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Autore: Gwen Chan    30/06/2016    3 recensioni
C'è odore di terra. È un odore secco e un po' friabile, l'odore vergine del terriccio compresso nei sacchi di plastica del vivaio, ma già macchiato dall'aroma della pioggia appena trascorsa. È un odore piacevole e rilassante che gli riempie le narici mentre affonda le dita nell'umida, accogliente freschezza dell'aiuola per sistemare con amorevole cura gli ultimi bulbi. Sbocceranno degli splendidi narcisi, Arthur ne è sicuro.
[Soulmate!AU][Post "It feels like enough"][FrUK]
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Nyotalia
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Maybe it's destiny, maybe something else'
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Time after time
 
C'è odore di terra. È un odore secco e un po' friabile, l'odore vergine del terriccio compresso nei sacchi di plastica del vivaio, ma già macchiato dall'aroma della pioggia appena trascorsa. È un odore piacevole e rilassante che gli riempie le narici mentre affonda le dita nell'umida, accogliente  freschezza dell'aiuola per sistemare con amorevole cura gli ultimi bulbi. Sbocceranno degli splendidi narcisi, Arthur ne è sicuro. Anche se non può più vederli, potrà ancora sentirne il profumo, come con le rose che ha piantato l'anno precedente e sono già in boccio, nonostante sia solo fine marzo. Quello è sempre stato il momento della fioritura che preferisce, l'effimero momento di fragile possibilità e dubbio, come di ragazza non ancora diventata donna.
Vedere i boccioli, assistere al graduale aprirsi della corolla, è una delle cose che gli mancano. Una lacrima di nostalgia scivola sullo zigomo, ma Arthur l'asciuga col dorso della mano, quasi con rabbia, lasciando uno sbaffo di terra e erba.
Il freddo del metallo contro la pelle gli ricorda di come si sia dimenticato di spogliare la fede prima di dedicarsi al giardinaggio.
Si toglie l'anello per pulirlo con un lembo della maglietta, un tempo blu scuro, ora tendente all'azzurro slavato per i troppi lavaggi - non che lui possa notare la differenza - ma il gioiello gli sfugge dalle dita sudate, atterrando altrove con un tonfo troppo debole per essere percepito.
Si dà dello stupido, certo, mentre si mette a gattoni e tasta tutto attorno a sé nella speranza che le dita incontrino la superficie liscia della fascetta. I palmi delle mani fanno “pat pat” sull'erba, con cautela, sebbene il giardino, tenuto con estrema cura, sia a prova di bambino; a parte qualche verme, un paio di lumache e un nichelino (o un tappo di bottiglia), non trova altro. Evidentemente l'anello deve essere caduto più lontano del previsto.
Arthur sospira, rotolando sulla schiena, e punta lo sguardo verso la macchia appena più chiara che gli indica dove si trova il sole, con una mano posta sulla fronte a mo' di visiera. Da quando lavora da casa ha tantissimo tempo libero. Il giardinaggio è uno dei tanti modi per non oziare.
Rimane in quella posizione per un tempo imprecisato, nella quiete di un pigro pomeriggio primaverile, finche il familiare rumore di una macchina parcheggiata nel vialetto non interrompe il silenzio.
Arthur sa già quali altri rumori seguiranno.
Il click delle portiere che si chiudono.
Il tap tap di passi sempre più vicini.
Il canticchiare sommesso di suo marito, il che significa che è di buon umore. Non riconoscendo la melodia, ipotizza si tratti di quanto resta di un nuovo brano trasmesso dalla radio.
 
