre il vento le carezzava la folta chioma biondo cenere. Gli dava le spalle, lo sguardo rivolto all’immensità dell’oceano.
–Non è stato facile trovarti.–
Lei si voltò. Occhi verdi come gemme, il viso florido di una giovane donna appena sbocciata. –Non mi avresti trovata, se non l’avessi voluto.–
–Sono contento che tu abbia preso questa decisione.–
Vekhar Sa’amon, sotto le spoglie di una fanciulla, emise un suono gutturale. Difficile interpretarlo. Un mormorio biascicato, un risolino di scherno? Non si poteva mai essere certi, con entità di quella natura.
–Non sei così sveglio come dicono, se ancora non hai capito perché ti ho lasciato arrivare fino a me.–
Scherno. Decisamente scherno.
Neren abbozzò un sorriso. Il mantello ricopriva tutto il torso e le gambe. Non c’era modo di osservare i movimenti delle sue braccia.
–Non mi ero certo illuso. Quello che volevo dire era...– si slacciò l’alamaro che teneva serrati i lembi del mantello all’altezza del collo –... sono contento che tu mi abbia concesso l’occasione per farla finita.–
–Piccolo, ingenuo uomo.–
La notte calò all’istante. Il sole scomparve dal cielo, il mare divenne muto. Un’unica, insondabile tenebra che si estendeva dall’estremità dell’orizzonte fino al confine opposto del mondo. La sola fonte di luce rimasta era nelle mani di Vekhar Sa’amon, una minuscola scintilla di fuoco bianco che ardeva nei suoi palmi.
Poi Nerens sentì una fitta di dolore atroce al cuore. Avvertì una spina conficcarsi nel petto, senza che alcun oggetto reale gli ferisse le carni. Le forze cominciarono a venirgli meno. Urlò di dolore, crollando sulle ginocchia e strappandosi il farsetto, nel disperato tentativo di raggiungere il punto da cui originava il dolore. Rimasto a petto nudo, le sue dita vagarono in un deserto di pelle bianca, dove non esisteva alcuna freccia da rimuovere. C’era solo il dolore, di un’intensità tale da sbriciolare la mente di un uomo.
Si contorse a lungo per terra, in agonia. Quando i suoi muscoli rimasero immobili e rigidi, le urla cessarono.
 
Vekhar Sa’amon serrò i pugni. La fiammella bianca si estinse e tornò a risplendere la luce del mondo dei vivi. Il corpo di Neren giaceva, rattrappito e patetico, sul prato a una decina di passi di distanza.
“Mi dispiace che sia andata così. Avresti meritato una fine più dignitosa” pensò Vekhar, avvicinandosi ai resti di Neren. “Ti avevo detto di non venire a cercarmi.”
La fanciulla si chinò verso la testa del morto, ripiegata verso l’addome in una deforme posizione fetale. Iniziava già a raffreddarsi. Sollevò il capo, volgendolo in direzione della capanna più vicina. Un suono flebile di cocci rotti provenne dall’interno, accompagnato dal rumore di passi strascicati. Dall’oscurità emerse uno degli abitanti del villaggio, gli occhi vacui, la bocca semiaperta, il colorito cinereo. Nonostante la carne fosse ancora piuttosto fresca – l’aveva ucciso meno di cinque giorni prima –, avanzava impacciato come un cadavere di almeno venti giorni. I corpi erano di pessima qualità, da quelle parti. Non avrebbe più messo piede in quella regione.
Aveva ponderato a lungo se destinare la stessa sorte al vecchio Neren. All’ultimo, aveva deciso di no. Per qualche oscura ragione, sentiva che non era la cosa giusta da fare. In fondo, lui non era come tutti gli altri, malgrado risentisse degli stessi limiti. Forse, un giorno, avrebbe persino serbato un posto nei suoi ricordi. Non prima che fossero trascorsi duecento anni, probabilmente.
–Prendilo– disse al murgo. –Lo seppelliamo laggiù.–
Il murgo barcollò verso Neren, gli infilò le braccia sotto il corpo e lo sollevò, senza troppa fatica. Per fortuna che c’era un fabbro, nel villaggio. Di solito, quei buchi dimenticati dal mondo erano popolati solo da vecchi e derelitti, incapaci di lavori pesanti. Vekhar non sopportava quel tipo di fatica. Molti consideravano i murgo obsoleti, ma lei non era d’accordo. C’era sempre un buon motivo per creare un murgo, finché esistevano persone degne di una fossa.
Vekhar Sa’amon si sdraiò sul prato, le braccia dietro la testa, a osservare il murgo che scavava a mani nude nella terra umida oltre il suolo pietroso del villaggio. Rimase a guardare, le palpebre socchiuse, fino a tarda notte, quando la fossa scavata si rivelò abbastanza profonda da contenere il corpo di Neren. Quando i resti del Necromante vennero calati nel buco dai margini frastagliati, si alzò e andò a osservarlo per l’ultima volta. Sì, dopotutto l’avrebbe rimpianto. Ma quella storia non avrebbe potuto avere una conclusione diversa.
–Addio, Neren. Spero che oltre la Soglia non siano troppo duri con te.–
 
