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Autore: ness6_27    22/06/2016    0 recensioni
Due ragazzi rimangono da soli in una villa senza elettricità. Decisero di raccontarsi una storia per passare il tempo. La storia di una ragazza che si trasferisce controvoglia in un piccolo paesello, e diventa la protagonista insieme a un introverso ragazzo, di eventi piuttosto particolari, legati al folklore di quel paese. Tante storie popolari, tra lupi, spiriti, e altro. Non proprio cose di tutti i giorni.
Genere: Generale, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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“...e quindi?...”

“...”

 

Non era del tutto corretto dire che io non stessi tra i malati, almeno, non in quel momento almeno. Ero stata da pochi minuti dimessa. Dopo un buon mesetto di materassi antipiaghe, di pasta in bianco cotta male, di ascensori che volevano saperne davvero poco di funzionare, e soprattutto, dopo quella operazione, ero stata finalmente dimessa. Tremavo, più che per la contentezza che tutto fosse andato per il meglio, quanto per la libertà che si prova nel poter tornare a dormire nel tuo letto, dentro la tua stanzetta addobbata secondo i tuoi gusti. È poter tornare a vedere i cartoni sui canali satellitari senza che delle vecchiette che, ahimè, son diventate la tua compagnia per troppo tempo ti chiedano di passarla sul canale dove passano la loro soap opera preferita. È poter tornare a farti una doccia senza che un’infermiera ti osservi con svogliatezza, nella infausta possibilità che tu perda l’equilibrio e sbatta la testa.
Formalmente ormai, io ero fuori da quell’ospedale, estranea a tutto ciò. Praticamente, dovevo aspettare ancora una mezz’oretta. Restai in corridoio, girando freneticamente a destra e a manca, nel tentativo di ignorare la porta della mia stanza. Ma una cosa di questo genere non si può assolutamente ignorare, un groppo alla gola prima o poi fa sempre capolino e inizia a tormentarti lo stomaco e il cuore. Non puoi semplicemente ignorare una tua compagna di stanza molto più vicina a te come età, sulla quale purtroppo il destino aveva deciso di scagliarsi con odio e veemenza, quasi come se quella ragazzina avesse meritato tutto quell’odio a causa di chissà quale vita precedente perversa e cattiva.
Molti giustificano il fato cattivo con questa scusa delle vite precedenti. Ma chi verifica che una persona sfortunata sia stata ingiusta nella sua vita precedente? Io non riesco, non riesco a crederci. Non mi capacito di come una figura tanto angelica e soave come quella di Nikola. Non era una figura che pretendesse vittoria, anzi, aveva forse subito tutte le sconfitte possibili. I medici le avevano dato al massimo un anno, ma a seguito di certe ricadute questa stima è calata drasticamente. Non riesco nemmeno a pensare a una cosa simile, posso solo stare immensamente male per lei.
Ciò non toglie che io non posso uscire da quell’ospedale senza averla prima salutata. Non dopo i pomeriggi che mi aveva fatto passare lì, tranquilli e spensierati, tra una partitina a carte e una a Monopoly. Ingoiai quel boccone amaro e aprii la porta. La stanza era ormai tetra, la luce del sole era andata a illuminare altre notti, e aveva lasciato spazio alla nostra sera. Sulla destra una signora anziana aveva già da un pezzo deciso che era ora di dormire russando, e il suo angolo era completamente al buio, illuminato solo da alcuni led della testata del suo letto e di chissà quale apparecchio alla quale era attaccata.
