secondo legge di Natura
Stai di nuovo
annegando ogni tua frustrazione nel vino. È annacquato, sa di botte marcia,
eppure continui a trangugiarlo avidamente. Non ti curi del mio sguardo severo
nemmeno adesso che sfacciato allunghi la mano a tastare il seno della
locandiera. In te vedo la prepotenza dell’esistere. Un’esistenza putrida,
fetida come le pozze di urina sul pavimento.
Avevo immaginato – a quei tempi –
che mi avessi scelta con amore. Avevo immaginato – da stolta – che non ti
saresti curato dei pregiudizi, delle malelingue, delle occhiate violente che mi
si rivolgevano. Col tempo imparai a scoprirti, e tu imparasti la sincerità. Quella
crudele.
Mi vergogno di me stessa, della mia
testarda impudenza nei confronti di una vita che tu – nella blasfemia di ciò
che chiamavi amore – mi hai precluso. Provo vergogna perché non riesco a
staccarmi dallo sgabello su cui mi trovo in bilico, quasi come tra la vita e la
morte, e perché mantengo alta la testa ad ogni risata dei tuoi compagni.
Amai un traditore. Amai un
assassino, un bugiardo, un burattino prezzolato. Come potrei pentirmene adesso?
Come potrei pianificare – perfino immaginare – una vendetta al pari di ciò che
mi hai fatto? Non c’è nulla, a questo mondo, che potrebbe offrire giusto onore
al mio popolo e alla mia famiglia. Massacrati.
Finalmente scolli il sedere dalla
sedia, schiaffi tre monete d’argento sul bancone unto e fai cenno ai tuoi di
levare le tende. La locanda si svuota: solo io e te, a fissarci. Ed io cerco,
scavo disperata nei tuoi occhi per trovarci almeno qualcosa che somigli alla
pietà; non c’è nulla, neppure il guizzo meschino dell’inganno. Quello non ti
serve più, adesso. Mi chiedo se il vento, assieme alle nostre promesse, ci abbia
derubati anche della tua anima. E pure della mia, azzarderei.
«Vuoi dormire qui, orecchie-a-punta? Muovi il culo.»
Solo gli Dei sanno cosa farei, cosa ribatterei.
Ma devo obbedirti in silenzio: qualora non lo facessi, sono sicura che mi
prenderesti a bastonate, o peggio. Non sopporterei un altro aborto, o forse sì,
se solo riuscisse a togliermi la vita. Vorrei davvero non tenere in grembo tuo
figlio.
«Cendra, i miei uomini stanno
aspettando.»
«Scusatemi, mio signore. Ero
sovrappensiero.»
Ti devo rispetto,
dici. Devo darti del voi, chiamarti “signore” o “mio signore”. Mio… quale disgrazia. Che sciagura solo
immaginare di essere ancora tua nel cuore e nella mente. Non lo sono, non più.
L’orlo della gonna, immerso nel
fango dei vicoli di Warren, si impiglia tra l’uscio e lo stipite. So cosa mi
aspetta, ma non faccio in tempo a ritrarmi che la tua mano callosa si infrange
sul mio viso. Come se fosse colpa mia. È sempre
colpa mia. Poi strattoni la stoffa con violenza, stracciandola. Sarà
impossibile rammendarla, ma dovrò riuscirci al meglio delle mie possibilità.
Altrimenti – mi pare superfluo rimarcarlo – mi picchieresti.
Ho
il cuore pesante. Oltre le schiere di capanni riesco ad intravedere un lembo di
foresta – la mia foresta – violata
dagli incubi dei miei ricordi. Nata e cresciuta in un mondo di pace, rovinata
nella superstizione e nel fango dell’umanità.
Cosa vi spinse a trucidare la mia
razza? Prima me lo chiedevo spesso. Adesso trovo la risposta – ogni volta più
crudele, più sporca – nelle tue iridi di umano. In te c’è quel vago sentore di
impotenza, di invidia, di inferiorità.
Uno spirito di distruzione e disgusto generato dal naturale svilirsi proprio
degli uomini. Ci credevate migliori di voi, e ci avete schiacciati. Tu mi
credevi – mi credi – migliore di te, e mi hai soggiogata con la promessa della
libertà d’amare.
In fondo mi sento soddisfatta. Godo
ad ogni sputo, ad ogni pestaggio, ad ogni insulto perché so – e ne sono certa –
che è il tuo, il vostro, modo di venerarmi. Di venerarci.
Avete ragione, tutti quanti. Noi
Elfi siamo – e saremo – sempre migliori di voi. Noi Elfi, dall’alto della
nostra tolleranza e del nostro isolamento, vi abbiamo mostrato come si diventa umani. Ed avete imparato certo
in fretta: il nostro sangue ne è testimone.
Non ti odio, Patreigh. Non detesto
né te né la tua razza. Siete stati dei bravi allievi e noi – con sacrificio –
dei buoni maestri. Il resto rimane in mano alla legge di Natura. Sacrosanta ma
crudele selezione naturale.