“Fermo!” lo blocca, quando i passi si fanno più distinti. È ancora sdraiato a pancia in su, braccia e gambe aperte a formare una stella.
“Ho fatto cadere la fede, non voglio che la calpesti” spiega, un poco stizzito, come se fosse una cosa ovvia. Ad Arthur non piace spiegare le cose, perché ciò che nella sua testa è perfettamente chiaro diventa confuso e ingarbugliato  quando comincia ad esprimerlo. Allora inizia a balbettare, si imbarazza e spesso incasina tutto. No, non gli piace spiegare.
Specialmente se si tratta dei suoi ingarbugliatissimi sentimenti.
Incrocia le braccia sul petto, poi si mette a sedere, mentre Francis racconta come è andata la giornata in atelier, alternando il resoconto con domande cui Arthur risponde a monosillabi. Tutto nella norma.
“Trovata!”
Arthur  porge la mano per ricevere la fede recuperata dal cespuglio di bacche che ha insistito per piantare l'autunno precedente.
“Dovresti cominciare a tenerla al collo, sai?”
“Dovresti cominciare a segnarti le cose. Ti ho già detto che mi dà fastidio” ribatte, facendo il broncio. Recupera il bastone abbandonato al suo fianco e si alza.
“Torno in casa, comincia a fare caldo” annuncia. Francis dice qualcosa a proposito di dover prendere “una sorpresa” che ha lasciato in macchina. Arthur annuisce, agitando una mano sopra la testa ad indicare che ha capito. Si muove con lentezza, come un vecchio.
 
Da quattro anni abitano in campagna, in una graziosa casetta da libro illustrato, svenduta perché cadeva a pezzi. Sono stati anni difficili, con numerosi crucci, tante scenate e decisamente troppi debiti. Soprattutto nessuno dei due aveva tenuto conto di quanto potessero costare i lavori di ristrutturazione, con il materiale, gli operai e tutti gli imprevisti del caso. Se non fosse stato per il supporto,  economico, morale e fisico, delle rispettive famiglie, - i fratelli di Arthur erano stati entusiasti di darsi al bricolage - e dei rumorosi amici di Francis, forse si sarebbe distrutto il fragile equilibrio creatosi quando Arthur aveva cominciato ad accettare la propria cecità.
Senza lavoro, nella condizione di dover ricominciare da zero a imparare a badare a se stesso, aveva odiato fieramente la casa come simbolo della sua stessa inutilità. Aveva anche pensato di stare qualche tempo dai suoi, ma c'era qualcosa di sbagliato nel voler tornare al nido. Forse era il fatto di dover continuamente dimostrare di essere almeno all'altezza dei suoi fratelli - nonché un esempio per Peter, l'ultimogenito. Bell'esempio. Tanto valeva restare nella roulotte prestata da Gilbert - una dei suoi tanti acquisti fatti senza pensare - e poi nell'unica stanza che non cadesse a pezzi.
All'inizio c'era stato solo un materasso - la prima cosa portata  dal loro vecchio appartamento -, per dormire e, se capitava, farci l'amore. Poi erano arrivati gli scatoloni, montagne di scatoloni. Pile pericolanti di scatoloni in cui Arthur aveva inciampato così tante volte da perdere il conto.
Quindi, a poco a poco, le cose avevano cominciato ad andare per il verso giusto.
 
