Libri > Shadowhunters
Segui la storia  |       
Autore: miss potter    10/06/2016    1 recensioni
“Non devi nascondere il tuo corpo. Non c’è niente di sbagliato nel suo aspetto o nel modo in cui si muove, in cui lo muovi quando pensi che non ci sia nessuno a guardare…”
La voce di Magnus vantava la musicalità del canto di un usignolo.
“Sì, ma tu non chiamarmi tesoro.”
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Izzy Lightwood, Jace Lightwood, Magnus Bane
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

All’Istituto era calata puntuale l’atmosfera ovattata ed elettrica della sera, e la stessa aria frizzantina che si respira alle porte della notte, o di una tempesta, si poteva fiutare nell’ampia ma poco affollata sala delle armi assieme all’odore acre del sudore e quello dolciastro del legno verniciato di fresco. Le esclamazioni e gli incoraggiamenti dei due ragazzi in allenamento riecheggiavano al centro della palestra come un concerto di tuoni.

“Per quanto sia al corrente del mio devastante fascino, non sono una bambola di porcellana, Alec!” fu il commento sarcastico di Jace, esalato tra un breve risolino e un profondo sospiro che, volente o nolente, tradiva una leggera spossatezza. “Non ci stai neanche provando.”

Il ragazzo moro si corrucciò, appena offeso, mentre davvero si sforzava a tenere disteso a terra il suo parabatai sedendo sul suo grembo e bloccandogli le braccia muscolose sopra la testa bionda. Erano gli occhi di lui, tuttavia, a catturare maggiormente l’attenzione del più grande dei fratelli Lightwood; due topazi selvaggi lo squadravano dal basso con aria di sfida, dietro le aureole dorate di ciglia e sotto le sopracciglia costantemente corrugate. Se non fosse stato per il sogghigno da Stregatto che gli scopriva un canino, Alec avrebbe scommesso che Jace avesse intenzione di sfoderare da un momento all’altro il suo pugnale per infilzarlo.

Sospirò distogliendo lo sguardo, e lo lasciò andare. Si strofinò il dorso di una mano sulla fronte imperlata di sudore e dunque contro uno zigomo per celare il lieve rossore che imporporava le guance scarne dell’adolescente mentre si alzava da terra e si lisciava la maglietta stropicciata (che una volta doveva essere stata nera).

“Che idiota,” sussurrò Alec quasi tra sé, porgendogli però una mano per aiutarlo ad alzarsi e cercando di non indugiare troppo con i grandi occhi blu sul fisico scultoreo di quel biondino tutto pepe.

Jace rise di gusto al borbottio stizzito del cupo fratellastro, ed accettò il palmo caldo di lui balzando in piedi come una cavalletta.

“Quindi abbiamo finito per oggi?” domandò sfregandosi le mani, un pizzico di sincera aspettativa nella voce.

Alec afferrò l’asciugamano di Jace gettandoglielo in faccia in un gesto che profumava di goliardia prima di cingersi il collo col proprio. A malapena soppresse un sorriso quando il suo avversario brontolò per la scortesia.

“Corri dalla tua pel di carota, dongiovanni,” lo prese in giro il giovane Shadowhunter abbassando lo sguardo dove sembrò essersi sollevata una leggera nebbia di malinconia, tutto d’un tratto.

“Ehi! Si chiama Clary, lo sai. E ti proibisco di affibbiarle nomignoli,” esclamò bonariamente Jace puntando la propria bottiglietta d’acqua in direzione di Alec come se impugnasse la sua spada angelica. “E… grazie infinite. Volevo portarla a cena fuori, stasera.  E magari anche al cinema!”

Alec annuì, fingendo di essere anche solo vagamente interessato alle uscite romantiche di Jace. Insomma, su quella immensa cotta aveva messo una gigante pietra sopra… no? O forse, cose del genere richiedevano più di qualche settimana per essere smaltite, soprattutto se l’ebbrezza ti aveva accompagnato per anni indisturbata.

