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Autore: Gaia Bessie    19/06/2016    6 recensioni
N non ricorda nulla, se non che oggi è sempre martedì e che lei non è tornata. Quando chiede di Touko, Mei abbassa lo sguardo e deve costringersi a rispondere che, no, non sa dove sia. E spera che non torni mai.
«Forza» mormora Hope, ma si vede che anche lei sta perdendo le speranze. «Ripeti con me: oggi è...?».
N sospira, e si meraviglia di quel suono che s'infrange come uno stiletto nella crepa sul muro di fronte a lui. Non c'era, quella crepa, fino a qualche mese-anno-settimana-giorno prima, o lui non l'aveva mai notato. In ogni modo, è comparsa, e sembra così grande che potrebbe aprirsi per inghiottirlo senza lasciare nemmeno le ossa.
Potrebbe farlo. Sarebbe solamente un'altra parentesi in una sequela di giornate infinite e, alla fine, a lui non importerebbe nemmeno così tanto.
(...)«Martedì» N lo sputa fuori come se fosse la peggiore delle fatiche.
E c'è Mei che rabbrividisce in ogni nervo, l'infermiera Hope che scuote il capo, mentre N assapora il suono della parola, di quelle poche sillabe.
«Oggi è martedì».
Lo dice con una tale gioia che nessuno riesce a contraddirlo, e va bene così.
[Ferriswheelshipping]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mei, N, Nuovo personaggio, Touko
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Videogioco
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Avvertenze: contiene, nei paragrafi finali, tematiche delicate e opinioni non da me condivise.
La storia non tiene conto dell'esistenza di Bianco2 e Nero2 e fa fede solamente al videogioco.
Agitare bene prima dell'uso, può nuocere gravemente a te e a chi ti sta intorno.

 

 

 

Days gone by – I giorni perduti

 

 

Martedì.

 

«N? Riesci a sentirmi?» un cenno di assenso sbrigativo, dato di malavoglia, luce che entra nella stanza e ferisce gli occhi. «Mi sai dire che giorno è oggi?»

L'infermiera è vestita di un bianco che sa di detersivo preso a poco prezzo, e di ferro da stiro usato male, ma ha i capelli di un rosso talmente intenso che fa stare male.

N si copre il viso con le mani, cercando di resistere a quei colori troppo luminosi, e solo allora si accorge di essere vestito dello stesso bianco.

L'infermiera Hope lo guarda, con un sorriso sbiadito nell'insieme di colori accesi, e attende una risposta che lui è costretto a cavarsi dalla bocca, senza sapere bene da dove ha poi reperito quell'informazione.

«Perché non risponde?» Mei ha il viso arrossato per il freddo, schiaffeggiato dal vento che l'ha accompagnata fino all'ospedale. «Perché non dice mai nulla? Cos'ha che non va?».

L'infermiera la fulmina con uno sguardo di ghiaccio, così che N deve rabbrividire per lei. Ma sono comunque tutti troppo caldi, e allora non ha senso rabbrividire, dove ogni cosa è luce e sole, anche se lui si sente solamente un'altra ombra in una duna di sabbia.

«Non vogliamo metterti fretta, N» mormora Hope, e ha un sorriso che sa di caramelle. «Ma perché non provi comunque a rispondere alla mia domanda?».

N vorrebbe, ma spesso crede di aver dimenticato come si pronunciano le parole, o che suono dovrebbero avere. Quindi, quando risponde, non è mai sicuro di dove mettere gli accenti, o se si dica veramente così e lui non si sia messo a parlare una strana lingua aliena.

Da come lo guarda Mei, è molto probabile che sia così, perché ha gli occhi sgranati come se la stesse maledicendo con qualche strano rito domestico, e allora lui sta zitto e basta.

Mei continua a tirarsi da sola i capelli, quand'è nervosa, e quando parla con lui lo è sempre, ma perché deve parlare sola e N non risponde, non potrebbe mai. Ha quasi dimenticato che suono ha la sua voce, e riscoprirlo è un trauma sempre nuovo.