Sì, Arthur aveva odiato quella casa.
Ora non riesce ad immaginare di vivere altrove.
La casa nuova è fatta a sua misura. Sul pavimento ci sono speciali strisce in gomma che può seguire col bastone e sa il numero esatto di passi tra ogni mobile e ogni parete.
Ha impiegato un anno per memorizzare ogni misura, ma ora gli sembra così naturale e immediato che la fatica fatta pare appartenere a un'altra vita.
Sa anche che ci sono venti scalini per andare al piano superiore.
Sette passi dei suoi per andare in cucina - solo per un bicchier d'acqua, non sia mai che tocchi i fornelli - il lavandino è opposto alla porta, a sinistra, quattro passi. I bicchieri sono sulla credenza, sopra il lavandino, sullo scaffale più basso. Il rubinetto getta acqua fredda se girato a sinistra e calda se voltato a destra.
Ora il suo mondo è fatto in questo modo. È composto da ombre e macchie senza colore, certo, ma soprattutto è fatto di geometrie. Di destra e sinistra. Di alto e basso. Di passi, centinaia di passi.
Si versa un bicchiere di tè freddo alla pesca, indugia sugli avanzi di gelatina alle fragole della cena della sera prima e infine si siede sul fresco pavimento di cotto del salotto, con la schiena contro il divano. Dovrebbe anche farsi una doccia, sente di avere i capelli pieni di fili d'erba e le unghie sporche di terra, ma la stanchezza lo ha fatto precipitare in uno stato semi-catatonico da cui uscirà solo se sollecitato da uno stimolo esterno. A volte è il telefono che squilla - “No, non siamo interessati, arrivederci!” o “Si, mamma, tutto bene. Si, te lo saluto” o “Francis, uno dei tuoi amici strani!” e così via - altre la sua anima gemella.
“Arthur, puoi venire un attimo?”
Buona la seconda.
Arthur non risponde mai subito. È sempre stato il tipo di persona che non ama essere comandata, che difficilmente si fa conquistare e anche nella vita domestica non fa eccezione. Se fa qualcosa, qualunque cosa, è perché lo vuole. Tranne il sesso quando beve troppo, ma in quei casi cerca di autoconvincersi  che, siccome il bere è una scelta totalmente libera e consapevole, lo sono anche le conseguenze.
Alla fine si alza, borbottando contro la spina nel fianco che si ritrova come compagno, cammina a ridosso delle pareti e si ferma sulla soglia, a braccia conserte.
“Cosa c'è?”
“Ti ho comprato un regalo.”
Non è il suo compleanno - non ancora, ma lo sarà a breve - non è il loro anniversario, non è nessuna festa che preveda lo scambio di doni.
“Cosa hai combinato?” indaga, sebbene sappia che Francis non ha bisogno di simili pretesti per fagli un regalo, di solito piccole cose che Arthur liquida come stupidaggini ma che conserva con gelosia. Quindi allunga le mani.
“Allora, questo regalo?”
Francis non può evitare di pensare che sembra proprio un bambino, con la faccia imbronciata e i bruchi, pardon, le sopracciglia aggrottate nel cercare di indovinare il dono e nel celare la propria impazienza. Scuote la testa e fischia. Tempo pochi secondi e la risposta al quesito di Arthur arriva da sola, nella forma di un affare peloso e uggiolante che lo butta a terra, leccandogli festosamente la faccia. Il coso peloso spinge la testa - oblunga a quanto pare - contro il suo petto e sotto il suo braccio destro. Arthur si lascia sfuggire una risata.
“Bravo cucciolo” mormora, accarezzando il sottogola del cane. È morbido e gli scalda cuore e stomaco.
“Che razza è?”
“Meticcio.”
Arthur fa una pausa, nel timore che il proprio tono suoni eccessivamente stizzito e isterico, perché accade ancora che si lasci prendere dallo sconforto dei primi tempi, e chiede: “È un cane guida?”
“Anche. Ma non l'ho preso per quello. Ho pensato potesse farti piacere, ti piacciono i cani, giusto?”
Ha ragione: gli piacciono i cani da quando era bambino. Da che si ricorda, ne ha sempre avuto uno in famiglia. Francis, invece, preferisce i gatti e Arthur pensa che in fondo abbia il loro medesimo inafferrabile - insopportabile - carattere da primadonna.
Chiama il cane Parsifal e lascia che diventi i suoi occhi. C'è qualcosa di strano in questo, un gusto un poco amaro in fondo al palato, il lieve disagio che causa il pensare all'universo. I cani vedono in bianco e nero, proprio come lui una volta.
 
