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Autore: Shadow writer    30/06/2016    0 recensioni
Ognuna di queste storie è ispirata ad una canzone, di cui porta il titolo, i frammenti e la musica.
Nei miei racconti ho cercato di descrivere la Vita, come i cantanti hanno espresso sulle note delle loro canzoni. Queste sono le storie, di Theo, che chiede solo un po' di tempo, di Jem che di tempo ne ha avuto fin troppo, di Talia che è arrivata troppo in alto, dopo essere stata troppo in basso, di Andy, che vuole smettere di credere negli altri, di Selene, che ha riposto troppa fiducia nelle persone, di Mila e Nathaniel, che amano la notte, e di tutti gli altri che vivono come noi, che sono come noi.
Perché alla fine, non siamo poi così diversi.
Genere: Commedia, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Take your time

(Sam Hunt)

 


Ognuno di questi racconti è ispirato da una canzone, di cui contiene la musica e i frammenti. Per questo consiglio di ascoltare la canzone prima e/o mentre lo si legge.

Ecco il link della canzone: https://m.youtube.com/watch?v=iXi6IHFHeIA


 
I don't wanna steal your freedom
I don't wanna change your mind
I don't have to make you love me
I just wanna take your time.
 
 
 
Mezzanotte meno un quarto.
L'orario di punta del The Moon significava un perenne brusio nella sala accompagnato dalle grida dei giocatori di biliardo. 
I boccali di birra scorrevano sul bancone di legno scuro con una cadenza quasi regolare, rapidamente afferrati dalle mani ruvide degli avventori oppure portati dalle cameriere di tavolo in tavolo.
Ero seduto sullo sgabello consunto del bancone e ascoltavo la musica del vecchio jukebox che il nostalgico proprietario si rifiutava di sostituire. 
Suonava Footlose di Kenny Loggins.
Alcune ragazze accennavano un balletto poco distante dai tavoli da biliardo e di tanto in tanto lanciavano occhiate agli uomini per capire con quali di loro ci potevano provare.
Anche lei era con quelle, ma stava seduta, con un sorriso imbarazzato e guardava il fondo del suo bicchiere sistemandosi i capelli dietro all'orecchio.
Solo quando un'amica la strattonava per la giacca di jeans alzava gli occhi e li faceva vagare verso la direzione indicata. Tutte le volte che succedeva, uno dei ragazzi intorno al biliardo le faceva un cenno come per assicurarsi che lei fosse ancora lì.
Bill, il proprietario zoppo, mi disse qualcosa e annuii senza farci troppo caso. Quando distolsi lo sguardo da lei, incrociai quello del ragazzo che giocava a biliardo. 
Aveva stampata nelle iridi una minaccia.
Un quarto d'ora più tardi mi trovavo sul mio sgabello d'onore, con la chitarra in mano e un microfono davanti alla bocca. Il jukebox non suonava più ma nessuno sembrò notare che lo avevo sostituito. 
Le dita facevano vibrare decise le corde e la mia voce roca rimbombava nelle casse del locale. 
Guardavo la sua nuca sottile, e il piccolo tatuaggio nero che si delineava su quella pelle chiara. 
Un forte grido esultante mi distolse dalla contemplazione e spostai gli occhi al tavolo da biliardo, dove i giocatori si battevano pacche di vittoria deridendo gli sconfitti.
Cantai fino a tarda notte, mentre pian piano il locale si svuotava. Se ne andavano sempre i più responsabili per primi, poi i mezzi ubriachi e rimanevano quelli senza un piano preciso, senza un impegno per il giorno successivo.
Dopo l'ultima canzone, Bill mi allungò un bicchiere colmo della mia ricompensa e lo feci scorrere lungo la gola secca. C'erano ancora una quindicina di persone nel bar, ma i giocatori di biliardo se ne erano andati non molto tempo prima facendo una gran baccano, troppo pieni di alcol per sapere veramente ciò che stavano facendo.
Salutai il proprietario del The Moon e mi diressi verso l'uscita con la custodia della chitarra sulla spalla. La giacca di pelle che indossavo non attutì immediatamente l'aria fredda e un brivido corse lungo la mia schiena.
O forse non fu il freddo.
Lei era accanto alla porta, con una sigaretta accesa tra le mani e l'aria spaurita.
Quando mi vide, mi rivolse uno sguardo penetrante espirando il fumo dal naso.
Le rivolsi un cenno di saluto e lei replicò: «Di solito non fumo»
