Anime & Manga > Creepypasta
Segui la storia  |       
Autore: Made of Snow and Dreams    17/06/2016    0 recensioni
Anche i traumi più lievi possono divenire insormontabili da superare, se lasciati a una bambina di appena tre anni. Specie se nessuno si premura di starle accanto, impedendone il lento declino mentale.
------------------
Storia di una mia Oc.
Genere: Dark, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Memorie di una dannata
 
 
 
 
 
Odi et amo.
Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
(Catullo, LXXXV)
 
 
 


Non aveva mai conosciuto sua madre. O forse, non ne aveva avuto il tempo.
Aveva abbandonato la loro casa esattamente tre mesi dopo il suo terzo compleanno. Non ricordava molto di quel giorno, lei che passava la maggior parte del suo tempo in giardino, nascosta tra i mille girasoli e le mille erbette di campo, trovando rifugio solo nel corrompere il suo udito, costringendolo a concentrarsi solo sul canto dei grilli, o sugli uggiolii del loro cane.

La minuscola lacrima che scendeva ogni giorno sulla sua guancia, lenta e bruciante, era solo l’effetto di tutti i loro litigi, della loro ostinazione nell’affidare alle ombre i loro segreti, le loro avventure, i loro tradimenti, le loro menzogne; entrambi avevano colpe se, ora, il loro matrimonio si ergeva sull’altare spoglio, polveroso, dimenticato da tutti.

Da tutti, meno che da lei. Lei, che sfiorava con assoluta devozione il tessuto ancora candido, puro, fissandolo intensamente con occhi lucidi e rassegnati, e speranzosi. Pregava la sua sacra reliquia affinché riportasse le cose alla normalità di un tempo.
Ma poi la porta si spalancava con un brusco impeto, e la figura imperiosa di suo padre appariva per salvarla da tutte le sue riflessioni e le sue silenziose preghiere, attraversando con veloci falcate l’erba illuminata dalla rugiada e prendendo sua figlia in braccio, strappandola a quel triste incantesimo.
Era il loro rituale, abbandonarsi al buio e ritrovarsi, con le lacrime asciugate, illuminati dalla luce.
Era solo in quel momento che la bambina poteva amare ed ammirare suo padre, vantandosi del loro sangue condiviso, della loro stessa carne, dei loro stessi corpi. D’altronde, era sempre fonte di piacere il poter sfiorare, in una carezza lieve e delicata, quelle ciocche ramate con la punta delle dita, il poter disegnare i suoi tratti somatici per confrontarli con i propri, e confermare con un sorriso che erano gli stessi. Anche lui sorrideva quando la vedeva felice, ed era questa la ragione per cui Louiselle sorrideva sempre.
 

Aveva abbandonato la loro casa esattamente tre mesi dopo il compleanno della bambina, la madre di Louiselle.

Ricordava vagamente, spesso preda del tenue e malinconico bagliore di una candela accesa distrattamente, l’affetto che aveva elargito a quella donna, ricambiato come solo una madre amorevole può fare: i giochetti di parole, le filastrocche, le ninna nanne; il tempo impiegato a narrare storie su draghi distruttivi e su inarrestabili cavalieri e principesse da salvare; le energie spese per deporla delicatamente sul letto per farla ridere, solleticandole il ventre gracile o il collo esile, ridendo delle sue lacrime felici, o delle sue risate; il tempo impiegato a prepararle il biberon, o le pastine in brodo per non farle sentire un dolore aggiuntivo, nel periodo in cui i denti iniziano a spingere da dentro le gengive per imparare ad adempiere il loro compito; il tempo dedicato a camminare insieme a lei, tenendole saldamente le manine durante i primi passi; il tempo per farla crescere sana e forte, e felice.
Sì, in tutto quel periodo di tempo era stata felice. Aveva l’affetto di una madre e l’affetto di un padre, e nessuna nuvola a offuscare l’orizzonte sereno.

