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Autore: Selene123    29/06/2016    1 recensioni
[La signora delle camelie]
[La signora delle camelie]Le riflessioni, in prima persona, di Armand sull'ultima notte passata insieme a Marguerite e l'umiliazione che le ha fatto subire: "Non facevo che pensare a Marguerite e a quel mio ridicolo gesto, sicuramente dettato dalla mia sciocca superbia, piuttosto che dalla ragione."
(le parti in corsivo sono brevi riferimenti letterali al testo di Dumas)
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta, PWP
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Non facevo che pensare a Marguerite e a quel mio ridicolo gesto, sicuramente dettato dalla mia sciocca superbia, piuttosto che dalla ragione. Dio solo sa come io abbia fatto a non rapirla, portarla in salvo da una vita che non le avrebbe concesso più molto! Mai avrei dovuto pensare di poter tornare ad essere il solo a cui lei avrebbe donato tutta se stessa, per l’ultima volta; eppure, vederla davanti a me, mostrarsi vera e reale come non è mai stata con nessuno, per un momento mi ha fatto sperare. Il suo volto, così perfetto nel pallore della malattia che avanzava giorno dopo giorno, coperto dalla veletta nera, mi ricordava i giorni in cui l’aria della campagna gli aveva restituito vigore, salute. Quella sera, i miei occhi vedevano, invece, una bambola di porcellana: una bellezza fragile, molto debole, che si sarebbe rotta al minimo sforzo per tossire. Marguerite parlava, mi chiedeva ora di dimenticarla senza svelarmi la vera ragione del suo allontanamento, ora di fare di lei tutto ciò che avrei voluto: non si sarebbe opposta, diceva; lei era lì per me, nonostante la febbre alta che la scuoteva in vistosi brividi freddi. Sapeva benissimo a quali pericoli stesse esponendo il suo corpo, tanto bello quanto delicato, ad attraversare Parigi in pieno inverno, nel cuore della notte. La ascoltavo mentre mi spiegava di aver obbedito ad un ordine imposto da non-avrei-potuto-ancora-sapere-chi, di un grande sacrificio, e il suono della sua voce mi rammentava ogni minuto di più perché l’avessi amata tanto e ancora non mi fossi dato pace. Perdono, mi domandava, per una scorrettezza per cui io avrei dovuto chiedere scusa, non lei. All’improvviso, Marguerite si interruppe e cominciò a tossire in modo rauco, sensibilmente malato: l’affanno che provava era tale che dovette slacciarsi il corsetto nero il più in fretta possibile, gettandolo sul divanetto alla sua sinistra. I suoi occhi erano rossi e lucidi, sembrava volesse piangere via il dolore fisico e anche quello morale. Sentii le mie gambe voler spontaneamente avvicinarsi a lei e le mie braccia stringerla, ma rimasi immobile, davanti alla porta da cui era entrata: sapevo che se le avessi tolto dello spazio per respirare, avrei causato la sua morte. Le mani diafane di Marguerite tremavano senza sosta, spostavano la veletta nera dal viso con un’agitata lentezza che non avevo mai visto prima. Ancora una volta, non riuscivo a capire cosa le passasse per la mente: quella ragazza era l’incarnazione dell’imprevedibilità ed io l’amavo anche per questo. Sentir chiedermi di mandare via il cocchiere fece battere il mio cuore all’impazzata, il sangue mi pulsava nelle tempie e in pochissimo tempo ero riuscito a compiere la volontà di Marguerite e rientrare in casa. Tornato in salotto, la vidi seduta sul canapè davanti al camino: tremava come una foglia, poverina, eppure si sforzava il più possibile di ritrovare in sé quel fascino che, a dirla tutta, io non avevo mai pensato che avesse perso. I suoi occhi profondi mi guardavano, sempre più umidi e rossi, con atteggiamento di sfida; credevo che mi avrebbe fulminato se non mi fossi avvicinato. Così feci e, un passo dopo l’altro, arrivai al canapè, l’afferrai tra le braccia e la sollevai. Era un corpo senza peso il suo, temevo quasi di romperla. Marguerite mi guardava, di tanto in tanto apriva leggermente le labbra livide per respirare e subito le richiudeva. Le sue gelide mani mi accarezzavano il viso con dolcezza. Cosa avrei dato perché quei momenti non fossero passati mai! Anche quando l’adagiai sul letto, Marguerite non si era decisa a dirmi nulla, né muovere un muscolo; la baciai e lei mi baciò, la strinsi tra le mie braccia e lei si lasciò stringere … Sfilandole piano il pesante abito di velluto nero, mi resi conto di quanto la malattia l’avesse consumata e ancora non si fosse placata: la sua pelle emaciata sembrava risplendere tanto era bianca, trasparente come un sottile velo di seta attraverso il quale potevo chiaramente distinguere i vasi sanguigni; nel tempo in cui non ci eravamo più visti Marguerite era dimagrita moltissimo, a sufficienza da lasciarmi sentire le costole più sporgenti di prima. Non sapevo davvero come mi sarei dovuto comportare, perché un solo movimento brusco l’avrebbe rotta in mille pezzetti. Quando le mie labbra toccavano le sue, però, un soffio improvviso di vita mi colpiva in faccia come il vento in campagna. Tutta la notte non feci che ricordarle quanto l’amassi e che mai mi sarei sognato di lasciarla andare via. Udendo quelle parole Marguerite aveva dei piccoli spasmi nervosi, come se avesse voluto impedirmi di ripeterle; e a quel tacito ordine io, che davanti a lei perdevo ogni briciolo di spina dorsale, ubbidivo.