La mia espressione perplessa le strappò un mezzo sorriso, così aggiunse: «Scusa, credo di essere ubriaca e quando lo sono parlo a ruota libera»
«Sei carina da ubriaca» commentai senza muovermi.
Lei assunse un atteggiamento vagamente difensivo, si guardò attorno, strinse gli occhi, li sgranò, poi commentò: «Credo che Parker ti odi, sai?» 
«Lui odia chiunque si trovi in prossimità della sua ragazza, non puoi farmene una colpa»
Sorrise con aria rilassata, poi si portò la sigaretta alle labbra, ma sussultò e lasciò cadere il mozzicone a terra imprecando.
Risi sottovoce e lei si finse imbronciata.
«Si vede che non sei brava a fumare» commentai.
«Mi sono scottata, abbi un po' di compassione» replicò lei con voce lamentosa. 
Raccolse educatamente il mozzicone e lo gettò nel cestino accanto alla porta, poi barcollò verso il parcheggio. 
Le sue gambe sottili che sbucavano dalla giacca di jeans incespicavano e le suole di gomma dei suoi anfibi alzavano sbuffi di polvere dal terreno.
«Dove stai andando?» le chiese inseguendola.
Lei si voltò facendo svolazzare i suoi capelli, così mentre rispondeva se li sistemò dietro all'orecchio: «A casa. La cosa ti disturba?»
«Non farai un metro in queste condizioni» replicai sistemandomi la custodia sulla spalla. Lei si avvicinò ad un'auto a caso, così le corsi dietro e la bloccai piazzandomi tra lei e il veicolo.
«Forza, ti porto a casa io»
«Mhh...» mugugnò lei poco convinta, ma si voltò e ritornò sui propri passi. Credendo che mi avesse ascoltato, andai verso il mio vecchio pick-up.
Quando lo aprii mi resi conto che però stava ancora vagando per il parcheggio.
«Ethel» la richiamai.
«Che c'è?»
«Sali in macchina»
Esitò.
«Parker ti odia»
«Stai diventando noiosa» commentai sbuffando.
Le mie parole parvero convincerla perché si avvicinò instabile sulle sue gambe e spalancò la portiera del passeggero. Crollò sul sedile e abbandonò il capo sul poggiatesta. 
Misi in moto il pick-up e mi infilai nella strada buia. I fanali tagliavano le tenebre perché i lampioni radi non erano sufficienti a rischiarare l'asfalto.
Per rompere il silenzio dell'abitacolo accesi la radio e la voce di Joe Strummer in Ramshackle Day Parade uscì dolcemente dalle casse.
Ethel cantava sottovoce, con gli occhi socchiusi e la testa inclinata indietro. Mi persi nel guardarla e per poco non finii fuori strada. Risvegliata dallo sbandamento, lei sollevò leggermente le palpebre, ma per il resto rimase immobile. Sentivo l'odore di fumo che emanavano i suoi vestiti e il suo profumo nascosto sotto la stoffa.
«Stai bene?» le chiesi ad un tratto.
«Perché me lo chiedi?» chiese con un'improvvisa sfumatura di aggressività nella voce.
«Sto cercando di fare conversazione» replicai difendendomi. 
«Perché non chiedi direttamente ciò che vuoi sapere così accorciamo i tempi?»
Non potevo prendermela con lei perché aveva perfettamente ragione. La mia vera domanda era un'altra.
«Come va con Parker?» ritentai e la sentii abbandonarsi sul sedile.
«Bene» rispose. Conversazione chiusa.
Mi concentrai sulla strada che aveva smesso di zigzagare tra gli alberi e si era fatta più rettilinea ma non meno scura. La mia era l'unica auto che la percorreva e anche durante il giorno era quasi perennemente deserta.
«Dove ti porto?» domandai qualche istante più tardi.
Ethel smise di cantare con Billy Joe alla radio e sollevò le palpebre.
«A casa mia» il suo tono non ammetteva repliche. Sapevo che si sarebbe potuta inventare un migliaio di scuse per cui non dormiva a casa del suo ragazzo, ma se non aveva voluto sfoderarne neanche una, non sarei stato io ad insistere.
Mi diressi verso la zona abitata e fermai il pick-up davanti alla sua vecchia abitazione.
Ethel si raddrizzò con un verso e spalancò malamente la portiera, senza però alzarsi, non ancora.
«Grazie» mugugnò più in modo meccanico che perché ci tenesse davvero.
«Riesci ad alzarti?» 
«Non credo di aver ancora raggiunto quel livello» replicò lei e per dimostrarmi che avevo torto si tirò in piedi.
«'notte» le dissi mentre si avvicinava alla veranda, ma lei non replicò.
Aspettai che azzeccasse la serratura con le chiavi, aprisse la porta e s'infilasse all'interno prima di rimettere in moto l'auto e defilarmi nella notte.
 