“Mi sento vecchio” commenta una sera Arthur, grattando Parsifal dietro le orecchie.
“Hai trentun anni” gli fa notare Francis, che ne ha tre in più e ha sempre pensato che Arthur sia vecchio dentro, con i suoi cardigan sformati a rombi e il plaid a quadrettoni sopra le ginocchia la domenica sera.
Già, ha trentun anni e la cosa, per quanto possa sembrare strano, lo terrorizza.
“Non so cosa fare” borbotta, esprimendo solo la punta dell'iceberg dei suoi pensieri, con la testa posata sulla spalla dell'altro.
“Domani cosa vuoi fare?”
“Non cambiare discorso!”
“Non sto cambiando discorso.  Dimmi, domani cosa vuoi fare?”
Arthur si stringe nelle spalle. L'indomani è mercoledì, uno dei tanti mercoledì che si susseguono, quindi starà a casa a lavorare, se finisce in fretta potrebbe fare una passeggiata o finire quel lavoro di ricamo che ormai va avanti da mesi senza che si riesca ancora a capire il disegno finale. Forse un disegno non c'è nemmeno.
“Il solito” risponde
Lo stesso per il giorno dopo ancora e così via. Magari la domenica si può fare un giro in città oppure rimanere a casa e a maggio decidere se andare in vacanza o risparmiare e si arriva a un punto in cui non si può più pianificare senza entrare nel regno delle fantasie.
“La stessa cosa che dici sempre. Lo vedi? Quella cosa che chiamiamo futuro sono solo tanti pezzi messi insieme. Episodi. E non c'è bisogno di correre.”
“Lo hai letto nei biscotti della fortuna?”
 
Eppure, qualche giorno dopo si ritrova a riflettere, pensando che magari, magari, Francis ha ragione.
Forse la vita è fatta di episodi. Li vivi, a volte li progetti, a volte arrivano per caso, e poi ti guardi indietro e ti accorgi che, puff, dieci anni sono passati.
Ultimamente Arthur si guarda tanto indietro - più di quanto lo psicologo gli abbia consigliato di fare di sicuro.
Si ricorda, ad esempio, della volta in cui ha fatto esplodere il forno a microonde.
 
Per primo era arrivato il rumore secco dell'esplosione. Poi era partito l'allarme anti-incendio. Infine ecco  il triste suono dell'acqua che pioveva dal soffitto.
Lo spettacolo che si era presentato in cucina era stato desolante, nonché offuscato da una coltre di fumo nero.
Francis era parso sul punto di volersi strappare i capelli di fronte a un simile disastro.
Che Arthur non avesse un buon rapporto col cucinare lo aveva  compreso dalla prima volta in cui aveva visto come teneva la propria cucina e la desolazione della sua dispensa. All'epoca la sua adorabilmente goffa anima gemella consumava fuori casa quasi tutti i suoi pasti. Quando non usciva, dipendeva da take-aways e confezioni pre-cotte. Non sorprendeva che avesse un fisico tanto asciutto.
Quando ebbe l'impressione che il microonde si fosse raffreddato abbastanza, Francis afferrò un paio di presine e si sporse per prendere la causa di quel disastro. O, almeno, ciò che ne restava: i rimasugli fusi di quella che un tempo doveva essere stata una vaschetta di alluminio.
Senza dire una parola, ma scuotendo la testa ogni tanto per la stupidità del proprio fidanzato - d'accordo, quasi-marito - recuperò uno di quei pennarelli pensati per scrivere su qualsiasi superficie e con esso tracciò un perimetro attorno al più piccolo dei cinque fornelli del piano cottura.
“Arthur” disse, mettendogli le mani sulle spalle, con un'espressione così solenne che sembrava volesse rivelargli il suo più intimo e profondo segreto “d'ora in avanti in questa cucina toccherai solo questo fornello per il tuo tè.”
Ed ecco che l'incanto si ruppe, l'illusione si spezzò e frantumò, riflessa in un paio di occhi verdi che passarono velocemente dallo stupore alla rabbia.
“È la mia cucina! Non puoi cacciarmi dalla mia cucina!”
“Errore. Era la nostra cucina. Ora è la mia cucina.”
“Mi stai prendendo in giro?”
“Assolutamente no. Chi è l'imbecille che non sa che i contenitori di metallo non vanno nel microonde?”
“Forse avresti dovuto avvertirmi!”
“Lo sanno anche i bambini!”
 