Il lato di Nikola invece risplendeva ancora grazie alla abat-jour che lei amava tenere anche durante il sonno. Ma lei non dormiva, era attentamente immersa in un romanzo di formazione. Hosseini?...No, no era Hesse. Peter Camenzind era il romanzo. Aperta la porta il suo sguardo accigliato verso il libro si trasformò in un dolcissimo sorriso diretto a me. Lei sapeva, aveva capito già prima di vedermi così, nelle mie vesti casual con tanto di borsa a tracolla, quando mi hanno fatto sloggiare dal mio letto.
“Sono davvero felicissima per te.”
Quelle parole mi colpirono il cuore, e mi lacerarono la gola. Il suo camice col quale l’ho sempre vista vestita, la flebo che aveva sempre attaccata al braccio, il suo sguardo speranzoso per me. Cosa diamine doveva sperare per me? Non ero che una normalissima adolescente come tante altri, tonta, con i miei problemi come tutti, forse un po’ di più, forse un po’ di meno.
Mi sentivo morire io al posto suo. Mi convinsi pure che Nikola avrebbe trovato offensivo quel comportamento, pur di riuscire a smettere di provare quel dolore, ma era più forte di me.
“T...ti ringrazio. Grazie per tutto quello che hai fatto per me.”
Con tutte e due le braccia mi indicò di avvicinarsi e di farsi abbracciare. Scoppiai in lacrime, singhiozzai, non volevo piangere, ma sarebbe pure stato ingiusto se le lacrime non avessero rigato il mio viso, in quella situazione.
“Dio...io sono sicura, sicurissima, che tu ce la farai a uscire di qui…”
“Ancora che nomini Dio? - accennò una risata disillusa e sommessa - Dio è qui per queste cose, non ti ascolterà.”
“A...a provare, anche per poco, la contentezza che io ho provato girando liberamente nel corridoio qui fuori.”
Lei incomincio ad accarezzarmi la testa.
“Purtroppo non succederà. Io resterò qui, ma non disperarti. Io proverò la gioia di essermi solamente passata vizi e capricci, senza aver mai affrontato grandi sfide...”
Il cinismo che aveva incomiciato a mostrare dopo le sue ultime prognosi riusciva a divorare anche me, privandomi della capacità di voler guardare avanti con determinazione. Con l’unica voglia di accasciarsi a terra e aspettare un caldo abbraccio che mai sarebbe arrivato. Mi abbracciò lei, con un calore che il suo corpo nemmeno sapeva ormai produrre.
“Io ormai sono soddisfatta...ignoro tutte le altri soddisfazioni che la vita, insieme agli oneri, mi avrebbe riservato se fossi uscita da qui. Ma non uscirò, e non è un problema...sono stata a concerti, in gita in posti lontani, ho letto tanto...”
Data la mia giovane età, non potei fare a meno di mostrarmi curiosa su un grandissimo mistero celato dietro tanti giochi bambineschi quanto maliziosi.
“Hai anche...insomma…”
Non sapevo nemmeno io che cosa mi saltasse in testa in quel momento, diventai rossa, e la testa iniziò a bruciarmi.
Nikola, dall’alto dei suoi diciassette anni, ridacchiò come la donna di classe che sarebbe stata, se solo ne avesse avuto la possibilità, e fece cenno di sì con la testa. Io, dal basso dei miei quattordici anni, non sapevo ancora come si trasmettesse l’immunodeficenza acquisita. Sapevo solo che il male che l’aveva colpita era dentro di lei da anni, e che quando le era stato trovato erano riusciti a bloccarlo, ma che purtroppo aveva causato altri danni ormai irreparabili, come un tumore al cervello.
“Tu ancora non hai fatto questa esperienza, vero?”
Risposi imbarazzata di no.
“È...forse il più estremo atto di egoismo che l’uomo possa mai compiere. Bisogna essere in due, ma ti viene il dubbio che tu lo faccia per te e per chi stai amando, oppure esclusivamente per te. In ogni caso, nessuno si vorrebbe mai negare un piacere simile.