Quel venerdì notte erano tutti malinconici così mi adattai al loro umore e cantai canzoni malinconiche che portavano dentro di sé l'eco della tristezza. 
Il mio sguardo era attratto da quel piccolo tatuaggio sulla nuca sottile e dalle mani che sistemavano i capelli scuri dietro alle orecchie fino a quando Ethel si voltò e i suoi occhi incrociarono i miei. Le sue labbra si tesero leggermente in una sorta di sorriso rivolto verso di me.
Una delle sue amiche seguì la direzione del suo sguardo e quando scorse a chi era indirizzato, posò un braccio sulle sue spalle e la costrinse a voltarsi verso i tavoli da biliardo. Prima della fine della serata, deposi la mia chitarra e uscii dal retro per prendere una boccata d'aria.
«Oh, Theo» esclamò Ethel sussultando nel vedermi sbucare dalla porta. Era sola nel vicolo, questa volta non fumava e sembrava sobria.
«Scusa, non volevo spaventarti» commentai avvicinandomi. La luce del lampione illuminava il suo volto creando uno strano contrasto di chiaro scuro.
«Tutto bene?» le chiesi e come era già successo lei non rispose, ma replicò:
«Mi stai facendo la corte, Theo?»
Sorrisi e scossi il capo: «Mi piace parlare con te, ma non proverei mai a rubarti la tuo ragazzo»
Lei fece un sorriso timido e rivolse gli occhi al terreno mentre si sistemava i capelli dietro all'orecchio. Scoprì involontariamente la nuca e da quella distanza riuscii ad intuire la forma del tatuaggio: si trattava di un albero quasi simmetrico con i rami verso l'alto nella parte superiore e le radici verso il basso nella parte inferiore.
Nessuno dei due parlò per qualche istante, ma fissavamo il vicolo buio respirando l'aria che avevamo usato come scusa per uscire dal pub.
«Perché un albero?» le chiesi all'improvviso e ricevetti uno sguardo sorpreso ed interrogativo.
Scrollai le spalle a mo' di risposta, così lei sorrise e spostandosi i capelli dalla nuca rivelò il suo tatuaggio.
«Un albero si eleva verso il cielo con la forza delle radici che scendono salde verso il centro della terra» fu la sua risposta.
Fissai il disegno sulla sua pelle e finalmente capii il motivo della perfetta simmetria tra rami e radici.
Allungai una mano per accarezzare l'inchiostro, ma un rumore proveniente dalla porta alle nostre spalle mi costrinse a ritirare velocemente il braccio.
«Ethel?» una delle sue amiche di era affacciata sul vicolo. Faceva saltare gli occhi tra noi due, con le labbra rosa tese in una O perfetta.
«Arrivo» rispose Ethel, poi si voltò verso di me sorridendo: «Ci vediamo,Theo»
«Ciao» risposi a mia volta.
 
