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Autore: Jultine    03/07/2016    2 recensioni
"Amai un assassino, un bugiardo, un burattino prezzolato. Come potrei pentirmene adesso? Come potrei pianificare – perfino immaginare – una vendetta al pari di ciò che mi hai fatto? Non c’è nulla, a questo mondo, che potrebbe offrire giusto onore al mio popolo, alla mia famiglia. Massacrati."
Genere: Fantasy, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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secondo legge di Natura

 

 

Stai di nuovo annegando ogni tua frustrazione nel vino. È annacquato, sa di botte marcia, eppure continui a trangugiarlo avidamente. Non ti curi del mio sguardo severo nemmeno adesso che sfacciato allunghi la mano a tastare il seno della locandiera. In te vedo la prepotenza dell’esistere. Un’esistenza putrida, fetida come le pozze di urina sul pavimento.

            Avevo immaginato – a quei tempi – che mi avessi scelta con amore. Avevo immaginato – da stolta – che non ti saresti curato dei pregiudizi, delle malelingue, delle occhiate violente che mi si rivolgevano. Col tempo imparai a scoprirti, e tu imparasti la sincerità. Quella crudele.

            Mi vergogno di me stessa, della mia testarda impudenza nei confronti di una vita che tu – nella blasfemia di ciò che chiamavi amore – mi hai precluso. Provo vergogna perché non riesco a staccarmi dallo sgabello su cui mi trovo in bilico, quasi come tra la vita e la morte, e perché mantengo alta la testa ad ogni risata dei tuoi compagni.

            Amai un traditore. Amai un assassino, un bugiardo, un burattino prezzolato. Come potrei pentirmene adesso? Come potrei pianificare – perfino immaginare – una vendetta al pari di ciò che mi hai fatto? Non c’è nulla, a questo mondo, che potrebbe offrire giusto onore al mio popolo e alla mia famiglia. Massacrati.

            Finalmente scolli il sedere dalla sedia, schiaffi tre monete d’argento sul bancone unto e fai cenno ai tuoi di levare le tende. La locanda si svuota: solo io e te, a fissarci. Ed io cerco, scavo disperata nei tuoi occhi per trovarci almeno qualcosa che somigli alla pietà; non c’è nulla, neppure il guizzo meschino dell’inganno. Quello non ti serve più, adesso. Mi chiedo se il vento, assieme alle nostre promesse, ci abbia derubati anche della tua anima. E pure della mia, azzarderei.

            «Vuoi dormire qui, orecchie-a-punta? Muovi il culo.»

            Solo gli Dei sanno cosa farei, cosa ribatterei. Ma devo obbedirti in silenzio: qualora non lo facessi, sono sicura che mi prenderesti a bastonate, o peggio. Non sopporterei un altro aborto, o forse sì, se solo riuscisse a togliermi la vita. Vorrei davvero non tenere in grembo tuo figlio.

            «Cendra, i miei uomini stanno aspettando.»

            «Scusatemi, mio signore. Ero sovrappensiero.»

Ti devo rispetto, dici. Devo darti del voi, chiamarti “signore” o “mio signore”. Mio… quale disgrazia. Che sciagura solo immaginare di essere ancora tua nel cuore e nella mente. Non lo sono, non più.

            L’orlo della gonna, immerso nel fango dei vicoli di Warren, si impiglia tra l’uscio e lo stipite. So cosa mi aspetta, ma non faccio in tempo a ritrarmi che la tua mano callosa si infrange sul mio viso. Come se fosse colpa mia. È sempre colpa mia. Poi strattoni la stoffa con violenza, stracciandola. Sarà impossibile rammendarla, ma dovrò riuscirci al meglio delle mie possibilità. Altrimenti – mi pare superfluo rimarcarlo – mi picchieresti.

            Ho il cuore pesante. Oltre le schiere di capanni riesco ad intravedere un lembo di foresta – la mia foresta – violata dagli incubi dei miei ricordi. Nata e cresciuta in un mondo di pace, rovinata nella superstizione e nel fango dell’umanità.

            Cosa vi spinse a trucidare la mia razza? Prima me lo chiedevo spesso. Adesso trovo la risposta – ogni volta più crudele, più sporca – nelle tue iridi di umano. In te c’è quel vago sentore di impotenza, di invidia, di inferiorità. Uno spirito di distruzione e disgusto generato dal naturale svilirsi proprio degli uomini. Ci credevate migliori di voi, e ci avete schiacciati. Tu mi credevi – mi credi – migliore di te, e mi hai soggiogata con la promessa della libertà d’amare.

            In fondo mi sento soddisfatta. Godo ad ogni sputo, ad ogni pestaggio, ad ogni insulto perché so – e ne sono certa – che è il tuo, il vostro, modo di venerarmi. Di venerarci.

            Avete ragione, tutti quanti. Noi Elfi siamo – e saremo – sempre migliori di voi. Noi Elfi, dall’alto della nostra tolleranza e del nostro isolamento, vi abbiamo mostrato come si diventa umani. Ed avete imparato certo in fretta: il nostro sangue ne è testimone.

            Non ti odio, Patreigh. Non detesto né te né la tua razza. Siete stati dei bravi allievi e noi – con sacrificio – dei buoni maestri. Il resto rimane in mano alla legge di Natura. Sacrosanta ma crudele selezione naturale.

   
 
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