La falce di luna illuminava di un bagliore perlaceo la notte del promontorio. C’era deserto e silenzio in tutta la regione. Solo l’ululato dei lupi, di tanto in tanto, riecheggiava nell’aria silente che circondava la pianura affacciata sul mare.
Era notte fonda, quando un altro suono cominciò a farsi strada nell’atmosfera gelida. Un raschio metallico, aspro e assordante come unghie su una lavagna, accompagnava i passi strascicati di un uomo che avanzava, lento ma deciso, verso il tumulo sul ciglio del sentiero.
Quando ebbe raggiunto la montagnola di terra, si sputò sulle mani e sollevò la pala che aveva trascinato con indolenza fino a quel momento.
–Maledetto Necromante– biascicò. –Magari fossi morto per davvero.–
La punta metallica affondò nel terriccio, rigettandolo lontano a ogni palata. Lo Scavafosse continuò a tribolare per un po’, finché qualcosa non emerse dal lenzuolo di terra. Una mano spuntò dal nulla, muovendosi a scatti, come in preda a una crisi di qualche tipo. Lo Scavafosse non sembrò impressionato.
–Come diceva mio nonno... se c’è una mano, c’è anche tutto il resto.–
Afferrò con la ruvida mano di scavatore il piccolo arto che spuntava dalla tomba, tirando con forza. A poco a poco, emersero altri parti del corpo. Torace, spalle, testa e gambe. Neren era lì, il pallore nascosto da un fitto strato di humus nero, gli occhi a malapena aperti.
–È stato un bel viaggio, Neren? Se senti nostalgia, ti ci rimando subito.–
–Non ti pago per fare ironia, Scavafosse.–
Neren si rimise in piedi, barcollante. Lo Scavafosse continuò a sorvegliarlo a lungo, intuendo che le gambe avrebbero potuto non reggere. I filtri del Necromante avevano troppi effetti collaterali, impossibile dire se per natura degli stessi o per scarsa capacità del preparatore.
–Ne è valsa la pena, almeno?–
–Forse. Di sicuro, non è stato piacevole. È molto più potente di quanto credessi.–
–Hai fatto male i conti, che sorpresa...–
–Troverò il modo di fermarla.–
–Neren...– Scavafosse lo aiutò a scavalcare le dune di terra sollevate. –Devi proprio farlo? Non ci tengo a te, anzi. Preferirei che tu rimanessi nella fossa, una buona volta. Ma non capisco perché devi farti questo. Conosco un sacco di modi meno dolorosi per crepare.–
–Ho fatto una promessa.–
–Te e le tue promesse. Non potresti fregartene, come fanno tutti quelli della tua specie?–
Neren non disse nulla. Guardava a ovest, in un punto indefinito della notte.
 
