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Autore: Antonino Giuff    15/06/2016    0 recensioni
Sullo sfondo di una Italia fascista e antisemita, un dodicenne ebreo, cieco dalla nascita, viene soccorso e ospitato da una delle figlie di Don Celi Rusteghi, potente signorotto di Palma di Montechiaro. Tensioni crescenti all'interno del nido famigliare sfoceranno in un tragico epilogo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest
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A casa Rùsteghi, nel paesino di Palma di Montechiaro sulle colline, si doveva mangiare a mezzogiorno in punto, non un solo minuto eccedente, non uno in leggero difetto. A mezzogiorno in punto. A quell’ora, infatti, ogni membro della famiglia doveva essere già seduto a tavola, muto e ligio, e con un tovagliolo bianco del medesimo tessuto del drappo prandiale spiegato sulle ginocchia, se si voleva evitare che Celi, il capofamiglia, proprietario di un piccolo oleificio a Marina di Palma, s’arrabbiasse impugnando il suo vecchio bastone di rattan per batterlo forte sui denti dei ritardatari. Sposa di Celi era Caterina, umile casalinga che s’occupava premurosamente della crescita dei suoi cinque figli. Amina, la più grande, già lavorava nella sartoria di Mario Imbràcchera come filatrice; seguivano Annagrazia, Florina e Marcella, tre deliziose ragazzine di età compresa tra gli otto e i quindici anni e, infine, l’unico maschio, Tranquillo, appena nato.
Nel giorno di Pasquetta, l’odore rutilante del sanguinaccio che bolliva nel paiolo — piatto che lì non mancava mai nei giorni festivi, seppur non gradito a nessuno — aveva già impregnato tutte le stanze della loro residenza qualche minuto prima che il canto del gallo Isaia desse il via, come di consuetudine, al rito famigliare. Alla pronta squilla del pennuto, le sedie di legno antico, preziosissime, erano già state tutte occupate, tranne una, quella di Amina.
«'Sta disgraziata›› tuonò Celi, ‹‹dove s’è andata a cacciare? Si può sapere, eh! Tu, tu… sei complice, la difendi pure… scommetto! Tu lo sai, Rina… tu lo sai dov’è! È che non me lo vuoi dire! No! Ma quando torna, quando torna…  a ‘sta  puttana  le  sbatto  la  faccia  contro  lo spigolo del muro! Ammuccia, ammuccia pure, ca tuttu pari!»[1].
«Non lo so neppure io! Ma che ti piglia?» rispose Caterina con tono deciso. «Nostra figlia è seria, non ci sta alla pescagione e manco a lambiccare azzittamosche! Sarà… sarà ch’è con le sue compagnette a raccontarsi la giornata! Mica può sempre filare, poverella!».
«Ed io intanto sto qui a riminare la farina del cucciddatu, a metterci il naso, a sciaurarla, mentre quella sgarbata se ne va per i fattacci suoi! Ma io mangio senza di lei! Senza di lei, ti dico! Cu c’è, c’è!».
«E fai pure, fai pure! Tanto tu solo la panza sai far ragionare!».
«No! Tu e gli altri… appresso a me! Se mangio io in questa casa, devono mangiare tutti! Tutti, anche i miei porci!».
Il piccolo Tranquillo si mise a piangere a dirotto. Caterina, preoccupata, dopo aver messo da parte il mantile lordo, scattò verso la culla per prenderlo in braccio. Gli diede qualche carezza sui capelli castani, dondolandolo appena; così faceva sempre, la madre, per vedere un tenero sorriso sulle labbra della sua creatura.
Le bambine intanto guardavano Celi con occhi grigi e spiritati. Annagrazia rigirava la forchetta nel piatto, innervosita, e pareva non avesse più intenzione di mandar giù qualcosa. Affiancate come complici di vecchia data, invece, Florina e Marcella inghiottivano quel pasto frugale a tambur battente, probabilmente per ritornare il più presto possibile in camera. Difatti, ognuno era prigioniero nella sua invisibile sfera  di  silenzio .  Se  il  padre  avesse  parlato, moglie e figli si sarebbero disposti a cerchio attorno a lui, a formare una spessa muraglia d’incomunicabilità, mentre, qualora fossero stati loro a parlare, il padre li avrebbe zittiti con la forza del suo vecchio vocione da contadino. Ma nessuno parlava. Tutti, in religioso silenzio, pazientavano il ritorno d’Amina, che non era ancora rincasata benché l’orologio segnasse già l’una.
