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Autore: Tickle Tomo    26/06/2016    1 recensioni
"Niente poteva ferirlo lì nel luogo dove tutto era quieto vivere.
Non c’era niente che andasse male, nessun imprevisto o disgrazia.
Tranquillo e leggero, non c’era bisogno di aver fretta.
Silenzioso, non c’era bisogno di urlare per farsi sentire perché la sua voce riverberava cristallina in ogni millimetro d’aria senza che nemmeno aprisse bocca.
Il mondo ascoltava interessato, guardando con curiosità ogni suo movimento, senza mai giudicare."
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tranquillo e leggero.

Tenui sussurri, battiti d’ali silenziose, innocenti.

Si immerse nel tempo, trattenendo il respiro, trattenendo il cuore dallo scalpitare più del dovuto; si immerse nell’aria, denso e al contempo fluido. Seppe naturalmente, senza bisogno di eccessive valutazioni, che non c’era nulla da temere: era solo vita, orizzonte, sogno, dura pietra.

Ogni movimento rasentava un passo di danza: aggraziato, leggero, magari senza una vera e propria funzione o finalità, ma c’era, esisteva. Era un costante sussurrare, ondeggiare e lasciarsi cullare dal flusso del contemporaneo, qualcosa che lo accompagnava anche nel comune vivere. Solo che, in un contesto più ampio privo di grandi stimoli e interferenze, ne aveva finalmente preso coscienza.

Sentiva l’odio, il disprezzo, il sapore acre della leggera brezza che gli carezzava il vestiario. A tratti non la sentiva nemmeno sul viso, era più intensa e costante laggiù, dove i suoi piedi, inconsciamente, danzavano in prossimità della sfera consapevole e si arrestavano bruschi una volta giunti sull’orlo del mondo possibile.

Oltre c’era il baratro.

Dolce annullamento, oblio della coscienza.

Le sentiva appena le sue mani scorrere sui granelli freddi che circondavano l’orlo: alte mura di soffice sabbia gli impedivano il passo, ma i suoi piedi scavavano facilmente nel duro granito sottostante, fendendo le radici delle rose selvatiche che si infiltravano nelle arzigogolate fessure della pietra, per poi sbucare in pieno fiore dalle cascate di sabbia soprastanti.

La pietra era friabile, la sabbia imperscrutabile.

Avrebbe potuto accucciarsi sulle ginocchia, affondare le dita nella pietra e aprirsi un varco verso l’oblio, sentiva già il naso pizzicare in anticipazione. Era un odore interessante, non ne aveva mai percepito uno simile, così intenso, così anomalo, ma era sicuro che se il dolore avesse avuto un proprio odore sarebbe stato quello.

La presenza dell’odore senza l’immediata correlazione al dolore fisico rendeva l’esplorazione infinite volte più semplice, non c’era nessuna esitazione nei suoi pensieri e nei suoi gesti.

Niente poteva ferirlo lì nel luogo dove tutto era quieto vivere.

Non c’era niente che andasse male, nessun imprevisto o disgrazia.

Tranquillo e leggero, non c’era bisogno di aver fretta.

Silenzioso, non c’era bisogno di urlare per farsi sentire perché la sua voce riverberava cristallina in ogni millimetro d’aria senza che nemmeno aprisse bocca.

Il mondo ascoltava interessato, guardando con curiosità ogni suo movimento, senza mai giudicare.

Gli bastò una lievissima pressione e le sue dita sbriciolarono il granito, i detriti formatisi salirono verso l’alto andando ad unirsi all’impenetrabile sabbia del muro. Qualche secondo e il buco che era riuscito a scavare era abbastanza grande da concedergli di passare a carponi. Infilò la testa e le spalle nella fessura, osservando ciò che c’era oltre il muro.


Riaprì gli occhi, era di nuovo nella sua stanza. Le pareti bianche dormivano immobili, lì dove le aveva lasciate la sera prima. La luce mattiniera filtrava dalle imposte socchiuse illuminando metà della stanza, lì dove la sera prima aveva gettato con rabbia la sua tracolla e le chiavi dell’auto. Strabuzzando gli occhi si tirò su a sedere sul materasso e si passò una mano sul viso.

Sorpreso dall’improvvisa scoperta avvicinò i polpastrelli alle narici: avevano impresso l’odore di sabbia e di rose.

   
 
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