Il rifugio più vicino era a due leghe di distanza. Era un luogo sicuro, Vekhar Sa’amon non si sarebbe fermata tanto vicino al luogo della sua ultima reincarnazione. La locanda si affacciava sul sentiero acciottolato, quando la raggiunsero era ancora buio, dalle finestre emanava il chiarore di una luce accesa all’interno. Una graziosa villa in stile rustico, che emergeva dalla foresta alle sue spalle. Neren non ci era mai stato, ma doveva fidarsi di Scavafosse. In lontananza, si vedeva il promontorio e strizzando l’occhio si distinguevano le capanne del villaggio in cima ad esso.
Scavafosse spalancò la porta senza tanti complimenti.
–Un catino di acqua bollente e una pinta di birra.–
C’era un grosso locandiere a fare la veglia notturna. Non sembrò troppo sorpreso di vedere due visitatori, malgrado l’ora e la richiesta decisamente poco consueta.
–L’acqua calda costa– si limitò a dire il locandiere.
–E noi pagheremo– ribatté Scavafosse.
–Vado a buttar giù dal letto il garzone.–
Quando il catino fu pronto, Scavafosse spogliò Neren in maniera abbastanza rude, senza curarsi minimamente del pudore del compagno. Neren, d’altronde, era ancora troppo debole per preoccuparsi di questioni morali. Lo sollevò con entrambe le braccia e lo gettò nell’acqua fumante.
–Brucia!–
–Resta lì dentro, o ti ci affogo.–
Scavafosse estrasse un borsello da sotto il mantello e lo aprì. Frugò per qualche istante e lanciò nel catino una saponetta.
–Hai un bel po’ di sporco da levarti di dosso. Mentre ti dai da fare, io mi faccio una birra. Spero che nella locanda ci sia anche qualche femmina non troppo stagionata.–
Neren rimase solo. Appoggiò la schiena al bordo del catino e si immerse fino al collo, inebriandosi del calore, che a poco a poco scioglieva il nodo di dolore che gli tormentava il petto. L’acqua diventava nera a mano a mano che gli strati di terra si staccavano dalla sua pelle, mentre la sua mente viaggiava altrove. Le cose erano andate più o meno come aveva previsto. Era riuscito a sopravvivere, e questo era ciò che contava. Ora che conosceva il potere di Vekhar, forse sarebbe riuscito ad arginarlo.
Ammesso che valga la pena farlo, come dice Scavafosse.
Era rimasta una cicatrice, nel punto dove Vekhar aveva scagliato la maledizione. Una grossa macchia violacea, una sorta di livido, che continuava a pulsare. Neren non osò immaginare cosa dovesse aver lasciato nella carne viva.
– Purtroppo non ci sono donne qua dentro, quindi temo che dovrò accontentarmi della tua compagnia. Che cosa triste– disse Scavafosse, che nel frattempo era tornato dal locale, tenendo in mano un boccale di birra. –Come ne sei uscito vivo?–
–Non sono vivo, infatti– disse Neren. –Ero morto da molto prima che Vekhar tentasse di uccidermi.–
Il boccale si fermò a un centimetro dalle labbra di Scavafosse. Gli occhi del tombarolo si fissarono in quelli di Neren, con l’intento di capire se quella fosse una battuta.
–Nemmeno tu potresti essere così stupido da fare un patto con un Cancelliere dell’Oltretomba.–
–Forse hai un’opinione troppo alta di me.–
Il boccale venne appoggiato a terra, poiché non c’erano tavolini nelle vicinanze. A Scavafosse era passata la sete, a quanto pareva.
–Come ti è venuto in mente di fare una cosa del genere?–
–Sono immortale, e posso perfino decidere fino a quando.–
–Cioè fino a quando sarai talmente consumato da supplicare il Cancelliere di farti morire!– esclamò Scavafosse, visibilmente agitato. –Ti ho visto fare un mucchio di cose assurde, in tutti gli anni che ci conosciamo, ma questo... questo va oltre l’assurdità. Sei diventato pazzo, Neren.–
–Non ho avuto scelta.–
–Non farti cavare le parole di bocca. Dimmi come hai fatto a cacciarti in questa situazione.–
–Sai anche tu che non esiste altro modo per combattere un Arcidemone delle Ombre.–
–Certo che lo so, lo sanno tutti. Ed è per questo che tutti stanno alla larga dagli Arcidemoni. Nessuno ci finisce a letto, come ha fatto qualcun altro– disse Scavafosse, scagliando un’occhiata velenosa a Neren.
Neren abbassò lo sguardo, incapace di sostenere quello del compagno. E per impedirgli di vedere che stava per mettersi a ridere, cosa che di certo lo avrebbe fatto infuriare ancora di più.
–Per ricapitolare, non solo hai superato un limite a cui nessun umano dovrebbe avvicinarsi, ma hai stretto un legame incancellabile con una forza ultraterrena temuta dallo stesso Re dei Morti. Non contento, hai deciso di complicarti ulteriormente la vita andando a caccia di un Arcidemone– sibilò Scavafosse, incredulo di fronte alle proprie parole. –Devi odiare davvero tanto te stesso, Neren. Persino più di quanto ti odi io.–
–Ho fatto una promessa.–
–Ancora con questa storia della promessa! Ti romperei la testa con la pala, se solo servisse a mandarti nel posto che meriti!–
–Ci finirò, un giorno. Magari presto quanto speri, amico mio.–
 