La minuscola lacrima che scendeva ogni giorno, lenta e bruciante, sulla sua guancia, era tutta colpa sua.
Lei, che passava il tempo a struggersi piangendo, torturandosi il cuoio capelluto con le unghie, scompigliandosi i capelli castani, rivolgendo occhiate rabbiose a suo papà, a suo marito.
Lei, che gettava i piatti sul pavimento, lasciando che le sue urla intrise di odio e delusione risuonassero tra le pareti del lungo corridoio, rimbalzassero sugli stipiti delle porte e le ringhiere dei balconi, che rimanessero incantate in ogni singola stanza, che impregnassero le camere di tutta la disperazione, che ristagnassero negli anfratti più bui, come per costringere tutti a ricordare. Per lasciare una traccia di se stessa con la forza, per vendetta. Una maledizione.
Che balzassero fuori e la raggiungessero, sussurrandole prepotentemente nelle orecchie che era appena stata tradita, che suo papà era solo un infame, un bastardo, un verme. Che era tutta colpa sua se ora il loro legame era spezzato. Che non poteva continuare a vivere sotto lo stesso tetto con un traditore, che non poteva essere più toccata da quelle mani e da quelle labbra maschili, da quel corpo sudicio.
Scoperta la vergogna, suo padre era solo da odiare e sua madre da compatire, da consolare.
Ma con quale forza poteva dimostrare d’essere una brava figlia, se dopo ogni litigio era sempre e solo suo padre che giungeva a consolarla, sfiorandole i capelli ramati, prendendola in braccio per stringerla forte, mormorandole con gli occhi e il solo respiro tra quegli stessi capelli – così simili, e così uguali - mute parole di scusa.

Lui le asciugava le lacrime, lui le trasmetteva fiducia nel momento più drammatico della sua infanzia. Lui le prometteva che, qualsiasi cosa fosse accaduta, non l’avrebbe mai abbandonata.
Lui, sempre e solo lui.
Le sue grandi mani gentili, a rivestirla del pigiama bianco e a pettinarle i capelli, al posto di lei.
Le sue labbra carnose e morbide, piacevoli da sentire sulla fronte, dopo averle vedute schiudersi per assicurarle la sua protezione invisibile anche dalle ombre notturne.
Lui, sempre presente a cullarla per farle interrompere il pianto, sollevandola in aria per farla volteggiare in ampi cerchi, con le sue mani – così grandi, e così gentili - a stringerle la vita per non farla cadere, mentre lei rideva del vento tra le dita, e dell’adrenalina tra gli occhi.
La sua impalcatura. L’unico che la rendesse serena.
Quando erano da soli, padre e figlia, le urla di rabbia e quel pianto isterico cessavano di rimbombare nella sua mente.
Rideva anche lui, se era con lei. Dimenticandosi di quella donna, madre e moglie allo stesso tempo, china sul suo letto, senza difese nel cercare di metabolizzare il tradimento subito per una sgualdrina come tante.
 

Ricordava vagamente quel giorno, la piccola Louiselle.

La porta che sbatteva, quei passi affrettati per casa, e poi lungo la stradina sterrata; il corpo fasciato dal lungo soprabito, i capelli raccolti da uno chignon alto, la valigia in mano.
Non una parola, non un suono. Non un saluto, una promessa d’arrivederci, niente.
Gli uccellini avevano anche smesso di cantare, quel giorno. Il tempo si era bloccato in un secondo. Lo sguardo freddo di sua madre, troppo ferita per potersi girare e rivolgere una misera occhiata al frutto di quell’amore marcito. Il cielo argentato, senza una nuvola, senza il sole, senza il vento.
Poi sua madre sparì per sempre dalla sua vita, e la bambina tornò a respirare tra le lacrime d’abbandono, guardando suo padre con occhi diversi.
 
 
 
 
 




E’ solo la storia di una delle mie Oc, Louiselle. Gli antefatti che l’hanno spinta a desiderare con troppa veemenza, e a struggersi per i muti rifiuti continui.
Niente da dire su questa… cosa, perché non voglio spoilerare nulla; solo, grazie infinite a chi ha letto… ah, i commenti sono apprezzati, se ce ne saranno! ;)
Made of Snow and Dreams.
  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Creepypasta / Vai alla pagina dell'autore: Made of Snow and Dreams