Avevano continuato a litigare, a sbattere le porte e a sbuffare, come accadeva sempre del resto. C'erano state delle volte in cui avevano dormito fuori casa, dicendosi che magari avevano affrettato troppo i tempi. Altre, pur sotto lo stesso tetto, si erano ignorati per giorni, fingendo di essere dei perfetti sconosciuti. Tuttavia alla fine qualcosa - un gesto, un ricordo, una parola - faceva incrinare i rispettivi muri d'orgoglio, così che la lite si sedava fino a una nuova tempesta.
Forse il periodo più lungo senza battibecchi era stata la luna di miele. Due settimane piene. Praticamente un record.
Ed era stato anche uno dei pochi viaggi all'estero che ad Arthur non erano pesati.
 
Ad Arthur non piace molto viaggiare. Non sa bene il perché , forse è dovuto al fatto di essere nato su un'isola, per quanto grande. Ha già tutto quello di cui ha bisogno. Non gli dispiace il contatto con culture diverse, essendo sempre disposto a provare cose nuove, ma solo nella misura in cui può convincersi per paragone della superiorità della propria patria.
È molto patriottico da questo punto di vista.
Soprattutto non gli sono mai interessati i viaggi tutto compreso per trovare la propria anima gemella.
Sono viaggi organizzati almeno due volte all'anno - o di più quando le finanze nazionali lo permettono. La partecipazione è quasi gratuita, a parte un'offerta simbolica e di ammontare volontario, e sono pochi coloro che non vi partecipano quando possibile. Di anno in anno ci si ripromette di raggiungere anche i luoghi più isolati del pianeta, ma la strada è ben lunga.
Ci sono  clan e tribù ancora chiuse in se stesse, dove chi non ha un'anima gemella è considerato come portatore di sventura ed emarginato. Eppure una cosa che il sistema delle anime gemelle rifiuta è la presenza di una società chiusa. Escluse le eccezioni, isolamento e sedentarietà sono cancro per la comunità, portatrici di morte. I villaggi che rifiutano il contatto col mondo esterno sono destinati a rattrappirsi su se stessi e, infine, a perire.
Per quel motivo viaggiare per trovare la propria anima gemella è uno dei pilastri su cui si fonda la cosiddetta società civilizzata.
 
Per Arthur, però, viaggiare è sinonimo di fatica. Fatica per il viaggio in sé, per la difficoltà di farsi comprendere in una lingua sconosciuta, per il dover apprendere le abitudini e le usanze locali. È un insieme complesso di attività che richiedono uno sforzo raramente ripagato dai benefici che il viaggio dovrebbe generare.
Ora che è diventato cieco Arthur ama ancora meno viaggiare, perché agli sforzi sopracitati si aggiunge puntamenti quello non indifferente del dover imparare ogni volta da zero a muoversi in un contesto nuovo. E per lui il tempo non è mai abbastanza.
C’è tuttavia un modo di viaggiare che Arthur ama, quello per nave. Ad Arthur piace il mare, gli piace stare su una nave ed è per questo che gli unici tipi di viaggi che affronta senza acredine sono le crociere.
Se non fossero così costose si intende.
 