“Fico,” fu l’unico commento del moretto mentre si tamponava le tempie, un groviglio di sentimenti contrastanti e fastidiosi nello stomaco. “Divertitevi.”

Jace roteò gli occhi cerulei al soffitto abbassando le spalle e sgonfiando repentinamente il petto – Alec notò – ancora nudo.

“Cosa c’è che non va, fratello?” chiese affettuosamente, un tono questo che poco si conciliava con la natura essenzialmente impetuosa e collerica di Jace, il quale però, accanto ad Alec, sembrava ammorbidirsi come di solito ci si sforza di fare coi bambini.

Il ragazzo più alto gli indirizzò un’occhiata fintamente distratta nel disperato tentativo di apparire più indifferente possibile a quel piccolo interrogatorio. Dannata la sua odiosa incapacità a camuffare le emozioni, fonte di ogni dramma.

Fece spallucce.

“Proprio nulla, Jace,” gli sorrise pacato, e sperò con tutto cuore che il sangue che sentì irrorargli le guance venisse scambiato per i postumi di un allenamento che l’aveva lasciato effettivamente… accaldato. “Va’, sono sicuro che ti starà già aspettando.”

Per niente tratto in inganno da quella finta faccina angelica, che spesso celava un annichilimento dettato dal bene comune, Jace strinse le labbra sottili portandosi le mani sui fianchi squadrati. Ovviamente, era a conoscenza dei sentimenti di Alec per lui. La faccenda prima o poi era venuta a galla… anche se con la violenza di un geyser a pieno regime ed in piena faccia. L’unica cosa di cui Jace si pentiva era il fatto di non averne mai realmente discusso, con Alec. Insomma, sarebbe stata una fase che avrebbe superato alla grande, prima o poi. Jace era innamorato di Clary, e Alec… Beh, lui era suo fratello, anzi… erano parabatai, uniti da un rapporto più forte di qualsiasi legame di amicizia o di sangue. E certo, Alec era un bel ragazzo, leale e, anche se a suo modo, dolce. Ma amore… Ah, l’amore è un’altra cosa.

“Mm. Sicuro. Che programmi hai, tu?”

Alec scoppiò in una risata tutto meno che ilare.

“Avanti, non ho otto anni. Posso stare benissimo da solo senza il mio adorato fratellino per una sera!” esclamò ironico senza tuttavia ritornargli lo sguardo. “Sto ancora un po’ qui, ho solo bisogno di… distendere i muscoli.”

Leggi: prendere a cazzotti qualcosa che non sia la faccia lentigginosa di Clary.

Alec tossicchiò, amareggiato, rimproverandosi per aver anche solo pensato una cosa del genere.

“D’accordo, come vuoi…” sospirò Jace in un’alzata di spalle, tornando subito allegro. “Ma non stancarti troppo. Ti ho dato del filo da torcere stasera, o sbaglio?”

Piccole ma non proprio innocue saette parvero scaturire dagli occhi cobalto di Alec.

“… Sparisci.”

Prima che si mettesse male, o che si facesse troppo tardi, Jace agguantò il borsone della palestra senza miracolosamente ribattere, e in una risata cristallina salutò con la mano Alec trottando fuori dalla sala rivestita di specchi. Il Nephilim si ritrovò così solo, con la sola compagnia della sua immagine riflessa sulle quattro pareti della stanza che puzzava di unguento per il cuoio e ormoni.
Un silenzio di tomba gli piombò addosso come un pesante sacco di sabbia, e dovette piegare il collo e chiudere gli occhi qualche secondo prima di esalare un profondo respiro e riuscire a tornare concentrato. Ora si poteva udire solo il rumore leggero e regolare del suo respiro, dentro e fuori, dentro e fuori, e di qualche solitaria vertebra quando mise da parte l’asciugamano umido per distendere la schiena, torcerla appena a braccia sollevate, e dunque sciogliere i nodi della tensione accumulata.