Ritorni bambina, la testa ti diventa leggera, è tutto un fremito, inizi a vedere tutto bianco...ecco, se devi cercare Dio, devi farlo in questo momento. Perché, se è vero che un Dio c’ha fatto, io sono convinta ci abbia immaginato durante quest’estasi, ed è durante quest’estasi che possiamo tornare a lui, per sentirlo sulla nostra pelle, quasi come un soffio. Per un attimo.
Ma nell’estasi, Dio non ha ragionato proprio su tutto...ed è per questo che succedono cose come quelle che avvengono dentro il mio corpo…”
Allontanò di qualche centimetro il suo viso da me, e mi carezzò una guancia, guardandomi dritta dritta negli occhi.
“...ed è per questo che bisogna essere responsabili quando si fanno queste cose. Quando io lo feci, avevo l’età tua...è successo troppo presto, lo so… ma non me ne pento. Piuttosto, se di qualcosa mi dovessi pentire, mi pentirei della mia incoscienza nell’aver assecondato una sua richiesta, dettata dalla pigrizia...dal non voler spendere qualche koruna.”
Pur non avendo mai sentito quel nome, ci misi pochissimo a capire che quel termine indica la moneta della Repubblica Ceca, dalla quale Nikola proveniva. Ma non capii a cosa si riferisse.
“Ma tu, tu sei anche troppo attenta. Tu di questi errori non ne fai.”
La porta che si apriva ruppe il contatto fortissimo che c’era tra noi due in quel momento. I miei genitori che mi dicevano che era il momento di andare.
“Dai, e non ti preoccupare per me. Chissà che in quel momento...non rivedrò Dio.”
Ero ormai rotta. In qualsiasi senso. Rotta di pianto, rotta emotivamente, rotta dentro. Non riuscivo a parlare distintamente. A stento riuscii a darle un bacio di addio su una mano e ad augurarle sommessamente auguri. Auguri di cosa poi? Di guarigione? Non poteva guarire.
Mi ricordo che le augurai ogni bene possibile. Sarebbe stato più corretto dire ogni bene che le era rimasto. Ma non suonava bene. Inoltre, cosa le era rimasto? Il bene di morire il più in fretta possibile?
Le...le augurai la morte?
Ripensai a quelle parole in macchina, mentre tornavamo a casa, stranamente, erano l’unica cosa che non mi portava al pianto. Rabbrividii nello stesso momento che realizzai: tutto, tutto quanto nella sua situazione le causava dolore, apparte la morte stessa. Magari l’idea di morire le metteva angoscia, ma nel momento in cui sarebbe morta non avrebbe provato dolore, né per il momento in sé, né per nient’altro. La morte poteva annullare tutte le fatiche, tutte le paure, tutte le amerezze. Quasi, quasi come se la Morte fosse un Dio generoso che può donarti un solo, grandissimo, regalo, e che cerca di scegliere bene il momento in cui offrirtelo.
Ma solo la Morte aveva questo potere? Poter regalare un modo per non soffrire più? Io, io non ho provato a regalarle felicità in tutto il periodo che son stato lì? Non ci sono riuscita? Anche quando me ne sono andata...lei ha sorriso. Cosa sono? Non sono mica un Dio…
“Infatti!”
Alzai improvvisamente la testa, quasi mi fossi spaventata e irritata a ricevere una risposta così inaspettata all’improvviso. Mi guardai intorno. Durante lo scorrere di quei ricordi, mi ero spostata molte volte, senza nemmeno rendermene conto, e quando ho visto la stessa Giada che ero io a quattordici anni correre via dall’ospedale dirigendosi verso la macchina, incosciamente l’ho seguita. Mi ero seduta accanto a lei in macchina, e stavo ascoltando questi pensieri, anche se questa affermazione impertinente mi ha lasciato col dubbio che queste parole si stessero riformulando dopo tanto tempo nella mia testa.
Chi aveva parlato?