L’unico che riusciva a banchettare e a bere vino era proprio Celi.  Seduto a capotavola, dopo interminabili minuti d’attesa, impuntò con severità le dita intofate sul legno della tavola e poi, ridacchiando, ve le batteva contro. Dal colore infiammato della pelle, si capiva che ormai s’era ubriacato.
«Suonano alla porta» disse Caterina, «dev’essere Amina».
Appena Caterina aprì la porta notò, con un certo stupore, che Amina non era sola. L’accompagnava infatti un bambino dalla carnagione molto chiara, sui dodici anni, magrissimo, non vedente. In un precario   equilibrio, si teneva stretto   alla   veste  della sua benefattrice. Indossava dei vestiti sporchi e bucati, e si copriva con le braccia, come sentisse freddo. Alcuni lividi sul braccio destro e sulle gambe facevano pensare che qualcuno l’avesse picchiato. Caterina lo guardò con dolcezza. Non chiese nulla alla figlia, né chi fosse, né da dove provenisse, né perché l’avesse portato in casa propria. Rientrarono.
Celi non era più al suo posto, a comandare. Sazio ed ebbro, era andato a coricarsi.
«Ma chi è, questo bimbo?» domandò Florina, in un sorriso bellissimo.
«L’ho trovato qui che chiedeva l’elemosina… poverino, era solo… e ho pensato che noi, ecco, avremmo potuto aiutarlo…».
«Oh, Amina! Per me hai fatto bene!» disse Caterina, mentre puliva il ragazzo nella vasca. «Per una bocca in più non muore una famiglia, ma tuo padre… tuo padre… già è incavolato nero con te! Lo sai, com’è fatto? Se non si mangia tutti insieme… è pronto alla zuffa come un maiale! Pensa ch’era già pronto a farti sanguinare i denti, quel cane! Ma tu stai tranquilla, gioia, ci penso io quando si sveglia! O prima o poi gli avveleno la pasta!».
«Ma parla?» chiese Marcella, incuriosita.
«Sì! Adesso però ha solo bisogno di cibo e riposo».
Quella notte il bambino cieco la passò nel letto di Amina.
«Sai,» disse il trovatello, «io sono ebreo. Per questo sono segnato dappertutto da lividi e ferite. Qui sono cattivi. Non mi vogliono. E ho saputo che rischio anche…».
«Cosa rischi? Non dire sciocchezze! Ma tu… hai ancora una famiglia?».
«E chi può dirlo? È già un miracolo se sono ancora vivo…».
«Non preoccuparti. Ci sono io, adesso. E potrai essere felice! Su! Vieni tra le mie braccia, voglio dormire con te, stanotte».
«Ma quando tuo padre lo saprà… mi farà uccidere, lo so! Tu sei gentile, moltissimo, ma non devi metterti nei guai per colpa mia. Sono pronto ad andarmene ora stesso. Hai già fatto abbastanza per me, davvero…».
D’improvviso il gallo, nel suo recinto, si mise a starnazzare. Era mezzanotte. Celi, svegliatosi, corse subito nella stanza dei figli col suo fucile da caccia. Un colpo preciso agli occhietti selvatici e Isaia stramazzò al suolo in una pozzanghera torbida di sangue.
«Che avrà avuto questo gallo?» vociò. «Sarà stata la vecchiaia! Sarà stato quello, maledetta bestia! Era giusto che crepasse».
Poi, giratosi  di  scatto  verso  Amina  che  faceva coraggiosamente scudo al cieco col suo corpo, Celi esclamò con durezza:
«E quello chi è?».
Annagrazia   trasecolò   davanti   alla   balconata.   Marcella   e Florina, invece, distimiche, si misero accoste a una delle gelate murature della stanza. A un certo punto la più piccola, Florina, gridò di non vederci più, poi di vederci molto male, come colpita prima da cecità fulminante e dopo da agnosia appercettiva.
Passarono due minuti. In un movimento repentino, l’altra sorellina si distese sotto il suo letto facendo uscire soltanto i piedi appena lavati, a diretto contatto col pavimento a bullettoni. Lì stette in posizione rigida con le mani sul collo come si sentisse soffocare.