Le 10 di sera erano l'orario ideale per fare il bucato nella lavanderia poco lontana dal centro. Dopo il tramonto la piccola sala colma di lavatrici era deserta e nessuno faceva caso a cosa portavi con te e lavavi.
Ero seduto sulla panca di legno duro, tenendo tra le mani uno dei giornali abbandonati sulle assi.
Sentii indistintamente la porta che si apriva e scorsi una figura avanzare verso la schiera di lavatrici con un cesto tra le braccia sottili.  I capelli scuri di Ethel erano calati sul suo volto come le tende di un sipario.
Quando posò la cesta accanto alla lavatrice la immaginai sistemarsi le ciocche dietro alle orecchie, ma le sue mani tremanti rimasero inerti lungo i fianchi. 
Sfogliai rumorosamente le pagine nella speranza di attirare la sua attenzione. Lei parve non sentirmi o forse mi ignorò, perché continuò a caricare la lavatrice.
Scivolando sul suo volto, i capelli lasciavano scoperta la nuca e il tatuaggio dell'albero.
Chiuse l'oblò e armeggiò con i pulsanti per qualche minuto. 
Sbirciai in sua direzione dalle pagine del giornale e quando realizzai che non ce l'avrebbe fatta, mi avvicinai per aiutarla.
«Cos'hai combinato?» le dissi divertito e rimediai al tuo disastro avviando la lavatrice.
Ethel continuava a fissare l'oblò, con i capelli calati sul volto.
«Tutto bene?» le chiesi preoccupato, ma lei rimase immobile e io vedevo solo la punta del suo naso.
Nessuno parlò per mezzo minuto, lasciando spazio al rumore meccanico delle lavatrici.
«Ethel» la richiamai e quando mi accorsi che non avrebbe parlato, allungai una mano per spostare i capelli scuri dietro al suo orecchio. 
La ragazza afferrò velocemente il mio polso, ma ormai era troppo tardi e lo vidi: sotto al suo occhio sinistro si allungava un livido violaceo.
«Cosa...»
«Fatti gli affari tuoi, Theo!» m'interruppe lei bruscamente e si coprì di nuovo il volto con i capelli.
«Ethel» insistetti «Chi è stato a farti questo?»
«Sono stata io» replicò «Ho sbattuto contro il mobile della cucina»
«Perché copriresti il livido di un mobile?»
Ad Ethel non importava mantenere in piedi la propria bugia, infatti strinse le labbra, decisa a non parlare.
Non mi arresi.
«Chi è stato?»
Silenzio.
«Parker?»
Strinse ancora di più le labbra.
«È stato Parker?»
«Non è affar tuo, Theo!» sbottò irrigidendosi «A te importa di Parker solo per il fatto che è il mio ragazzo!»
Strinse le braccia al petto in atteggiamento difensivo, chiudendosi in se stessa.
«Hai ragione» ammisi «Perché è il tuo ragazzo, ma non quello giusto per te»
Ethel mi fulminò con lo sguardo.
«Non è quello giusto per me?» ripeté come per schernirmi «E chi lo sarebbe? Tu?»
Pronunciò l'ultima parola in tono che avrebbe dovuto offendermi, ma non mi colpì.
Scossi il capo, guardandola negli occhi. Lei si rifiutava di sorreggere il mio sguardo.
«No Ethel, tu meriti di meglio»
«Oh, ma davvero?» replicò incenerendomi ancora, poi riabbassò gli occhi: «In questo posto ognuno ha ciò che merita, nulla di più, nulla di meno»
«Qui non c'è nulla e nessuno che ti meriti, ma ciò non significa che tu ti debba accontentare. Hai un mondo intero là fuori, pieno di opportunità per te»
«Cosa potrei trovare di meglio?» replicò lei, ancora piena di rabbia, ma attratta dalle mie parole.
Le sorrisi e cercai di immaginare tutto nella mia mente: «Troveresti qualcuno che ti sappia amare e accettare, non solo apprezzare. Sei intelligente, e curiosa, quindi sarebbe qualcuno con un quoziente intellettivo almeno nella media, al contrario di quello di qualcuno di nostra conoscenza»
Le strappai un sorriso fievole, così proseguii: «Vivresti in una bella casa, grande e con tutte le comodità, anche una lavatrice. Lui ti farebbe e sentire al sicuro, senza però farti provare il bisogno di dover essere protetta. Ti porterebbe a cena in un ristorante vero, e non in un pub che puzza di birra, ti farebbe sentire bella e lo crederebbe davvero, ti ascolterebbe e ti parlerebbe. Ti dedicherebbe canzoni, poesie, disegni, fiori e tramonti. Meriti tutto questo, Ethel, ma continui a dimenticarlo»
Il suo volto era rigato dalle lacrime, ma l'espressione era rimasta salda, come se una singola crepa avrebbe potuto spezzarla.
«Che belle parole, Theo» mormorò «Potresti scriverci una canzone»
 