Quello non era un ponte. Erano due corde con assi marce appiccicate sopra con lo sputo. Ma era l’unico modo per raggiungere la valle senza perdere due giorni. Vekhar Sa’amon sbuffò, preparandosi a giocare a fare l’equilibrista. Per fortuna il suo nuovo corpo era piuttosto minuto.
Una fanciulla in fiore avrebbe attirato molte prede, una volta raggiunta una città. Già ora, lungo il cammino, aveva fatto un paio di incontri con individui che per una comune mortale sarebbero risultati fatali. Una coppia di briganti l’aveva fermata poche ore prima, con l’intento di depredarla della sua verginità; c’era un salice sul bordo del sentiero, le cui fronde verdi erano state ricoperte per intero da una fanghiglia rossastra. I grumi che colavano a terra, formando una pozzanghera, sarebbero rimasti nei secoli l’unica testimonianza di quell’incontro. Il giorno prima, invece, un venditore ambulante aveva tentato di raggirarla, proponendole un vestito di seta keanica in cambio di un’oncia d’argento, quando ciò che mostrava era palesemente stoffa, per giunta di foggia mediocre. Chissà cosa si provava, ad avere quella stessa stoffa al posto dei bulbi oculari.
Appoggiò il piede sinistro sulla prima assicella. Il legno scricchiolò, ma restò integro. Proseguì, passo dopo passo, fino al centro del ponte. Fu allora che la brezza le portò un odore fin troppo noto.
–Capisco perché un tempo ti ho amato– disse Vekhar Sa’amon, volgendo le spalle alla fonte di quell’odore. Non poté trattenere un sorriso. –Ho sempre saputo che non eri un uomo comune.–
–Ti ho fatto una promessa– disse la voce di Neren.
–Che nobiltà d’animo. E una volta mantenuta, che cosa pensi di ottenere?–
Neren rimase in silenzio. D’altronde, non esisteva risposta.
–Quando ti ritroverò, ti farò a pezzi e seppellirò ognuno dei tuoi frammenti in un continente diverso, così lontani che nemmeno la loro deriva potrà mai permettere che un giorno possano riunirsi.–
–A presto, allora.–
Le funi che reggevano il ponte cedettero di schianto. Vekhar Sa’amon precipitò nel vuoto, come un sassolino in caduta libera dall’alto di una rupe. Non un grido, né un agitare convulso di braccia accompagnarono il suo volo. Cadde con naturalezza, con un sorriso sardonico dipinto in volto.
 
***
 
Era il giardino di trent’anni prima. Una piccola radura in mezzo alla foresta, dove Neren aveva fatto germogliare una serie di piante esotiche. C’erano diverse erbe medicinali, velenose come la campanula del principe e la belladonna, altre dall’aspetto stravagante, come il rarissimo bacio di Ilvar. La maggior parte di esse non esistevano in quella terra, ma Neren era riuscito a farle attecchire e prosperare. Un angolo di mondo trapiantato all’interno di un altro. Ancora adesso, Neren lo ricordava con orgoglio. Si erano incontrati lì la prima volta.
 
Piangi, bambina, nella notte e nel giorno
sotto l’albero dalle lunghe fronde,
persa nell’abbraccio delle nebbie,
chissà dove, nella notte e nel giorno.
 
Aveva sentito quelle parole, intonate da una voce cristallina. Sussurrate, più che cantate. Non poteva sapere che dietro quel viso angelico, quegli occhi spauriti, c’era il germoglio di un Arcidemone. Vekhar Sa’amon aveva un aspetto diverso, naturalmente. L’avrebbe cambiato più volte, nel corso degli anni, ma sotto la carne si nascondeva lo stesso spirito immortale. Uno spirito che cambiava a ogni nuova muta, sempre riconoscibile, ma ogni volta leggermente cambiato.
–Chi sei?–
–Non lo so...–
Lei non aveva saputo dirgli altro. Un uomo comune si sarebbe chiesto che cosa ci faceva una ragazzina come quella, sperduta in quella landa desolata. Ma Neren, che aveva una conoscenza più approfondita del mondo, non credeva nelle coincidenze. Nessuna bambina sarebbe potuta arrivare al suo cospetto per caso. Aveva intuito subito la sua natura eccezionale. A differenza di altri, la sua colpa non era stata l’incapacità di riconoscere il pericolo.
La sua colpa era stata accudirla, pur avendo riconosciuto in lei un Arcidemone delle Ombre.
 