*--*

 

“Beh, io ho parlato, naturalmente!”
Giada continuò a scrutare la macchina ogni angolo, in cerca di quella voce dispettosa.
“Sono qui!”
Giada reagì con un urlo di spavento. Si girò verso la Giada di quattordici anni, e ritrovò invece una figura tetra e buia che le sogghignava. Tutti i toni caldi del paesaggio, degli interni dell’auto, di qualsiasi cosa Giada riuscisse a vedere, si persero, e lasciarono campo libero a toni scuri e freddi, che incupirono tutto quanto.
“C-chi sei? Tu non c’eri qui...né tanti anni fa, né ora!”
L’immagine che le si parava davanti non solo era scura di suo, ma intorno a lei navigava una spessa coltre di nero, che rendeva difficile riconoscere i suoi tratti. Quasi come in certe scene di Alice nel paese delle meraviglie: in certe scene Alice, del gatto del Cheshire, vede solo gli occhi e la bocca. In un certo senso era così anche per Giada.
Si riusciva a notare solo accessorio particolare sul suo vestito: alcuni merletti che adornavano le maniche nere, o le spalliere, del suo vestito. Giada notò pure la posizione che quella ragazza teneva dava l’idea di un certo rango di tanto tempo fa: osservava sorridendo e tenendo una mano in maniera abbastanza studiata sotto il mento, dondolandosici sopra l’intera testa.
“Io credo...credo che dovrei essere IO a chiedertelo!”
Un altro urlo uscì dalla gola della povera Giada, colta di sorpresa dal tono di voce, improvvisamente alzatosi, di quella losca. Ma non era solo questo. Non solo il tono, ma anche il timbro stesso durante quell’urlo era cambiato. Era sceso, ed era diventato in un certo senso distorto. Inoltre, bianchi bianchi, un paio di canini appunti vennero messi in bella mostra durante quel rimprovero.
“Smettila di spaventare così le persone!” disse un’altra voce femminile lontana lontana, della quale nulla si sapeva. La losca tirò gli occhi all’indietro in segno di stizza e scosse la testa.
“Sì Taja, sì! Lo sai che io di solito non mi altero mai! Ma capisci questa situazione?”
“Il problema è che ogni volta questo tipo di situazioni ti fa alterare, e spaventi altri evanescenza, che nemmeno conosci! Lo sai che questo ti si può ritorcere contro!”
La…”evanescenza”, che Giada aveva davanti non si era scomposta durante l’urlo, e non si stava scomponendo nemmeno in que momento.
“Come se una cosa simile accadesse ogni plenilunio!”
Uno sbuffo, e continuò.
“Inoltre, Taja, ti assicuro che nulla mi si può ritorcere contro se mi arrabbio CON TE! Quindi non mi seccare...”
Rivolse gli occhi nuovamente verso Giada.
“Allora...brutta storia, vero? - disse tornando a sogghignare - E non lo dico perché ho seguito con te questa storia, non ritenere violata la tua privacy. Lo intuivo dalla brutta cera che avevi.”
“Non hai risposto alla mia domanda, anche se forse non l’ho posta molto bene. Permettimi di correggermi.”
“Quale domanda?” Chiese maliziosamente.
“Non chi, ma che cosa sei?”