Nell’amata solitudine della palestra deserta di sera, quando tutti erano ormai rientrati nelle loro stanze o usciti per godersi i rari momenti di libertà che la carriera concedeva, Alec si sentì finalmente libero. Libero di respirare appena più lentamente o di indugiare in una breve apnea; libero di muoversi a piacimento nello spazio; libero di fermarsi a tempo indeterminato, sedersi, stendersi; libero di emettere suoni, minuscoli gemiti di piacere quando i tendini allentavano la loro pressione sui nervi, e di non rendere conto a nessuno se non a se stesso. Avrebbe così tanto voluto gridare, urlare fino ad irritarsi la gola ed infrangere quegli enormi specchi sulla cui superficie lucente si contorceva la propria immagine.

Jace adorava guardarsi mentre si allenava, mentre Alec di solito era troppo impegnato ad osservare Jace invece di verificare la correttezza dei propri movimenti. E dunque gli parve di peccare di vanità quando si concesse una lunga occhiata sui lineamenti di un corpo slanciato, addestrato al combattimento, giovane ma dove già incombevano i segni delle battaglie a cui nessun ragazzo della sua età dovrebbe mai nemmeno assistere. Decine di sottili cicatrici color panna adornavano, assieme alle rune scure, la pelle delle sue braccia poderose, su cui passò delicatamente e distrattamente i palmi callosi delle mani cosparse di taglietti.

Serrò la mandibola con astio nei riguardi di quelle sue dita, riflettendo sul fatto che a nessuno sarebbe piaciuto esserne accarezzato… Non erano dita nate per amare. Solo per stringere armi, attaccare e distruggere. Che piacere avrebbero mai potuto regalare, mani del genere?

In un moto di collera, Alec si piantò le unghie poco curate sui bicipiti, graffiandone lentamente la cute fino ai gomiti nodosi. Linee rosse si aggiunsero alla carta geografica che era la sua pelle, e non perse nemmeno tempo a lamentarsene. Si sfilò rabbiosamente la t-shirt lasciandola cadere a terra come un serpente in muta, ansioso di abbandonare la vecchia corazza per dare il benvenuto alla sua rinnovata natura.

La pelle nuda del torso dello Shadowhunter rabbrividì al contatto con l’aria tiepida, e la preoccupazione che questo fosse il modo migliore per beccarsi una broncopolmonite finì per essere l’ultimo dei suoi pensieri. Si slacciò gli anfibi gettandoli in un angolo e restando a piedi scalzi sul parquet della palestra: il contatto tra la pianta dei piedi e il legno evocò nel ragazzo una sensazione di gioia quasi primitiva, e presto si rese conto di sentire l’urgente bisogno di muoversi.

Gli occhi di Alec si posarono, quindi, su un vecchio stereo posto su un tavolino anonimo accantonato in un angolo della sala, opaco di polvere ma ancora funzionante. Isabelle lo utilizzava per il riscaldamento, ogni tanto, quando non si allenava con Alec e Jace. Era un lusso che raramente gli Shadowhunter potevano concedersi, allenarsi da soli. C’era sempre qualche mossa o tattica nuova da apprendere, e in due o più si ottenevano sempre migliori risultati in minor tempo. Tutta la vita di un guerriero doveva essere dedicata all’efficienza, non c’era spazio per l’intimità. In ogni senso del termine.

Alec si avvicinò titubante all’apparecchio, non prima però di essersi attentamente guardato attorno, quasi timoroso che un occhio indiscreto lo stesse spiando. Si sarebbe rivelato quantomeno spiacevole.