***
 
Lo scroscio sempre più forte dell’acqua indicava la fine della discesa. Neren avanzò con cautela, evitando di sdrucciolare sulle rocce bagnate. Il fondale era piuttosto basso, il territorio di caccia ideale per orsi e aquile di sangue. Il Necromante sporse la testa nella semioscurità del profondo della voragine. C’era poca luce, laggiù. In alto, un sottile squarcio frastagliato lasciava discendere la luce biancastra del giorno. Erano centinaia di metri dalla sommità del crepaccio fino a lì. Il corpo di Vekhar Sa’amon era sicuramente da sostituire. Pregò che, nel tempo della discesa, non avesse incontrato nessun essere vivente in grado di ospitare il suo spirito.
Neren affondò i piedi nell’acqua, seguendo la corrente. Procedeva piano, aguzzando la vista alla ricerca del suo obiettivo. Le orecchie tese a cogliere il minimo rumore sospetto, impresa non facile con l’aria intorno satura del fragore delle acque in subbuglio.
D’un tratto, sentì qualcosa sfiorargli la caviglia. Abbassò lo sguardo e vide una schiera di piccoli salmoni nuotare controcorrente.
“Non è ancora la stagione della cova” pensò Neren. Per i pesci, c’era qualcosa di molto più spaventoso di orsi o aquile di sangue nei dintorni.
In lontananza, la vide. Una massa informe distesa su un gruppo di macigni, le braccia e le gambe piegate in angoli innaturali, i capelli scarmigliati, il viso ridotto a un grumo di sangue. Il fantoccio di Vekhar Sa’amon giaceva inerte, lambito dai flutti.
–Non dovrai venirmi a cercare. Sono qui– disse Neren.
Il cadavere della fanciulla iniziò a tremare, come scosso da convulsioni. L’acqua nelle immediate vicinanze cominciò a ribollire, mentre l’oscurità sembrava farsi più fitta.
–Valeva la pena fare un patto con un Cancelliere dell’Oltretomba, per quella promessa?– rantolò la voce gorgogliante della ragazza.
–Era una promessa fatta a te.–
–Avresti dovuto dimenticarmi. Ora è troppo tardi.–
Le carni della fanciulla presero fuoco, divampando come un falò acceso da ore. Il bagliore delle fiamme rischiarò le pareti umide della gola, riflettendo ovunque sfumature dorate. Neren aveva poco tempo. Vekhar Sa’amon avrebbe trasmigrato dal suo attuale fantoccio per entrare dentro di lui. Gli ritornò in mente la battuta sarcastica di Scavafosse.
Hai fatto male i conti, che sorpresa...
Si augurò di non aver tralasciato niente, questa volta.
Un vento gelido lo investì, e tutto divenne buio.
 
***
 
–Promettimelo, Neren– disse lei, fissandolo con sguardo incerto.
–Che cosa vuoi che prometta?–
–Non lasciare che lo faccia ancora.–
Neren aveva sospirato. Capiva che cosa voleva, ma non era sicuro di poterla aiutare. Non questa volta. –È la tua natura, non puoi combattere te stessa. Inoltre, io non ho il potere per oppormi a te.–
–Non puoi, o non vuoi?–
Neren abbassò lo sguardo. Si vergognò dei suoi veri sentimenti. –Non posso... e non voglio.–
–Quanti moriranno, quando sarò matura? Cento, mille umani ogni anno? O di più, magari. Potrei diventare il più grande flagello che la tua specie abbia mai conosciuto. Sopporterai il rimorso, sapendo di aver provocato migliaia di morti per non avermi fermato quando potevi?–
–Anche se volessi, non potrei farlo. Tu sei molto più che immortale. In una vita passata, in una dimensione differente, sei già esistita e hai provocato quello che è nel tuo destino provocare. Sei un araldo della morte, e non puoi cambiare questo. Se anche in questa vita non uccidessi nessun altro, nella prossima reincarnazione ricomincerebbe tutto daccapo.–
Vekhar Sa’amon lo fissò. Lo sguardo divenne vacuo, colmato dallo sconforto. Non c’erano lacrime, nei suoi occhi. Solo una profonda rassegnazione.
–Non c’è dunque speranza, per me?–
–Perché vuoi andare a tutti i costi contro la tua natura? Perché tieni così tanto alle vite degli altri?–
Gli occhi di Vekhar tornarono vivi, e puntarono quelli di Neren con un’espressione indecifrabile. –Credevo di essere io il non umano, tra i due.–
–Non è con le frasi a effetto che eviterai la questione– disse Neren. –Perché hai paura di fare del male?–
–Non ne ho paura. Ma mi fa stare male.–
–È solo una fase del tuo cambiamento. Quando raggiungerai la forma completa, non t’importerà più degli esseri umani.–
–Questo non ti spaventa? Significa che non m’importerà più niente nemmeno di te. Magari ti ucciderò con le mie stesse mani, domandomi per quale assurdo motivo non l’abbia fatto prima.–
–Non mi preoccupo di me– mormorò Neren. –Io sopravvivo sempre, in qualche modo.–
–E chi non conosce i segreti per sfuggire a un Arcidemone, che farà? Per questo non sei disposto a promettere. Non perché credi di non poterlo fare, ma per non sforzarti di salvare persone di cui non ti importa nulla.–
–Non prometto perché non voglio farti del male.–
–E per questo accetti che ne venga fatto a migliaia di altri– disse Vekhar. –Non capisco cosa c’è nel tuo animo, Neren.–
–Siamo stati troppo tempo insieme, Vekhar. Ho imparato a conoscerti, ad amarti. Sarei disposto a sacrificare centinaia di uomini, purché questo significhi tenerti al sicuro. Non ho mai conosciuto un umano che valga la tua vita.–
–Forse non li hai cercati.–
–Perché avrei dovuto? Anche i migliori fra loro ti avrebbero uccisa, se avessero riconosciuto cos’eri.–
–Daresti loro torto, considerando quello che diventerò?–
–Il cane diventa feroce se così viene addestrato...– rispose Neren.
–... e il serpente è velenoso fin dalla nascita– ribatté Vekhar. –È questo che speri? Che essendo cresciuta da umana, non subirò la sorte della mia genia? Vuoi illudermi, Neren, e cerchi di illudere te stesso. Non so quale delle due sia peggio.–
–Io non ti ucciderò.–
Neren pronunciò le ultime parole con un tono gelido che non aveva usato spesso, prima di allora. Voltò le spalle a Vekhar e si inoltrò nella foresta. Non seppe mai come lo stesse guardando lei, mentre andava via. Lo disprezzava, lo considerava un debole? Magari avrebbe voluto richiamarlo, affranta dal timore di perderlo. Forse nessuna delle due cose. Il volto pallido della ragazzina, in procinto di diventare donna, sapeva nascondere qualsiasi emozione covasse al di sotto della pelle. Ciò non toglieva che quelle emozioni,  disprezzo o tristezza che fossero, esistessero.
 