Le sue gambe, rigorosamente ricoperte da calze nere, si ricomposero dalla posizione accavallata che avevano fin da quando la losca era apparsa. Si avvicinò a Giada, sporgendosi in avanti, mostrando di nuovo i canini in un sorriso beffardo.
“Io sono quella che permea tutto qui. Almeno, in questo stato delle cose. E tu sei finita qui. Ma tu hai un’aura strana. Taja per una volta aveva ragione, mi succederebbe qualcosa se mi mettessi contro di te.”
L’aria spaventata di Giada infatti stava cambiando. Non stava diventando minacciosa, ma in ogni caso più decisa.
“Forse...forse hai proprio ragione. Ora toglimi una curiosità: dov’è questa Taja e…”
“Umh, cose che non importano, fidati.”
“...e COSA SEI TU?!”
Questa volta fu l’evanescenza in nero a sobbalzare per lo spavento, tanto da sbattere la testa contro il cielo dell’abitacolo.
“Bhe...immagino tu voglia sapere il mio nome. Luli, mi chiamo Luli. Sto in questo punto di questo stato delle cose perc…”
“Cosa intendi per ‘questo stato delle cose’? Dove siamo?”
“Che domande strane fai? Cos’è questo stato? Questo stato è ciò dove stiamo...e basta. Forse...forse qualcuno lo chiama Ònar.”
“Ma io non provengo da questo Ònar, come ci son finita qui?”
“Sei per caso ammattita? Da dove vorresti provenire, se non da questo stato delle cose?”
In una spinta di accecante rabbia, Giada afferrò Luli per il merletto sulle spalline, facendolo brillare di un bianco purissimo.
“Guarda che ti butto fuori in corsa?”
“Tu sei ammattita per davvero...corsa, quale corsa? L’auto non è più in corsa, non c’è più nemmeno il conducente!”
Giada si girò disorientata, e si accorse che, effettivamente, sul lato anteriore della macchina vi erano solo dei cenci sporchi buttati sui sedili.
“Inoltre non ti conviene buttarmi fuori dalla macchina. Perché si da il caso, mia cara, che sia tu con il tuo bagliore, a mantere in essere ancora questa macchina. Perché intorno non c’è più nulla di tuo.”
Giada mirò immediatamente fuori dai finestrini, e notò che tutto quanto era diventato buio.
“Come ti ho detto, io permeo tutto qui, e tu sei finita qui, un po’ come intrusa. Se tu mi buttassi fuori ora potrei fare della macchina e di te quello che voglio, e fidati che, visto come ti stai comportando, vorrei farti passare dei bruttissimi e lunghissimi momenti.
Riprese ad accennare una risata sommessa, con gli occhi che si scurirono ancora di più.
Giada iniziò a sentirsi confusa. Non era davvero questo il suo posto. Lei brillava, che ci faceva nel buio? A quale contrasto si opponeva? Piano piano ebbe sempre meno forza, fino a mollare la presa da Luli, ed accasciarsi a terra.
Luli, da seduta, si sentì sollevata, ma non abbassò la guardia.
“Ecco, fai la cosa migliore per tutti, mio caro splendore: sparisci, vai via da qui. A me non interessa più niente di te.”
Giada incominciò ad avere il respiro affannoso, la sua vista incominciò ad annebbiarsi. Tutto ritornò a un candore a lei familiare. Sentì premersi le spalle e i fianchi, mentre percepì uno strano appoggio per la testa.
Per un attimo, era tornata in auto, e stava ai piedi di quella ragazzina piena di speranze che tornava a casa.