Però Mei continua a strattonare ciocche solitarie di capelli, e c'è da aver paura che se li strappi tutti dalla testa, prima o poi, e a N piacciono i capelli di Mei: hanno qualcosa di familiare, e quando lui la vede e lei sorride come si farebbe per un bambino, gli ricorda qualcosa. O qualcuno.

Ma di cosa, o chi, si tratti, N non saprebbe proprio dirlo.

N guarda l'infermiera, con gli occhi così spalancati che quasi sembrano scodelle, e tende le mani come per essere preso in braccio da un padre che, sulle spalle, non l'aveva mai portato.

Mei lo guarda quasi come se stesse per piangere, ed è un miracolo che non lo faccia davvero.

«Forza» mormora Hope, ma si vede che anche lei sta perdendo le speranze. «Ripeti con me: oggi è...?».

N sospira, e si meraviglia di quel suono che s'infrange come uno stiletto nella crepa sul muro di fronte a lui. Non c'era, quella crepa, fino a qualche mese-anno-settimana-giorno prima, o lui non l'aveva mai notato. In ogni modo, è comparsa, e sembra così grande che potrebbe aprirsi per inghiottirlo senza lasciare nemmeno le ossa.

Potrebbe farlo. Sarebbe solamente un'altra parentesi in una sequela di giornate infinite e, alla fine, a lui non importerebbe nemmeno così tanto.

«O-Oggi» N balbetta come un bambino che biascica le sue prime parole. «O-Oggi è-è...».

Mei si illumina, per un attimo, e ricorda quasi il vento che smuove dune di deserti senza fine. Qualcuno potrebbe amarla, in una vita o in un'altra, per quel modo che ha di sperare nelle cause perse, anche quando sembra impossibile ogni rimedio o soluzione.

«Martedì» N lo sputa fuori come se fosse la peggiore delle fatiche.

E c'è Mei che rabbrividisce in ogni nervo, l'infermiera Hope che scuote il capo, mentre N assapora il suono della parola, di quelle poche sillabe.

«Oggi è martedì».

Lo dice con una tale gioia che nessuno riesce a contraddirlo, e va bene così.

 

***

 

Martedì.

 

«N?» Mei lo scuote con una delicatezza che sa di piume e nuvole di zucchero. Tiene in equilibrio fra le braccia un vassoio di plastica grigia, deformata sul manico sinistro. «È ora di cena».

Lui non sembra sempre capire, così che lei deve armarsi di pazienza e spiegargli come si usano le posate e che la minestra va fatta raffreddare, prima di mandarla giù.

Qualche volta N impugna il coltello dal lato sbagliato, e lo lascia andar via solo quando si accorge che avrebbe potuto graffiarsi il palmo della mano.

«Vieni qui, su» Mei non è mai stanca, o arrabbiata, o fredda con lui: non ci riesce. E anche se per caso ne fosse in grado, N non sarebbe in grado di comprenderlo, o di ricordarlo.

Ha la memoria dei Magikarp. Non riesce a metabolizzare un avvenimento che, dopo una manciata di secondi, l'ha già dimenticato.

Ma ha anche quella docilità che è propria solamente dei bambini, quando si lascia imboccare da Mei, e le sorride anche, con gli occhi persi in un mondo nel quale lei non riesce nemmeno ad ambire di poter entrare.

«M-Martedì» mormora N. Ogni giorno si meraviglia così tanto di quella parola, l'unica che subito riesce a ricordarsi. E Mei non riesce a sentirla più.

«No, N» sussurra, anche se l'infermiera le ha sconsigliato di spiegargli che è congelato nel suo eterno martedì. Solo che lui non l'ascolta. «Non ricordi? Ormai è passato».

N la guarda come se Mei gli stesse raccontando una fiaba, e pende dalle sue labbra come un bambino con il papà che, di favole, non ne conosce nessuna.

«E lei dov'è?».

Mei annichilisce, sotto il peso di quella domanda. Di lei si ricorda. Con cadenza bisettimanale, di lei chiede sempre, senza ricordarsi che se n'è andata: è perduta, sparita, dimenticata. Non si sente più parlare di lei, nessuno sa dove sia finita. E Mei non ha la minima intenzione di cercarla.