Eppure sia l’una che l’altra, ancorché confuse, a vederle erano sane e colorite. Florina infatti nell’iridi cerulee, non denotava che il suo carattere fresco e sbarazzino. Non aveva mai avuto difetti alla vista, né agnosia né ambliopia né altro. E anche a Marcella, bellissima, non era mai capitato di soffrire di anginofobia o qualcosa di simile prima che il padre sopraggiungesse.
Dalla sua alcova, agitatissima, Caterina accorse in vestaglia. Poi, rivolgendosi rabbiosamente al marito e increspandosi in faccia come una vecchia di novant’anni, esclamò:
«Ma cosa succede? Che gli hai fatto alle mie figlie, carogna! Parla! Parla… o io…».
«E che ci potevo fare? Chiedilo ad Amina e a quel rospetto che s’è portata in casa!».
«Lui non c’entra! Non c’entra! Sapevo ch’era qui, lo sapevo da subito! Non t’ho detto niente perché ormai conosco di te pure le pulci che c’hai nei capelli! Sei tu, che le hai fatte spaventare, bastardo!».
«È un orfano che ho salvato dalla strada» intervenne con un filo di voce Amina. «Appena starà bene, se ne andrà, padre».
«Se ne deve andare, adesso! Adesso, capisti? Ancora ti devo quelle del pranzo, che m’è venuto pure di traverso, tu scurdasti?».
«Solo due… tre giorni al massimo. Poi andrà via, te lo prometto. È un bravo ragazzo, parla poco, non ti causerà alcun problema, te lo prometto…».
«E   va   bene!   Ma   che   sia   soltanto   per   due   giorni! Altrimenti…».
«Vado a chiamare il Dottor  Lasca››  concluse  Caterina, stringendo forte le sue figliole.
Appena il Dottor Lasca batté alla porta, Celi fece segno alla moglie che soltanto lui avrebbe parlato della disgrazia; s’arricciò i baffi cespugliosi con il pollice destro e disse: «Oh, entri, Dottore! Entri!».
«La prego… si risparmi i suoi…›› rispose quello, schivando lo sguardo del suo interlocutore.
«Ma come? La vengo a chiamare e mi tratta come un somaro di Raddusa? Oh, no! No! Dottor Lasca, non è così che funziona! Non le conosce le nuove disposizioni? Si vuole spogliare nudo nei campi con le terga frustate a punto? Devono essere tempi duri per voi scecchi senza religione! Durissimi! Le consiglio di portarmi rispetto…».
«Ho capito, Signor Celi. Ho capito! Ma per quale ragione mi ha chiamato?».
«Le mie due figlie più niche…».
«E cosa c’hanno?».
«Lo veda lei, sono nella stanza sinistra in fondo al corridoio».
In camera il cieco, intanto, oscillava leggermente il corpo avanti e indietro, pregando inginocchiato con i gomiti poggiati sul letto di Annagrazia. Il Dottore lo notò.
«E lui?» chiese a Caterina. «Avete sfornato un altro bimbo mentre non vi sono servito?».
«Oh, no! È un ragazzino… ebreo, come lei, Dottor Lasca, che stiamo ospitando per alcuni giorni in casa nostra. L’ha salvato dalla strada ieri mia figlia Amina, altrimenti chissà che fine avrebbe fatto, poverino!».
«Sta recitando la Shacharit, Dio lo benedica» esclamò il Dottore, sorridendo.
«Posso avvicinarlo, quando avrà finito di pregare?».
«Se mio marito non se ne cura… intanto veda Florina e Marcella. Adesso si sono un po’ calmate, ma sapesse come stavano fino a qualche minuto fa…».
Le due bambine si prestarono serenamente per la visita di rito.
«Non hanno nulla di grave, per fortuna,» disse il Dottor Lasca a Caterina, «ma devono riposare a lungo. È necessaria anche una cura specifica, poi le dirò quando potrà raggiungermi nel mio studio a Fumarolo».
Dopodiché il Dottore si diresse a brevi passi verso il cieco:
«Shalom aleichem, giujuzza!» disse sottovoce lisciandogli una guancia. «Ti devo dire una cosa: scappa appena puoi! Scappa! Quell’uomo che ti sta dando riparo è malvagio! Lo conosco bene, se potesse farebbe impalare pure a me che gli curo i dolori fino in casa! Devi andare via prima che lui… sappia…» e prese la strada di ritorno alla sua frazione.