Di musica ne sapeva quanto di ciglia finte. Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui aveva ascoltato una canzone che gli piacesse per davvero, poiché all’Istituto l’unica musica vagamente orecchiabile era generata da piccole casse nell’ufficio di Hodge – ex ufficio di Hodge – appassionato di Vivaldi. Poi c’era Jace, che quando veniva colpito da attacchi di noia particolarmente seri si dilettava a sbatacchiare il suo stilo sui tavoli d’acciaio della cucina al ritmo di qualche melodia groove anni Novanta. E puntualmente si guadagnava una sberla ben assestata sulla nuca da parte di un molto infastidito Alec.

Il ragazzo sospirò profondamente, accarezzando la copertina in plastica dell’unico cd appoggiato sullo sportellino dello stereo. Lo prese in mano, bilanciandolo sul palmo, e come se pesasse ottanta volte tanto lo aprì. Il disco non riportava alcuna etichetta, solo la firma di sua sorella a grandi lettere tonde a pennarello rosso.

“Forse non dovrei…” pensò sollevando il cd ed aprendo lo sportellino per infilarcelo dentro. “E se poi Izzy lo scopre e se la prende?”

Scosse la testa all’idea, parecchio stupida. Isabelle era abituata a condividere le sue cose coi fratelli, anche perché essendo l’unica femmina non aveva mai dovuto contendersi vestiti e trucchi con altri se non con sua madre.

Anche se… 

Alec si mordicchiò le labbra squadrando il tasto play con diffidenza, ma prima che potesse accorgersi di averlo davvero premuto la musica cominciò a risuonare incalzante per tutta la sala.

D’istinto ed arrossendo violentemente, Alec abbassò del tutto il volume; un paio di note appena più rigorose rispetto ai suoi parametri di musica l’avevano già lasciato col fiatone… Non osava pensare a cosa sarebbe successo se avesse girato al massimo quella piccola, insignificante rotella.

Aumentò appena il volume, sempre di più, fino a farlo tornare al livello di partenza, né troppo alto né troppo basso.

La musica lo avvolse nota dopo nota, una melodia moderna generata a computer, di quelle che si ascoltavano nelle discoteche di Brooklyn, a quelle emozionanti feste di centinaia di persone che avrebbero imbarazzato Alec a morte. Non era mai stato tipo da locali, lui, né da musica assordante o balli sfrenati; preferiva esprimersi nell’intimità di una stanza deserta, in un ambiente familiare e sicuro, dove potesse ascoltare i propri pensieri e lasciarsi completamente andare senza doversi guardare le spalle ogni momento da demoni assetati di sangue angelico o fate a caccia di un partner sessuale.

Tornò al centro della sala, un piede davanti all’altro, camminando senza fretta al ritmo sempre più invitante del motivo. La voce della cantante risuonò corposa e decisa, appena roca, sensuale e stuzzicante… ed Alec si ritrovò a trattenere il respiro, come guardando giù da una scogliera, colto di sorpresa dalla vertigine del momento.

Take a breath
Rest your head
Close your eyes
You are right


Quelle parole sembrarono accarezzare le orecchie di Alec come vere e proprie labbra appoggiate sui suoi lobi, labbra calde e leggermente umide, ammiccanti mentre lo invitavano a seguire le loro istruzioni.

Inspirò a fondo dalle narici per poi espirare lentamente dalla bocca mentre abbassava le palpebre e quindi il mento, allungando le ossa cervicali.

Un brivido incandescente gli attraversò la schiena nuda, dalla nuca fino al coccige oltre l’elastico dei pantaloni scuri da ginnastica, come due dita gentili ed esperte. E andava davvero tutto bene.

Just lay down
To my side
Do you feel my heat
On your skin?


Poté quasi avvertire le lacrime spingere dietro le palpebre chiuse a causa della folgorante sensazione di benessere che gli ardeva in corpo, riscaldando e stimolando quell’anima tormentata, prigioniera al suo interno.