Dubita che la ex Campionessa verrà mai a Soffiolieve, e se mai dovesse tornare, N non la ricorderebbe.

«Lei chi, N?» domanda Mei, sperando di riuscire a confonderlo. Sperando che le chieda lei chi, e allora si possa mentire, ancora.

Ma N le stringe la mano e sembra quasi sul punto di piangere, quando le risponde.

«Dov'è?» domanda, e ha la voce lurida di pianto. Sta cercando di ricordarsi un nome che non pronuncia da mesi-giorni-settimane-anni.

«Non lo so, N» mormora lei, dolcemente. Ed è una mezza verità, l'unica che gli potrà mai concedere.

«Dov'è?» suona così disperato che, per un attimo, Mei vorrebbe avere una risposta a quella domanda. «Touko».

Mei non gli risponde, ha gli occhi pieni di lacrime: ha ricordato il suo nome.

 

***

 

Martedì.

 

Mei gli legge romanzi quando il sole comincia a tramontare, e N finge di ascoltarla, ma s'illumina soltanto quando la protagonista ha la coda di cavallo o gli occhi azzurri, e lei, a sua volta, fa finta di non notarlo.

Il vento rumoreggia che sia tornata, ma nessuno l'ha vista, tantomeno N.

Hope ha detto a Mei che forse dovrebbe andare a cercarla, che forse è l'unica in grado di fargli ricordare qualcosa, che forse. Ma Mei non vuole.

Mei vorrebbe solamente urlare che lei non c'era, quando N aveva bisogno di lei, non c'era mai stata. Era solamente una ragazzina fotuttamente egoista, che aveva lasciato N in un bagno turco di ricordi montati male. E lei invece c'era sempre stata, solo che lui non se ne riusciva a rendere minimamente conto.

Era stata Mei ad imboccarlo, lavarlo, vestirlo, parlargli, ascoltarlo mentre parlava nel sonno – e chiamava Touko – o mentre non si ricordava dove fosse. E cercava una ruota paronamica, e a Mei si stringeva il cuore, nel pensare che sebbene N non lo ricordasse, ancora stava aspettando Touko.

«N?» lo chiama, e riverberi di disperazione le colano su ogni suono che emette. «Ti ricordi che giorno è oggi?».

È il suo compleanno, il suo sedicesimo compleanno, ma è troppo orgogliosa per dirglielo lei. Vorrebbe che si ricordasse che è passato quasi un anno, da quando ha perso ogni concezione di spazio e tempo, per divenire un'appendice di Mei, quasi alla pari di un braccio o di una gamba.

«Martedì».

Mei scuote il capo, e i capelli le ombreggiano il viso, ed è quasi sicuro che N nemmeno sia conscio che lei non è Touko, ma l'unica persona con abbastanza cuore da tollerare un ragazzo che non riesce a ricordarsi nemmeno le parole dette un minuto prima.

Ha giurato che l'avrebbe amato per sempre, a quindici anni, quando nel lieto fine si riesce ancora a sperare. Ha giurato che avrebbe scacciato il fantasma di Touko e, al suo posto, si sarebbe insinuata lei. E, in qualche modo il mercoledì sarebbe arrivato, sbloccando N da quella terra di giorni persi e sfumati nel deserto della sua mente.

Ha giurato ma, a volte, vorrebbe non averlo fatto.

 

***

 

Martedì.

 

È arrivata una lettera, ma Mei l'ha nascosta, e poi bruciata. Ha guardato il mittente, e un terrore antico le ha invaso ogni osso, ogni stilla di sangue nelle vene. Sta tornando.

Non l'ha detto a nessuno, e può fingere che la lettera non sia mai arrivata, ma lei lo sa. Sa che Touko sta tornando a cercarlo, e non vuole. Non può lasciarlo andare.

Non così.

 

***

 

Martedì.

 

«Mei! Lui ha il diritto di sapere!» Hope strilla, quasi batte i piedi sul pavimento, ma Mei non cede di un millimetro.

Sono arrivate altre lettere, e le avrebbe bruciate tutte, se Hope non le avesse intercettate.

N dorme come un bambino, innocente, inconsapevole. Non sa che, per tutta Unima, Touko lo sta cercando, vagando come un'anima in pena.