Dopo poche e tormentate ore di sonno, Annagrazia si svegliò. Sudatissima, andò in bagno. Allo specchio, senza niente addosso, s’osservò alla meglio per alcuni minuti. A tu per tu con se stessa, si vedeva con gli occhi gonfi e arrossati, il seno cadente, che pareva essere stato munto per giorni, le gambe segnate dalla cellulite e i capelli come lunghi e arricciati fili di gramigna. Immerse un dito nell’acqua per saggiarne la temperatura. Era caldissima. Man mano che vi prendeva confidenza, si sentiva più leggera, sollevata. Ma durò poco. Ogni molecola d’ossigeno a lambire la punta del suo indice la portava indietro negli anni, quando la madre le diceva di non farsi mai il bagno al cospetto di uomini. Sorrise amaramente come allora. Poi entrò nella vasca con molta cautela. E lì si sfiorava il corpo, pensando. Annagrazia era triste ma non ne capiva ancora il motivo. Più l’acqua, che si faceva tiepida e immobile col passare dei minuti, l’avvolgeva col suo indefinibile abbraccio, più lei si lasciava andare a quell’incerto malessere. Tutta la potenza alchemica dell’acqua era nella sua testa, nelle sue braccia, nelle sue unghie, ineludibilmente, come lei, poco a poco, era in essa ma senza più testa, senza più braccia e senza più unghie. Un frigido tocco di mano sul seno la svegliò improvvisamente dalla stasi. Era suo padre.
«Vieni qua, Annarella mia! Vieni qua! Ché ti faccio…».
«Lasciami, padre! Lasciami…».
«Non gridare, cretina! Ché? Mi vuoi far passar guai?».
Con un soffocato gemito, Annagrazia, aggrappandosi in lacrime al bordo-vasca, s’inginocchiò al padre senza obiezioni, facendo suo quel ruolo che la vita le aveva assegnato: gracile e mansueta, lasciava che Celi affondasse i suoi colpi terribili su di lei come lame nel burro, e la picchiasse selvaggiamente sul volto per provarne più piacere.
«Ora torna nella tua camera» le disse Celi appena ebbe finito, «e mi raccomando…».
Era giunto sabato. La giornata era meravigliosa. Nella campagna circostante la villa dei Rùsteghi, la primavera si sfrondava di ogni esitazione; i rondoni preparavano i loro nidi e, in continui svolazzi su per le marine, buscavano spasmodicamente cibo per i rondinotti affamati; le api giravano da capo a capo alla ricerca di nuovi fiori, e così le formiche, a terra, per qualche spicciolo di nutrimento. Il cieco, cui Celi aveva dato il permesso di rimanere lavorando, era vicino ad Amina quando accese due candele ed iniziò a recitare il Kiddush. Le altre bambine lo guardavano stupite, meravigliate. La sua espressione era gioiosa, serena, come se stesse davvero a contatto con Dio, con la luce, accendendosi in un sorriso tanto dolce e spontaneo che veniva da baciarlo subitamente alle labbra.
«Cos’è questa farsa?  Chi sunu ‘sti cannili?» disse Celi, accorso all’improvviso.
«Tu… piccolo verme! Vèni cca! Chi stai facennu? Ora ti faccio sputare dalla bocca tutto il rancio di questa settimana, abbreu!».
«Fermo, fermo, che vuoi fare?» urlarono in coro Caterina e le figlie.
Agganciandolo per una manica, Celi portò a scapaccioni il cieco nel letamaio del gallo defunto. Lo spogliò nudo, lo tirò per i capelli, lo fece rotolare nel fango e glielo fece inghiottire. E quello, il ragazzino, ancora sorrideva come niente gli stesse accadendo: in ogni muscolo del corpo, insudiciato, ma comunque capace di rialzarsi a ogni colpo.
«Ti scippu macari gl’incisivi, cani rugnusu!» gli disse Celi. E così fece. Con una grossa pinza sradicò i denti del cieco e li gettò nelle gabbie dei suoi tacchini. Infine afferrò un sarchio arrugginito e gli fracassò il cranio da parte a parte.
«E voi che c’avete da guardarmi in faccia?» disse alle figlie appena tornato a casa, con gli occhi rossi e le mani sporche di sangue.
«È mezzogiorno, dobbiamo mangiare».
 
 
 
 
 

[1] Nascondi, nascondi, che tutto sembra. Le magagne (o i guai) non si possono celare a lungo.
   
 
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