Realizzai che stavo fissando il soffitto della mia "dimora" solo quando gli occhi cominciarono a bruciarmi. 
Avevo lasciato una tapparella leggermente alzata e la luce dei lampioni s'infilava all'interno, impedendomi di prendere sonno.
O forse non era la leggera penombra a tenermi sveglio, ma quella sensazione di calore che mi era rimasta sui polpastrelli dove avevo toccato la sua pelle. Percepivo ancora le lacrime bollenti che mi avevano bagnato le dita e quasi involontariamente me le portai alle labbra.
Chiusi gli occhi, sperando finalmente di addormentarmi e per un istante credetti di esserci riuscito. Il mio battito era rallentato e i miei pensieri erano offuscati dalla stanchezza, ma c'erano delle parole che non riuscivo a togliermi dalla testa e presto anche delle note cominciarono a farsi spazio prepotentemente.
Dieci minuti più tardi ero seduto al tavolino della zona-cottura, con un foglio bianco davanti e una vecchia penna tra le dita. L'abat-jour proiettava una luce giallognola sulla carta stropicciata che fissavo assorto.
All'improvviso non sapevo che fare. Mossi la penna nell'aria, come un immaginario direttore d'orchestra, poi ne posai la punta sul foglio. 
Le parole cominciarono a scorrere fluenti e non mi fermai fino a che tutta la pagina fu riempita.
Rilessi il testo, lo corressi, poi presi la chitarra e passai tutta la notte a pizzicare corde e correggere le mie idee fino a che la luce dell'alba fece capolino da sotto le tapparelle.
Mezz'ora più tardi ero al lavoro, grazie alle due tazze di caffè che avevo trangugiato.
«Stai bene?» mi chiese Sam, portandomi i cd da riconsegnare.
Gli tolsi la cassa dalle mani e risposi con un sorriso: «Alla grande»
 
Di solito mi recavo al The Moon al tramonto, quando il sole calava portando con sé la luce e i colori. 
È un momento in bilico tra il giorno e la notte non più luce e non ancora buio. Si crea un'atmosfera surreale e la tua ombra si perde con quelle che si stanno allungando sulla strada. 
Mi piace guidare avvolto da queste sensazioni e rilassarmi prima della serata di lavoro.
Svoltando con il mio pick-un in una via residenziale, scorsi due figure ferme davanti ad una delle case. L'uomo, molto più alto e massiccio della donna, sembrava arrabbiato e sbraitava contro di lei, piccolissima in confronto.
Mentre mi avvicinavo realizzai che si trattava di Parker ed Ethel. Rimasi con lo sguardo fisso su di loro, che incuranti dell'auto in avvicinamento, proseguivano la loro discussione. Ad un tratto lui afferrò la ragazza per le braccia, nonostante si divincolasse e la sbatté violentemente contro l'auto alle sue spalle per tenerla ferma.
Il mio pick-up si arrestò di scatto in mezzo alla strada, ma io ero già balzato a terra e mi stavo dirigendo a grandi passi verso i due.
«Ehi» gridai e, attirato dalla mia voce, Parker si voltò.
Sul suo volto si dipinse un'espressione arcigna e quando rispose parve sputare veleno: «Non hai niente di meglio da fare, Lane?»
«Potrei chiederti la stessa cosa» replicai senza scompormi, cercando di lanciare uno sguardo alle sue spalle, dove Ethel rimaneva appicciata all'auto.
«Questa è casa mia, quella è la mia auto, c'è la mia ragazza...credo di essere nel posto giusto» ribatté lui sfacciatamente.
«Mi chiedevo se non avessi niente di meglio da fare piuttosto che picchiare la tua ragazza, no?»
«Non la sto picchiando» sibilò a denti stretti.
«Lasciala in pace» risposi avanzando di un passo. Vedi le sue mani stringere ancora di più le braccia di Ethel, come per sottolinearne il possesso.
«E dovrei farlo perché me l'hai detto tu? Un musicista fallito che vive in un vecchio bus?» ogni sua parole sembrava mirata per offendermi, ma non ero sceso dal pick-up per parlare di me. Volevo aiutare lei.
«Dovesti farlo perché sei sempre stato un pezzo di merda, ma fare del male alla tua ragazza ti rende il più grande bastardo merdoso che io abbia mai conosciuto» risposi stringendo i pugni.
«Theo...» il sussurro di Ethel risuonò intorno a noi.
Parker la scosse bruscamente e spingendola ancora le intimò: «Sta' zitta tu!»
Non ci vidi più. Il mio pugno colpì Parker ancora prima che sia io che lui lo realizzassimo. Si piegò indietro, lasciando andare Ethel e quando si sollevò aveva un'espressione confusa sul volto. Capì velocemente cosa era successo e non tardò a replicare.
Inutile dire che il corso di chitarra del liceo non fornisce un fisico bestiale come gli allenamenti di football. Parker aveva ancora nei muscoli il placcaggio degli avversari in campo, quando mi buttò sull'erba del giardino.
Lui era una belva, ma io ero molto più arrabbiato, così colpii alla cieca, con la vista annebbiata per i suoi colpi e per il buio che stava calando. Ero quasi sempre con la schiena a terra, ma riuscivo a parare abbastanza pugni per avere la forza di replicare.
Ad un tratto vidi delle figure entrare nel mio campo visivo, largamente occupato dalla figura massiccia di Parker, e venni sollevato da terra. Vidi tre uomini tenere fermo il mio avversario, mentre altri due stringevano me. 
Erano i vicini chiamati da Ethel, che se ne stava ora in disparte, con le braccia strette al petto nel tentativo di diventare invisibile chiudendosi in sé stessa.
Parker si stava ancora dimenando tra le braccia degli uomini, così anche i due che artigliavano le mie braccia non si mossero.
«Se non ti calmi, chiamo la polizia e ti denuncio, vi denuncio entrambi» disse uno di quelli vicino a Parker.
E pensai che se non lo avesse fatto lui, me ne sei occupato io.
 