Ad occhi chiusi, ormai sempre più immerso nel torpore sprigionato dalla canzone, cominciò pian piano ad osare: ondeggiò lentamente le anche, le ossa sporgenti del bacino a formare un otto sempre più ampio e profondo, le braccia, abbandonate lungo i fianchi, che si sollevarono appena, poi fin sopra il capo riccioluto. Il tutto senza aprire gli occhi sovrastati dalle folte sopracciglia corrugate in un’espressione di estasi crescente.

Take off your clothes
Blow out the fire
Don’t be so shy
You’re right
You’re right

Take off my clothes
Oh bless me Father
Don’t ask me why
You’re right
You’re right


Il riflesso di un timido sorriso assorto sorse spontaneo dalla solita penombra, caratteristica quasi costante del volto mesto del giovane, il quale ora sembrava indossare l’espressione beata di un ergastolano a cui è stata concessa una nuotata nell’oceano.

Lontano dal mondo, dai giudizi, dai pettegolezzi e soprattutto da ogni regola ed etichetta, Alec Lightwood ballava al centro della sala delle armi con la leggiadria e la soavità di una farfalla in una prigione, facendo vibrare le proprie ali fragili sul metallo arrugginito delle loro catene.

Si voltò, il viso rivolto al suolo in massima concentrazione, le labbra carnose e rosse di eccitamento appena schiuse, la linea sinuosa dei pettorali e dei muscoli dell’addome che si contraeva accompagnando in un movimento fluido la distensione delle cosce, delle spalle, delle braccia che come le spire di una medusa solitaria ondeggiavano sciolte, le mani giunte quasi in preghiera. Un rito pagano, era questo, distante mille miglia da qualsiasi forma di restrizione e compostezza che reprimevano Alec dalla pubertà.

Come sarebbe stato… toccarsi? Niente di particolarmente peccaminoso, solo… sfiorarsi? Ad esempio, come sarebbe stato far scorrere le dita, quelle falangi dure e impietose, lungo la linea altrettanto mascolina dei fianchi, lungo il costato infinito che gli avrebbe invidiato qualsiasi coetaneo e reclamato qualsiasi persona dotata di vista e un minimo di gusto? Come sarebbe stato farsi toccare?

Home I stay
I’m in, come in
Can you feel my hips
In your hands?

And I’m laying down
By your side
I taste the sweet
On your skin


Lasciò andare un gemito soffocato, del quale si pentì all’istante perché era forse la prima volta che si stava lasciando così andare, una mano dietro la nuca con le dita affondate nei boccoli sudati e l’altra sull’addome contratto.

Spalancò solo per un attimo gli occhi, arrossendo di botto quando scorse la propria immagine allo specchio, quella di una creatura tutta muscoli e vene in rilievo; gli sembrava di essere in presenza di un completo sconosciuto: le guance cremisi, i capelli sconvolti, gli occhi lucidi, il labbro inferiore maliziosamente stretto tra i denti… l’immagine di un lascivo Cupido pronto a scoccare la propria freccia, non certo quella di un accigliato dio della guerra.

Distolse lo sguardo da quel ragazzo così sfacciato che pareva strizzargli l’occhio da dietro la superficie vitrea della parete, e decise di dargli le spalle.
 

Chiudendo nuovamente gli occhi, cercò di ricordarsi le mosse di Isabelle quando ballava, quando sembrava che tutto quanto le venisse fuori così naturale tanto da fargli persino dubitare che fossero parenti. Quando danzava, così come quando combatteva, la ragazza era in grado di sfoderare la bellezza selvaggia e potenzialmente letale della vedova nera. Ad Alec, seduto da solo a braccia conserte in un angolo o di guardia all’entrata del locale, era capitato più di una volta di incantarsi ad osservarla muoversi con la grazia di una pantera a caccia; con un viso da bambola lambito dalle lunghe ciocche di capelli color ebano, ondeggiava i fianchi tondi accompagnando il ritmo di qualsiasi forma di musica, dalla più lenta alla più animata, adattandosi a qualsivoglia compagnia, ridendo e scherzando con chiunque, leggiadra. Sapeva tirare fuori il meglio da tutti, Isabelle, senza perdere mai la sagacia e l’astuzia indispensabili nel mestiere. E poi c’era Jace, che quando ballava pareva essere uscito direttamente da una copertina di Vogue. Perché Jace non danzava, lui sfilava, e faceva della discoteca, come del campo di battaglia, la sua passerella. Come Izzy, sapeva rivelarsi un’arma micidiale all’occorrenza, ma chi poteva rimanere indifferente a quella sua incantevole faccia d’angelo dannatamente sexy? Avrebbe scatenato una rissa nel bel mezzo di una tranquilla festicciola di quartiere pur di essere notato, risultato che di solito otteneva con un semplice sorriso sghembo e un occhiolino al momento e alla persona sbagliati.