***
 
Il freddo si faceva strada fin nel midollo. Era impossibile capire se la luce fosse scomparsa dal mondo, o se i suoi occhi fossero diventati ciechi.
Neren drizzò le orecchie, cercando di sfruttare l’ultimo senso che gli era rimasto.
Lei era lì vicino, di certo. Finché rimaneva senza un corpo, era debole. Ma il concetto di debole è difficile da applicare a un Arcidemone, qualunque siano le condizioni di svantaggio in cui versa.
–Stavo ripensando alla prima volta che hai ucciso un uomo– disse Neren ad alta voce. Doveva farla parlare, per riuscire a trovarla... e per evitare di perdere il controllo della propria mente. –Non avevo mai visto una ragazzina tanto sconvolta.–
Il freddo, se possibile, divenne ancora più intenso.
–Un Arcidemone con le lacrime agli occhi... pochi umani possono raccontare di aver visto una cosa tanto inverosimile.–
–Quali altri episodi della mia ‘infanzia’ rievocherai, pur di farmi parlare nella speranza di riuscire a vedermi?– sussurrò una voce glaciale, senza provenienza.
–Non ce n’è uno che non ricordi. Come la tua prima muta– continuò Neren. Per un attimo, il freddo gli sembrò più pungente, alla sua destra. –Non avresti voluto cambiare corpo, ma era nella tua natura. E dopo, eri già qualcosa di diverso. Gli Arcidemoni non nascono Arcidemoni. Siete così simili a noi, in questo. Anche voi cambiate poco per volta, non appena qualcosa sconvolge la vostra anima. Avevi ucciso il tuo primo uomo, Vekhar, ricordi? Non avresti voluto farlo, ma non potevi comprendere appieno la tua forza. E quando hai realizzato cos’avevi fatto, hai pianto a dirotto e hai assistito impotente alla tua trasformazione. Eri una giovane donna, adesso. Una bellissima giovane donna, con il seme dell’Arcidemone che sbocciava dentro di te, esile come un fuscello, ma destinato a diventare il tronco di una quercia.–
Una tempesta di schegge di ghiaccio investì in pieno Neren. Una serie infinita di graffi dilaniò il suo corpo, mentre tentava di ripararsi il volto con le braccia. Nonostante ciò, sentì le guance e le labbra trafitte da miriadi di lame affilate. Provenienti da un punto a destra, vicino.
–Quando mi hai chiesto di fare l’amore con te, non sapevo cosa fare. Mai, a memoria d’uomo, c’era stata una simile unione. Perché volevi concederti a me? Non capivo. Non mi hai mai dato una risposta. Ma è stato allora che mi hai fatto promettere. Ogni fibra del mio essere mi avvertiva di non cedere all’istinto, perché sapevo che avrebbe completato la tua trasformazione. Ma nonostante questo...–
–... nonostante questo mi hai scopata. E anche con trasporto.–
La mano penetrò a fondo nel torace di Neren. Dita lunghe e sottili, unghie acuminate come lance. Un dolore talmente lancinante da superare d’intensità persino quello che aveva provato il giorno prima.
Non aveva importanza. Lei era lì, a contatto diretto con lui.
–Hai distrutto il mio corpo. Dovrò usare il tuo come guscio, finché non ne avrò trovato uno più adatto.–
Neren rinunciò a ogni resistenza. D’altronde, non aveva senso. Niente e nessuno poteva opporsi alla volontà di un Arcidemone, una volta sprofondati nell’abisso di oscurità generato dai suoi poteri.
La mano di Vekhar Sa’amon si chiuse a pugno nel suo torace. Quella avrebbe dovuto essere la fine di Neren, perché era il punto esatto dove c’era il cuore.