Che ad Arthur non piaccia abbandonare la sicurezza della propria isola perde però importanza quando Francis si mette in testa che è giunto il momento che suo marito conosca il suo di Paese. Con visita dai suoceri annessa, si intende. Arthur li ha incontrati solo un paio di volte, al matrimonio e a un compleanno, molti anni prima
Occorre sapere che la  situazione familiare di Francis è complicata, sebbene non rara. La madre di Francis, Marianne, dopo aver trascorso oltre trent'anni della sua vita a cercare la propria anima gemella senza alcun successo, desiderosa di accasarsi e mettere su famiglia, aveva infine deciso di ricambiare le attenzioni di un collega, timido ma chiaramente innamorato di lei. Avevano cominciato a frequentarsi, si erano piaciuti, e da ultimo si erano sposati. Poco tempo dopo era nato Francis. Erano una coppia tanto affiatata che la gente assumeva subito che Marianne e suo marito fossero anime gemelle. E come sarebbe potuto essere altrimenti?
Insomma, per qualche tempo le cose erano andate a gonfie vele, finché l'inaspettabile non era accaduto, durante una visita pediatrica, quando l'universo di Marianne era esploso di colore nell'incrociare lo sguardo di un infermiere che le stava passando accanto.
Marianne si era interrogata a lungo su quale fosse la scelta migliore. Da un lato aborriva l'idea di abbandonare il marito devoto, dall'altra non riusciva ad ignorare il tarlo che insinuava come non ci fosse nulla di male a seguire un destino già prefissato. Aveva anche ipotizzato l'idea di un matrimonio a tre - la legge lo permetteva - scartando l'idea e ritornandoci a seconda del proprio umore. Avrebbe potuto scordare l'accaduto, ma con quali effetti sulla sua psiche? Quali conseguenze per la sua vita familiare e sentimentale?
Infine, dopo giorno di tensione, aveva deciso di parlare col marito. All'epoca Francis, che aveva tre anni, comprese che qualcosa era cambiato perché per la prima volta sua madre gli aveva detto che aveva “gli occhi come il cielo” e “i capelli come i sole”
“Grigi” aveva trillato
“Non, mon petit. Il cielo non è grigio.”
Tuttavia i suoi amichetti lo vedevano grigio, anche suo padre lo vedeva grigio, perciò aveva stretto il viso in una smorfia di dubbio.
“Lo capirai quando sarai più grade”
Marianne aveva parlato col marito, torcendosi le mani in grembo, perché le offrisse una soluzione; la soluzione proposta era sembrata infine tanto limpida da fornirle nuovo ossigeno: coinvolgere Charles nella loro vita, accoglierlo come amico e, se mai Marianne avesse voluto, come suo compagno. La donna aveva ringraziato, poi era scoppiata in un pianto dirotto, sfogando  l'ansia accumulata nelle settimane precedenti.
“Papà è morto quando avevo sedici anni per un incidente sul lavoro e mamma dopo qualche anno ha sposato Charles in seconde nozze” conclude Francis. Arthur annuisce appena per far capire che ha ascoltato. Poi, infilandosi sotto le coperte, aggiunge: “Almeno tu non hai avuto cinque fratelli con cui litigare.”
 
La terra natale di Francis è divisa in due macro regioni autonome, con un passato burrascoso: la Repubblica di Aquitania, sua patria, più antica e spiccatamente agricola, e il regno di Franchia, più piccolo ma maggiormente prospero grazie al commercio.
Trascorrono in Aquitania un trimestre - entrambi possono lavorare da casa - senza averlo previsto, ma in una maniera che, infine, non risulta sgradevole a nessuno. Anzi, è un periodo di sorprendente serenità, dove persino i sempre presenti litigi si diradano. La famiglia di Francis accoglie Arthur con calore e gentilezza, ma con il tatto necessario a non essere troppo invadenti e a non mettere a disagio l'ospite. Soprattutto Marianne e Charles si rivelano degli ottimi ciceroni durante le numerose gite fuori porta, più o meno lunghe, in cui Arthur viene suo malgrado coinvolto. Decisamente quei tre mesi non trascorrono nell'ozio.
“Tornate la prossima estate” è il saluto-invito che li accompagna all'aeroporto.
“Sarà un piacere” assicura Arthur con un calore che concede a pochi.
“Verremo di sicuro” fa eco Francis col tono entusiasta delle promesse non mantenute nei tempi inizialmente previsti, prima di abbracciare la madre in un arrivederci più privato.
 