Cercò di imitare i movimenti dei fratelli, l’imbarazzo che lo corrodeva da dentro come una larva dentro un frutto pronto a maturare, l’incapacità di allentare del tutto la presa sull’armatura quasi infrangibile che in diciotto anni di vita aveva imparato a costruirsi addosso...

In my heart dress
Raise so much faster
I draw myself in holy water
And both my eyes just got so much brighter
And I saw God, oh yeah, so much closer


La canzone cominciava ad entrare nel vivo ed Alec a rituffarsi dentro quel conturbante dialogo che questa stava sostenendo con ogni muscolo del suo corpo scavalcando l’autorità del cervello. Così, il giovane non si accorse del piccolo barlume violetto generatosi sulla porta della palestra che si dilatò fino a trasformarsi in un passaggio. Ad un tratto, ne sbucò, con la nonchalance di un ospite giornaliero non del tutto gradito, la luminosa figura di Magnus Bane, il quale accennò un paio di passi accompagnato da una fitta nuvola di glitter. Lasciatosi alle spalle il portale, arricciò il naso.

“Cielo, la camera da letto di Luigi XVI era più profuma— ”

Lo Stregone quasi non si strozzò con la sua stessa saliva.

Alec continuava a ballare vicino agli specchi come se nessuno lo stesse guardando; in fretta e furia, Magnus si nascose dietro una colonna, facendone capolino solo per continuare ad osservare il giovane di nascosto, sforzandosi a non sbavarsi sulla costosa giacca in seta color melanzana.

“Dio, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. Dacci oggi i nostri addominali quotidiani…” commentò sottovoce, osservando l’adolescente ondeggiare suddetti a bocca aperta.

In the dark
I see your smile
Do you feel my heat
On my skin?


Ad un tratto, Alec sembrò acquistare coraggio e, accarezzandosi lascivamente le anche strette e flessuose, si inginocchiò a terra continuando a disegnare piccoli cerchi col bacino ed allo stesso tempo oscillando avanti e indietro, i palmi aperti sulle cosce.

Tale visione costrinse Magnus a piantare le unghie così accuratamente limate e smaltate nel cemento armato della colonna, fino a farsi male.

Take off your clothes
Blow out the fire
Don’t be so shy
You’re right
You’re right

Take off my clothes
Oh bless me Father
Don’t ask me why
You’re right
You’re right


“… e non indurci in tentazione, ma liberaci dai glutei sodi. Amen.”

Nel momento stesso in cui Alec cominciò a strusciarsi contro il pavimento e ad emettere piccoli gemiti di evidente liberazione da qualsivoglia freno inibitorio, lo Stregone di Brooklyn si costrinse ad uscire allo scoperto e tossicchiare elegantemente per non finire a masturbarsi dietro il muro come un tristissimo quindicenne davanti alla sua prima rivista pornografica.

“E-ehm!” esclamò godendosi la visuale mentre con l’andatura felpata di un felino affamato si accostava al guerriero inginocchiato sul pavimento.

Alec quasi non schizzò fuori dalla propria pelle.
 

 




Canzone: "Don't be so shy", Imany
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Shadowhunters / Vai alla pagina dell'autore: miss potter