Ma la fine non venne. Quando Vekhar lo comprese, Neren percepì lo sconcerto di lei. A quanto pareva, perfino gli Arcidemoni adulti potevano essere colti di sorpresa.
–Tu... tu non hai il cuore!– disse, incredula. –Non puoi esser stato così idiota... così pazzo... da consegnare il cuore al Cancelliere dell’Oltretomba!–
Neren sollevò le mani e afferrò il braccio di Vekhar Sa’amon.
Hai dato il cuore in pegno! A un Cancelliere dell’Oltretomba!– gridò l’Arcidemone, la voce sempre più agitata.
–Se urli così, Vekhar, rischi di tradirti. Fa sembrare che ti importi ancora di me– sorrise Neren. –Ero serio, quando ti dissi che avrei mantenuto la promessa a ogni costo.–
Neren estrasse la mano di Vekhar dal proprio torace. Dalla voragine nel petto grondava una sostanza rossastra fumosa, che evaporava al contatto con l’aria. La ferita cominciò a richiudersi, mentre centinaia di fili di carne avvicinavano i bordi del cratere per ricucirlo.
Le dita insanguinate di Neren stringevano quelle di Vekhar. Le intrecciò in modo tale che lei non potesse scioglierne la presa. Erano più grandi, rispetto all’ultima volta che le aveva strette. Era la mano di una donna matura, nel pieno del suo splendore.
–So che non mi perdonerai. Ma una parte di te voleva che lo facessi. Anche a costo di soffrire per sempre.–
Vekhar Sa’amon tentò di scatenare la sua forza contro Neren, ma senza corpo i suoi poteri erano ridotti. Troppo ridotti, per competere con quelli di un Necromante esperto. Si divincolò, ruggì come una leonessa ferita, ma non servì a nulla. Più manteneva il contatto con Neren, più il suo vigore veniva prosciugato. Quando fu costretta ad accasciarsi con le ginocchia a terra, comprese qual era il destino che l’attendeva.
–Non farlo... ti prego– supplicò, fissando negli occhi Neren. –Se mi ami, non farlo.–
–Non c’è parte di me che vorrebbe farlo. Ma non ho scelta– la voce di Neren non era più ferma. Qualcosa la incrinava, rendendola roca e insicura.
Il Necromante estrasse un teschio di ossidiana dal mantello. Aveva le dimensioni di un pollice, la superficie levigata risplendeva di riflessi in movimento. Le orbite vuote della minuscola scultura sembravano brillare di un bagliore rossastro.
Vekhar Sa’amon tentò un ultimo, disperato tentativo di sottrarsi alla prigionia. Ma i resti del suo corpo mortale erano allo stremo, i tendini ormai sfilacciati, i muscoli talmente lacerati da non consentire il minimo movimento. La voce di Neren echeggiò lungo le pareti del baratro, sollevando parole in una lingua arcana, perduta dalla notte dei tempi. Il tono era gutturale, distorto come il ruggito di una belva attraverso le profondità di una caverna.
Il freddo divenne più intenso per un istante, poi scomparve.
A poco a poco, la luce del sole tornò a irradiare il fondo del precipizio. Il rumore dell’acqua che scorreva risuonò placido, come se non se ne fosse mai andato. L’unica sensazione di freddo che Neren percepiva nasceva dai piedi e dalle caviglie, immersi nel torrente gelido.
Il piccolo teschio di ossidiana lo fissava dal palmo della mano destra, le orbite vuote, eppure stranamente scintillanti. Sembrava che volesse sussurrare qualcosa, oscure maledizioni che Neren sentiva di meritare. E di cui avrebbe accettato di essere bersaglio, se questo avesse significato rendere la prigionia di Vekhar Sa’amon più sopportabile.
 