«Lei lo ha abbandonato» sibila Mei, gli occhi ridotti a due fessure. «Non merita che lui si ricordi di lei».

«Ma la ricorda già» osserva Hope, dolcemente. «Sembra che ricordi solo lei».

Mei abbassa lo sguardo, senza parlare. Silenziosa, l'infermiera le circonda le spalle con un braccio, con fare materno.

«Non puoi impedirlo, Mei. Solo sopportarlo».

 

***

 

Martedì.

 

Finché non torna e, a Mei, sembra che le debba esplodere il cuore. Touko arriva a Soffiolieve con il fiato mozzo e le ginocchia scorticate, come una bambina, ma con il cervello e la determinazione di una donna molto più anziana dei suoi diciannove anni.

Finché non torna e Mei la guarda come si farebbe con un idolo con la doratura scrostrata, e non sa più cosa dirle: aveva preparato così tanti discorsi che, alla fine, quello più idoneo è il silenzio.

«Lui dov'è?».

Mei accusa il colpo, il tono tagliente di Touko, e rabbrividisce. Tiene uno Snivy, un cucciolo, fra le braccia, come se dovesse darle conforto.

«Perché sei tornata?» bisbiglia Mei, con gli occhi lucidi. «Perché non potevi rimanere ovunque fossi scappata? Stavamo bene senza di te».

Ma Touko non si scompone minimamente, nemmeno davanti a una ragazzina che sta per piangere.

«Dovevo tornare» osserva, atona. «Non mi aspetto che tu capisca. Io non lo sapevo, che era così».

«Se è così, è grazie a te».

Mei pensa a N, a N che ha pianto Touko così tanto da sbiadire, quando credeva che non sarebbe più tornata, a ragione. Mei pensa a N che chissà che patti sacri, chissà che pozioni aveva assunto pur di dimenticare tutto. Ne aveva trovate così tante, di bacche e pozioni sconosciute, nella sua borsa, che non aveva identificato la responsabile della sua amnesia.

Chissà cosa cercava di dimenticare.

«Lo so» Touko china il capo, ma non si scalfisce. «Ma ora sono qui. E voglio rivederlo».

Chissà chi cercava di dimenticare.

«E pensi che lui ti voglia ancora?» strilla Mei. «Cosa devi avergli fatto, per costringerlo a dimenticare?».

Touko sorride, e sembra quasi che le si voglia spezzare in due il volto, come una maschera.

«Ho ucciso una persona».

A Mei tremano le mani.

 

***

 

???

 

Nel caldo soffocante di luci e suoni e colori troppo accesi, N la sente. È a metà fra un venticello e la bora, a metà fra il ricevere un bacio o uno schiaffo. E lui la sente, così dannatamente vicina, e non riesce a non chiedersi che giorno è.

Perché Touko è davanti a lui e sorride, dolcemente, strana, ed è alta almeno tre centimetri in più. E pericolosamente magra, spigolosa. Cerca una curva fra quegli angoli e non la trova.

«Perché sei tornata?» bisbiglia, e la voce esce a fatica, ma non se ne meraviglia più.

Ricorda.

«N, ascoltami» mormora lei. «Mi hai detto tu di andar via».

Ricordi?

«Ti avevo detto di andar via se volevi ucciderlo» sussurra. «L'hai fatto».

«Non era ancora vivo, N».

«Era una persona, ed era anche mio» N quasi piange, nel dirlo. «Potevi... Sei scappata per non dirmi che lo volevi uccidere».

Ricordi? Avevi detto che era ancora meno che una goccia di pensiero, eppure esisteva. E lo tenevi lì, dentro di te, ma non lo volevi, nemmeno un po'.

N sì. N lo voleva, quel bambino, se lo immaginava già.

«N, non avrebbe avuto vita, con me, con noi» Touko sembra già stanca. «A diciotto anni non potevo imparare a fare la mamma, a stento so allacciarmi le scarpe da sola!».

Ma lui l'avrebbe voluto, e l'avrebbe coccolato e viziato, e gli avrebbe letto tutte quelle favole che lui non aveva mai ascoltato. E avrebbe tenuto per mano lei, Touko, per ogni momento.