La mattina dopo, mi svegliai (non che mi fossi mai addormentato davvero durante quelle ore) e la vidi distesa accanto a me, col respiro affannato e il viso rivolto verso la finestra. Marguerite cercava di non tossire per non fare rumore, ma percepivo comunque il suo sforzo nel trattenersi perché involontariamente muoveva il letto. Com’era bella! I lunghi capelli corvini lasciati cadere sulle spalle le incorniciavano il volto, sulle sue guance scendevano lacrime che la luce del giorno faceva brillare. Senza farmi notare, mi mossi per guardare l’ora: era presto, troppo presto per doverci separare e non poter uscire da quella casa insieme come un tempo. Le parole che la sera prima mi aveva detto risuonavano nella mia mente come un’eco in montagna: «A qualunque ora del giorno o della notte tu mi desideri, vieni, sarò tua, ma non legare mai più il tuo avvenire al mio, saresti troppo infelice e mi renderesti troppo infelice. Sarò bella ancora per qualche tempo, approfittane, ma non chiedermi altro» . Pensavo di essere diventato matto: la voce di Marguerite sembrava reale, credevo di sentirla parlare davvero! Mi girai di scatto dall’altra parte e la vidi vicinissima a me, voleva abbracciarmi e, nel farlo, mi ripeteva ciò che io ero convinto di udire solo nella mia mente. Le chiedevo se fosse partita con me per tornare nella nostra casa in campagna, ma lei rifiutava. Guardandola alzarsi e rivestirsi, mi veniva l’istinto di bloccarla e riportarla nel letto con me: subito capii, però, che sarebbe stato un vano sforzo il mio; non era ancora andata via che io già soffrivo per la sua mancanza. Uscita dalla mia camera e poi di casa, mi sentivo talmente scosso da tutto ciò che avevamo vissuto la notte passata che guardare la sua impronta lasciata sul cuscino era la mia unica consolazione. Passata la mia giornata senza fare nulla, seduto sotto le lenzuola, presi l’ardita decisione di presentarmi a casa di Marguerite inaspettatamente. Quando arrivai lì, la cameriera mi invitò ad andarmene: c’era il conte de N nell’appartamento e la signora non avrebbe potuto ricevere nessuno. Rientrai a casa come ubriaco e, colpito da un moto di gelosia enorme, la immaginavo insieme al conte con la stessa intenzione che aveva avuto con me. Senza riflettere, guidato soltanto dalla follia, presi una busta e la riempii con una banconota e un bigliettino, in cui le chiedevo scusa per non averla pagata subito: d’altronde, se n’era andata tanto in fretta quella mattina! Inviata la missiva tramite un cameriere, cercai subito di fuggire da ciò che avevo appena fatto e da me stesso andando a girovagare per Parigi. Sfortunatamente, però, ogni via mi parlava di lei, ogni carretto in cui le ragazzine vendevano bouquet esponeva delle camelie bianche e rosse – i suoi fiori preferiti. La rabbia mi faceva ribollire il sangue nelle vene, stringevo i pugni nelle tasche per non tirarmeli da solo; se mi fossi guardato allo specchio in quel momento, avrei vomitato per l’orrore che provavo per me stesso. In preda alla disperazione, andai da Olympe, la cortigiana che usavo da qualche tempo per fare ingelosire Marguerite: rispetto alla mia adorata amante, lei era quel tipo di donna che non sarebbe mai riuscita a consolare un dolore profondo quanto lo era il mio. Però ci aveva provato e per questo l’avevo pagata, ma a casa un dispiacere ancora più grande mi attendeva: il portiere mi consegnò una lettera, da parte di una signora che era subito partita per l’Inghilterra. Trattenni a stento un grido disperato, poi mi guardai intorno: sarei andato via anche io, nulla mi tratteneva più a Parigi, né l'odio, né l'amore.
            Quanto rimpiango averla umiliata in tal modo! Se solo potessi tornare indietro, sicuramente fermerei quell’incauto che sono stato e gli rimetterei in tasca la maledetta banconota che, invece, ho inserito nella busta. Per non parlare del biglietto: mai in vita mia ero riuscito a portare sulla carta parole tanto indegne, pensieri così oltraggiosi come quelli! E adesso è troppo tardi per chiederle scusa, per buttarmi ai suoi piedi e giurarle rispetto e amore. Marguerite è morta e con lei la mia capacità di amare qualcuno nonostante tutto. 
 
   
 
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