Così passano gli anni, come predetto, per episodi. Una vita intera scivola fra le dita, con il passato che si accumula alla base del cervello, fatto di suoni e odori, quando assaggiare un biscotto ti fa scoppiare a piangere, senza motivo. Passano gli anni, tanti, troppi, al punto che Arthur cessa di contarli perché ormai non fa più differenza e ogni compleanno è un anno sottratto alla morte, non donato alla vita.
Passano gli anni e altri due cani si susseguono, Merlin e Morgana. Poi si aggiunge anche un gatto che puntualmente si struscia contro le gambe di Arthur, facendolo inciampare e borbottare. Gli hanno sempre detto che è acido come un vecchio. Ora lo è davvero. Vecchio.
Passano gli anni e ora ci sono rughe sulle loro mani. Ora anche Francis ha bisogno degli occhiali per leggere - Arthur non può evitare di provare un moto di soddisfazione - e sta diventando un poco duro d'orecchi.
Ora che sono entrambi in pensione trascorrono insieme forse più tempo di quanto ne abbiano mai passato; ci sono sere in cui fra loro, sopra la televisione che trasmette il programma di turno, mentre Arthur ricama e Francis disegna, si insinua quella promessa fatta anni prima. È un quesito pesante, cui nessuno riesce a dare risposta, in una gara dove nessuno vuole arrivare primo e allo stesso tempo entrambi mirano alla vittoria, nella sua amarezza.
Finché, ancora una volta, non è la vita stessa a fornire le risposte, secondo lo schema da essa pianificato. Suo portavoce è un medico che gira fin troppo attorno all'argomento, come se dirlo lentamente potesse cambiare la realtà dei fatti.
Francis attende, da solo, il che significa che è davvero preoccupato.
 
Cancro al pancreas, stadio terminale, è il verdetto che riceve. Gli danno dalle due alle quattro settimane di vita.
“Colpa di tutto il vino che hai bevuto. Ti avevo detto di andare prima dal dottore! Ma tu non mi ascolti mai” ringhia Arthur, con la voce umida.
Non vuole e non può piangere. Forse più che triste è arrabbiato. O ferito. O deluso. Non lo sa. Sa solo che tra quattro settimane al massimo il mondo attorno a lui tornerà grigio ed egli non se ne accorgerà neppure; ma ci sarà la consapevolezza dell'assenza e tanto basterà.
Sono settimane stranamente  tranquille, prive della frenesia delle liste che coglie molte persone in punto di morte. In effetti entrambi si sforzano di continuare a vivere come hanno sempre fatto, nonostante la morte sia ormai entrata in casa loro e in essa si sia insediata, come ospite a tempo indeterminato.
È Arthur da solo a prendersi cura di Francis nelle ultime settimane, quando diventa troppo debole per fingere che non stia succedendo nulla. Quando fatica a tenere le braccia sollevate per mangiare, è Arthur a imboccarlo - “Andiamo, niente storie, il cibo che cucino è perfettamente commestibile.”
Quando vomita l'anima, è Arthur a tenergli i capelli lontani dal viso.
 La cecità non è un ostacolo, non lo è più da molto tempo. Sono oltre cinquanta anni che ha perso la vista, ormai il periodo da non vedente supera di gran lunga quello in cui ancora poteva vedere. In tutti quegli anni Francis si è sempre occupato di lui, perciò Arthur non sta facendo altro che restituire il favore.
“Non mi piace essere in debito. Non cominciare con le tue romanticherie da vecchi” sbotta ogni tanto.
Certe cose non cambieranno mai.
 