***
 
La testa mozzata rotolò ai piedi di Neren. Era abituato alla vista dei cadaveri, eppure questa volta c’era qualcosa di terribilmente macabro nella scena che stava vivendo. La testa era di un bambino, i capelli biondi sporchi di sangue impiastricciati sulla fronte e sulle gote. Gli occhi sbarrati in un’espressione di sorpresa destinata a durare per l’eternità. C’era una sottile traccia di fanghiglia su una guancia, che tradiva l’orma di un piede. Un piede non troppo lontano dal punto in cui si trovava Neren.
–Ho ucciso anche la madre– disse Vekhar. Le palpebre erano socchiuse, il tono neutro come se parlasse della nuvola che galleggiava sopra di loro nel cielo. –Dopo il figlio, però. Puoi immaginare la scena. Sai cos’ho provato, prima e dopo?–
Neren la osservava in silenzio, mentre un’ombra calava sul suo volto. Un’ombra che niente aveva a che fare con le nuvole che passavano su di loro. Intuiva già la risposta.
–Niente. Assolutamente niente– disse Vekhar Sa’amon, la testa reclinata di lato.
–So cosa stai cercando di dirmi.–
–Ciò che c’era da dire è stato detto da tempo. Il nostro tempo insieme sta per finire.–
Gli angoli della bocca di Neren si incresparono in un mezzo sorriso. –Così pare.–
–Pensi che sia troppo tardi, per quella vecchia faccenda?– domandò Vekhar.
Neren fissò la testa decapitata a pochi passi di distanza. Gli insetti cominciavano ad avvicinarsi, attirati dall’irresistibile odore di carne morta.
–Hai appena detto che non senti niente, se uccidi qualcuno.–
–È così. Ma continua a importarmene, nonostante tutto– disse Vekhar. –Non è facile da spiegare.–
Neren sospirò. Non pretendeva di capire la mente di un Arcidemone. E nonostante gli sforzi, non riusciva a ignorare la sua richiesta.
–Com’era quella cosa che hai detto sul cane feroce?–
Neren non replicò. Non c’era niente che potesse dire. Poteva solo guardare i resti del bambino ai suoi piedi, gli occhi vacui che lo fissavano in un silenzio carico di sottintesi.
–Io non ti ucciderò– disse Neren, anche se le parole questa volta sembravano meno convinte. –Ma ti farò una promessa: ti fermerò, non appena svanirà l’ultima traccia della persona che ho conosciuto.–
Vekhar Sa’amon lo scrutò da lontano, senza sapere come reagire alla proposta. Pareva combattuta. Comprendeva che era la migliore concessione che potesse strappare a Neren. Non mirava a un compromesso soddisfacente, ma non avrebbe potuto ottenere niente di meglio, per il momento. Questo lo capiva. Avrebbe accettato, Neren lo lesse nei suoi occhi un istante prima che le sue labbra si dischiudessero.
–Ti ringrazio. Non è abbastanza, ma ti ringrazio lo stesso. Come farai?–
–Troverò un modo.–
–Non sarebbe più facile uccidermi adesso?–
Più facile per qualcun altro, certo. Non per me. Stava per rispondere così, ma si fermò in tempo. La reazione di Vekhar a quella risposta sarebbe stata imprevedibile. Avrebbe potuto persino prenderlo in parola, e cercare qualcuno in grado di ucciderla. Un’impresa per niente difficile, una volta che avesse rivelato la sua identità.
–Per niente. Sarà più facile quando sarai completa.–
Era una menzogna spudorata. Neren sperò che Vekhar ci credesse. Forse lei si rese conto subito che era una bugia, ma non lo diede a vedere di essersene accorta. Accettò la promessa, senza ulteriori domande.
–Allora non perdiamo tempo– disse Vekhar. –Mi manca solo una cosa, per diventare donna.–
Neren comprese al volo cosa intendeva dire. Sapeva che un giorno lei gli avrebbe fatto quella proposta. Aveva passato molti anni a prepararsi, nell’attesa di quel momento. Avrebbe detto no, per due buone ragioni: la prima, più ovvia, era che non c’era motivo di accelerare il processo di trasformazione di una fanciulla Arcidemone in una donna. La seconda era di natura morale. Aveva accudito Vekhar da quando era bambina, la considerava una figlia, ormai. Unirsi a lei sarebbe stato incestuoso, benché non esistessero legami di sangue tra loro. E nemmeno di specie.
–Non chiedermi questo. Non voglio essere io.–
Neren si illuse di avercela fatta. Di essere forte.
Quella notte fece l’amore con Vekhar, ponendo fine alla sua immaturità e segnando il destino di entrambi. A distanza di anni, non avrebbe saputo dire cosa fosse stato peggio, se cedere all’istinto umano o essersi fatto strappare quella maledetta promessa.
   
 
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