Di solito adoravo lavorare di sabato mattina, perché il negozio apriva tardi e c'erano più clienti rispetto al resto della settimana.
Camminavo tra gli scaffali pieni di vinili, posti al centro della sala per dare un'aria retrò al negozio, nonostante sugli scaffali laterali fossero sistemati centinaia di cd.
Quel sabato mi trovavo nella parte posteriore della sala a riordinare i nuovi arrivi, cercando di nascondere i lividi che Parker mi aveva procurato.
«Ti danno un'aria da duro» mi aveva detto Sam sorridendo divertito, ma io avevo semplicemente scosso il capo e mi ero messo al lavoro. Il negozio raggiungeva il numero massimo di clienti poco prima di mezzogiorno, così mi ero rassegnato a dover aiutare Sam per quell'ora.
«Theo» mi chiamò infatti il mio collega alle 11.35.
«Serve una mano?» chiesi mentre lui si avvicinava alla parte del negozio più lontana dalla vetrina. Lui scosse il capo: «No, ma c'è qualcuno che ti cerca»
Perplesso, mi diressi verso l'ingresso e quando la vidi, non potei fare a meno di sorridere.
«Ciao» mi salutò Ethel spostando imbarazzata il peso da una gamba all'altra.
«Ciao» risposi cercando di impedire alle mie labbra di sfoderare un sorriso smagliante.
Lei si guardò attorno nervosamente.
«Sai che non sono mai venuta qui?» chiese.
«Lo so, non ti ho mai vista»
«Giusto» commentò lei stringendo le labbra, poi sorrise: «Sto straparlando ancora, vero?»
Annuii, divertito. 
«Giuro che però non sono ubriaca» aggiunse però frettolosamente.
«Ci credo» replicai «È ancora presto»
Lei annuì e fece vagare lo sguardo per un po' intorno a sé. C'erano poco meno di una decina di clienti nel negozio al momento, e creavano un chiacchiericcio leggero di sottofondo alla nostra conversazione.
«Tu...» riprese Ethel «hai una pausa pranzo o qualcosa del genere?»
«Qualcosa del genere» risposi annuendo. Lei aprì la bocca, la richiuse, poi parlò:
«E ti andrebbe di pranzare con me? C'è una tavola calda niente male poco lontano»
Sorrisi: «Sì, la conosco, ci vado sempre»
Lei sgranò un poco gli occhi scuri: «Quindi ti va?»
«Certo»
Sorrise, abbassò lo sguardo, poi lo rialzò e strinse gli occhi: «Questo non significa che puoi provarci come me, Theo»
Risi leggermente alla sua provocazione.
«Non l'ho mai fatto» risposi con un sorriso.
«E allora cosa facevi?» domandò lei corrugando la fronte.
La nostra conversazione mi stava divertendo sempre più, così le sorrisi, prima ancora di rispondere e di riflesso, lei fece lo stesso.
«Diciamo che volevo solo prendere il tuo tempo»
 
 
 
Ciao a tutti! 
Per questa prima storia mi sono ispirata alla canzone, ma anche al video, e questo rende questo racconto leggermente diverso da quelli che verranno.
Spero vi sia piaciuto e mi piacerebbe sapere, se vi va, se ci sono delle correzioni da fare, dei miglioramenti da apportare o semplicemente cosa ne pensate del racconto (e della canzone). Grazie:) 
Alla prossima :)  
   
 
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