«Ma ora basta, N. Questa storia finisce qui» Touko ha qualcosa di implacabile, nello sguardo. «Non puoi rimanere qui a fare il malato immaginario. Io sono qui, sono viva. Forse ho sbagliato, forse ho fatto la scelta migliore fra tutte quelle possibili: non importa. Ma non puoi rimanere qui. Hai già perso troppi dei nostri giorni migliori».

N si alza in piedi. Nemmeno credeva di averle più, le gambe.

 

***

 

???

 

Quando Mei li vede uscire dalla stanza, sente il cuore fermarsi e suonare come le campane a morto.

N la tiene per mano, e lei un po' lo sorregge e un po' lo trascina, ma sorride, e sembra felice. Lui sembra ancora un quadro di neve e ghiaccio, sofferenza, e le guarda la pancia come se si aspettasse di trovare qualcosa, qualcuno, lì dentro.

«La perdonerà» mormora, al nulla. A Dei di cui non ricorda nemmeno il nome. «L'ha già perdonata».

Escono, e N non la saluta nemmeno. Non la ricorda.

Non ricorda che lei l'ha trovato che vagava nel nulla, senza sapere nemmeno il suo nome, e l'ha portato con sé, rinunciando al suo primo viaggio come allenatrice, per quello sconosciuto bello come una lama d'ombra, e altrettanto affilato.

È solo Touko che si volta, e le sorride, come per chiederle scusa.

«Grazie» sussurra, invece. E Mei, guardandola negli occhi, capisce perché.

Non se ne va il dolore, quello no, ma capisce come fa N ad amarla così tanto per ricordarla anche in una testa che non riesce ad andare oltre il martedì – che fosse il giorno in cui era scappata via? – e per volerla così tanto da dimenticare tutto il resto. Tranne lei.

Capisce che Touko non è solo bella, per quanto abbia occhi azzurri come oceani e una coda lunga dello stesso colore della buccia delle castagne. Capisce che lei l'ha marchiato a una profondità tale che lui non potrà mai desiderare nessun'altra. Nemmeno Mei.

Spariscono nella luce del giorno e, a lei, non viene nemmeno più da piangere, mentre li sente parlare, in lontananza, come se dovessero imparare a conoscersi nuovamente.

«Touko... mi puoi dire che giorno è oggi?».

«Oggi? Credo sia mercoledì».


 


Considerando che avrei un esame fra meno di una settimana, suppongo dovrei studiare. Ma, fra Boccaccio e Petrarca, mi è venuta in mente questa storia, e ho dovuto scriverla. Così, eccoci qui.

Non chiedetemi di spiegarla, a stento riesco a ragionare, ma suppongo di dovervi dare dei chiarimenti... ovviamente, se volete rimanere con quella sensazione di inconcluso che spero vivamente di aver trasmesso, non leggete quanto segue, perché sto per spiegarvi come avrebbe dovuto essere, se fossi stata in grado di scrivere senza tergiversare:

 

Un giorno, Touko scopre di essere incinta e lei, un bambino, a diciotto anni e con mille avventure davanti, non lo vuole. N, invece, sì. Lo vorrebbe per dimostrare a sé stesso di sapere essere un buon padre e, così, mette la ragazza davanti a una scelta: o rimanete entrambi con me, o te ne vai.

Ovviamente, Touko se ne va. E N decide di dimenticare, mescolando bacche sconosciute.

Viene ritrovato da Mei, che ha quindici anni e deve iniziare il suo percorso come allenatrice, al quale rinuncia proprio per il bell'N. Portato in ospedale, viene curato da Mei stessa e da Hope (gioco di parole molto idiota: Joy per i centri Pkm, Hope per gli ospedali. Hope and Joy. Ma sarò stupida), senza che riesca a recuperare la memoria. Continua a ricordarsi che è martedì, anche quando non lo è, e un nome, Touko.

 

Da qui, penso sia abbastanza comprensibile, perché rimane solo il finale.

Detto questo, spero vi sia piaciuta, perché per me è stato bello scriverlo dopo secoli di inattività.

Gaia Bessie.

   
 
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