“Io...io non sono un dio...ma sono comunque stata in grado di donare un po’ di felicità a chi ha perso ogni speranza!”

Risuonarono nella sua teste queste ultime infantili ma dolci parole, e poi il bianco.

 

*--*

 

Quando rinsavii, ero dolcemente sdraiata sotto un grande albero, non avrei saputo dire quale, punzecchiata dai raggi del sole che riuscivano a filtrare il fitto fogliame. In perfetta sintonia, il mio telefono aveva incominciato a suonare, facendomi ascoltare Ally Kerr.
“Every single night and day, I searched for you...” cantava.
“Cristo, da quanto suona?” pensai.
Guardai il display, era mia madre, forse aveva provato a chiamare già qualche volta.
“Pronto?”
“Giada, diamine! Dove sei finita? Cercavo di chiamarti da un pezzo!”
“Sì...scusami, ma io...”
“Ma...stai bene? Hai una voce che fa paura, sembra che tu abbia visto un fantasma!”
Preferì non scendere nei dettagli, mentre un leggero venticello mi scompigliava i capelli.
“No, vedi, io…”
“Non mi dire che...Giada, è quello che penso io, ti è successo di nuovo?”
Quando mia madre cambia repentinamente tono di voce perché si preoccupa mi mette un ansia del diavolo, dopo qualche sospiro risposi.
“Sì. Mi sa proprio di sì.”
“Ora stai bene? Dove ti trovi?”
“Non ne ho la minima idea...sono in campagna.”
Mentre mia madre continuava a tartassarmi di domande, mi alzai e, dandomi qualche colpo sui jeans per pulirli, mi guardai attorno. Notai subito tutta la città al di sotto dei miei piedi. Questo paesaggio non mi era del tutto nuovo.
“...ma lo sai che non è mai successo che finissi in un posto nel quale non sei mai stata!”
“Mamma, aspetta aspetta, credo di aver capito. Fammi vedere un attimo.”
Mi girai alle mie spalle e, come immaginavo, a duecento metri al massimo, vidi l’entrata del cimitero.
“Mamma, mamma, credo di aver capito: ti ricordi quando siamo arrivati qui, siamo passati dal cimitero e quando abbiamo bucato è spuntato quel maledetto custode che mi ha spaventato a morte? Ecco, sono vicinissima a quel punto. Non ho ben chiaro come ci sia arrivata, però qui ci sono tante stradine di campagna che fanno arrivare in quel punto e nelle colline qui sopra.”
“Oh, ho capito, ho capito. Quindi hai più meno idea di come tornare a casa? Perché io purtroppo sono bloccata.”
“Perché?”
“Ti ricordi quando è venuto lo stronzo del’idraulico che aveva trovato papà? Ha fatto solo più danni che altro, e dal tetto è praticamente esplosa una tubatura. Il fatto ancora più strano è che stiamo trovando TROPPA nappa, più sabbia e varie cose. Non so davvero questa casa che problemi abbia.”
Sospirai, pensando a quanti problemi aveva l’intera città. Nessuno poteva avere idea di quello che avevo passato.
“Va bene mamma, ora m’incammino per casa.”
Chiusi la chiamata con mia madre. Solo una volta tornata sola, pensai all’inizio di tutta la vicenda, a come fossi finita lì. Lo scialle. Il mio viso...la mia faccia! In che condizioni avevo la faccia?
Incominciai a toccarmi freneticamente il viso, non riuscendo a farmi bastare le guancie paffute e lisce che normalmente avevo, quasi come la pelle di pesca. Affannata, cercai qualcosa dove specchiarmi, voltai la testa più e più volte. Fino a quando non notai un pozzo. Pensai che molto probabilmente era pieno, e, visto il sole alto potevo tranquillamente specchiarmi nell’acqua. Corsi all’impazzata, rischiando di cadere di nuovo e una volta arrivata vidi il mio riflesso rosso, spossato dalla corsa e da tutto quello che era successo. Ma almeno era a posto, in tutto e per tutto.
Alzai un attimo la testa, e vidi un grandissimo cancello in ferro battuto, di quelli alti, con gli spuntoni di sopra, aperto. Immetteva in un grande giardino con una strada in ghiaino che conduceva alla casa, mentre tutto intorno vi era un giardino con tanti alberi che lasciavano tutto in ombra. Alla destra di questo cancello vidi una tavola di legno ormai rovinata dal tempo, con sopra inchiodato un cartello:“Villa Cascia”.
“Ah...quindi è questa.”
Era una villa abbastanza sobria, c’era da dire. Niente cornicioni giganti o cose così, ma tante grandi finestre...tutte chiuse. Non capii se fosse abitato. Incominciai a camminare, sempre più incuriosita verso l’interno, quando mi accorsi di una sedia a sdraio tra gli alberi sulla sinistra. Poteva essere del proprietario della casa...oppure poteva essere stata messa lì da qualche brava persona che si era convinta quello fosse un luogo per un campeggio. E quindi...forse quella villa era abbandonata.
Arrivai davanti l’ingresso. Una pesante porta di legno molto scuro, decorata con varie rifiniture. Una maniglia di ottone molto grande, che faticavo ad afferrare permetteva di entrare. La porta non era quindi chiusa a chiave.
Aprì, e mi ritrovai un uscio tutto buio, stranamente stretto, che non sapevo dove portasse perché non si vedeva nulla. Feci un passo, e la mia scarpa rimbombò con un suono soffocato sotto il pavimento durissimo in pietra, con piastrelle decorate a mano.
Una meraviglia dell’arredo antico. Ma putroppo per me, presa da così tanta curiosità, un monito ad andarmene. Il pavimento non aveva un minimo segno di polvere, e il colore risplendeva troppo bene per non essere stato curato in nessun modo.
Insomma, ci abitava qualcuno in quella casa. Era molto meglio che me ne andassi. Girai i tacchi, per essere colpita nuovamente dal sole, chiusi con molta delicatezza la pesante porta e soffocai la mia sempre più incessante curiosità tornandomene a casa.

  
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