Verso la fine del mese Francis pare avere un miglioramento, ma Arthur non ne gioisce e non dichiara errate le previsioni dei medici. Al contrario si rabbuia ancora di più, consapevole che si tratta solo di un ultimo regalo - o scherzo - di madama morte prima di andarsene col suo carico. L'unica nota positiva è che Francis è abbastanza in forze da stare in giardino, dove Arthur è ben contento di condurlo, nel roseto piantato anni prima.
“Credi che ci rincontreremo?” domanda Francis come a dar voce a un più lungo ragionamento mentale.
“Siamo romantici oggi, eh? Sono sicuro che è la vecchiaia a parlare. Anzi, hai iniziato a delirare. Vado a chiamare il prete” replica Arthur.
Nella sua mente Francis non è invecchiato. Certo, sente i calli delle sue mani quando gliele stringe e avverte gli anni attraverso la sua voce, ma il viso nei suoi ricordi non è mutato. Ha solo perso colore.
Francis lo invita a sedersi sulle sue ginocchia. Arthur protesta, rifiutando, perché è troppo vecchio per simili idiozie e comunque il marito non ha le forze per simili pensate. Eppure alla fine accetta. “Solo perché non voglio sentire le tue lamentele.”
Francis lo cinge in vita con un braccio e Arthur ha un brivido nel sentire quanto sia diventato magro.
“Pensi che ci rincontreremo in un'altra vita?” Insiste Francis, serio, ma calmo, in attesa di una risposta che Arthur non sa, non può, non vuole dargli. Ha imparato ad accettare che due persone siano destinate l'una all'altra. Credere anche nella reincarnazione è per lui uno sforzo eccessivo. Pertanto sbotta: “Spero proprio di no! Mi sei bastato per una vita.”
“Anche tu, anche tu” ride Francis, ma è una risata debole, roca, e Arthur comprende che non la udrà un'altra volta.
Piangerebbe, se avesse lacrime avanzate.
I cinque anni che gli restano sono i più lunghi. Muore su una panchina fuori dalla biblioteca del paese, per un aneurisma fulminante, con un libro in braille aperto sulle cosce.
 
Molti, molti anni dopo
 
La ragazza correva. Quali che fossero i suoi impegni dovevano essere davvero importanti a giudicare dalla sua fretta. Zigzagava tra la folla, con la borsa che batteva aritmicamente contro il suo fianco. I lunghi codini frustavano l'aria. Ogni tanto, senza accennare a fermarsi, guardava l'orologio al polso. Stava proprio compiendo tale operazione quando si scontrò contro un oggetto non meglio identificato. Doveva trattarsi di una persona, una ragazza, si disse la ragazza dopo un rapido esame. Sollevò lo sguardo, un poco intontita, sistemandosi gli occhiali sul naso, bloccata tra l'impulso di correre via e la cortesia che le imponeva di scusarsi. Si trovò faccia a faccia con una giovane donna, dai capelli di un colore che la ragazza avrebbe imparato chiamarsi “biondo scuro”, trattenuti in una coda alta da un fermaglio a forma di coroncina. Portava una giacchetta che si stava tingendo di blu e una gonna lunga, bianca.
La ragazza quasi rise per l'ironia della situazione: il giorno più importante della sua vita - almeno secondo tutti - accadeva su un marciapiede affollato, in un pomeriggio qualunque, mentre correva per andare a sostenere l'esame di ingresso alla scuola di infermieristica; esame che avrebbe di sicuro perso se non si fosse affrettata. Tuttavia non si mosse.
La ragazza e la giovane donna si guardarono, cristallizzate nella consapevolezza dell'istante. Quindi la sconosciuta allungò una mano, fresca di manicure, sorridendo. Aveva denti bianchi e curati. La ragazza avvertì uno sfarfallio allo stomaco, come una sensazione di déjà-vu.
“Mi chiamo Celine, lieta di conoscerti” si presentò la giovane donna.
“Rose. Piacere” balbettò la ragazza in risposta.
“Dunque Rose” fece Celine rassettandosi la gonna “hai impegni per questa sera?”
 
Note: Ed è la fine. All'inizio non sarebbe dovuta esserci nessuna miniserie ma poi c'erano episodi che continuavano a bussare alla mia mente, reclamando di essere messi neri su bianco.
Scusate, ma non sono riuscita ad esimermi dal mettere la mia solita dose di angst; infine ho voluto accennare ad una sorta di “Reincarnation!AU”, perché mi sembrava il modo migliore di concludere il tutto.
Enjoy!
   
 
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