Prying eyes
Tutto
era cominciato con un
appunto di Phasma, alla fine di una riunione di secondaria importanza.
Ren
aveva insistito per parteciparvi, sebbene non vi fosse alcuna
spiegazione per
la sua presenza: si trattava di conti e organizzazione di truppe,
niente che lo
potesse interessare e di cui sapesse qualcosa. Aveva insistito ed
insistito, ed
alla fine Hux l’aveva lasciato fare: probabilmente era un
modo come un altro
per sentirsi importanti in una nave in cui i soldati evitavano
accuratamente
d’incrociare la sua strada e gli ufficiali, impossibilitati
alla fuga,
s’irrigidivano sul posto vedendolo passare. Quale fosse
l’obiettivo di Ren, il
Generale non lo sapeva, ma quel che era certo era che dopo appena dieci
minuti
di riunione il Cavaliere si era stancato di sentir blaterare cifre e,
con la
sua solita eccessiva drammaticità, era uscito dalla sala con
gran fragore, il
mantello svolazzante alle sue spalle.
Hux
era cresciuto in una famiglia
austera, ove l’educazione era rigorosa e severa: fin da
piccolo era stato
abituato a sopportare la noia, mascherandola in
un’espressione di – falsa –
cortesia. Dal suo punto di vista, il comportamento di Ren era
assolutamente
inaccettabile e, finito l’incontro, non aveva mancato di
lamentarsene con il
Capitano, puntualizzando quanto fosse socialmente inconcepibile un
simile
atteggiamento.
<
Non saprei, signore. Magari
sul suo pianeta d’origine sono abituati diversamente.>
Il
commento di Phasma l’aveva
lasciato particolarmente perplesso: mai si era sognato di ascrivere i
capricci
e le reazioni esagerate di Kylo Ren ad una… differenza
culturale. Con ogni
probabilità era solo lo sfoggio di un moccioso petulante, un
moccioso alto un
metro e novanta, ma pur sempre un pestifero marmocchio con la passione
per i
drammi e la tendenza a distruggere ciò che gli capitava
sotto tiro. C’erano,
però, diverse voci sul conto di Ren: il fatto che nessuno,
nemmeno il Generale,
l’avesse visto in volto aveva fomentato storie ed illazioni
sul suo conto.
C’era chi diceva fosse umano, ma particolarmente sfigurato,
con ustioni su
tutto il corpo; altri dicevano che fosse un Mirialan e che, se si
guardava
attentamente la sua maschera, si potevano intravedere delle rare iridi
arancioni (inutile dire che nessuno aveva mai avuto il coraggio di
provarci);
altri ancora ritenevano che fosse un giovane la cui famiglia era
affiliata alla
Repubblica.
Le
teorie erano tante e spesso
eccessivamente fantasiose, ma erano di fatto solo voci di corridoio e
il
Generale era un uomo troppo preciso per poterne scegliere una senza
alcuna base
d’evidenza: tutto quello che sapeva era che il suo
indesiderato ospite aveva
due braccia, due gambe e si esprimeva in un linguaggio comprensibile.
Eppure le
parole del Capitano avevano solleticato in lui una certa
curiosità, che in
realtà si era ben radicata fin dall’inizio della
sua sfortunata convivenza
forzata con l’allievo di Snoke; si era meravigliato fin da
subito che la vera
identità dell’uomo che aveva accettato –
obbligatoriamente – a bordo della sua
nave non gli fosse stata rivelata. Era oltraggioso non sapere chi o
cosa avesse
non solo il potere di scorrazzare indisturbato per i corridoi, ma
addirittura
di rovinare le attrezzature, mancare di rispetto al Generale,
contestare ogni
decisione presa e lasciarsi prendere da attacchi di ira in cui
equipaggiamento
e soldati venivano trattati come punching-ball. Il tutto senza che Hux
potesse
metterlo in riga e senza che il Leader Supremo alzasse un dito per
frenarlo.
Così,
la prima volta che
l’integerrimo Generale optò per un uso poco
ortodosso delle telecamere
installate a bordo era dovuta al semplice desiderio –
diritto, continuava a
ripetersi Hux – di scoprire con che essere era costretto a
tentare un dialogo. Si
era ritirato nei suoi appartamenti per evitare che qualcuno lo
cogliesse in
flagrante: era quasi certo che una qualche postilla del regolamento
proibisse
l’abuso dei codici d’accesso alle telecamere, anche
da parte del Generale, se
non per casi d’estrema necessità – Hux
si rifiutava di credere che Snoke
avrebbe considerato di estrema necessità il caso specifico.
Sentendosi
vagamente a disagio nell’inserire il codice, per allentare la
tensione si tolse
di dosso il cappotto, appendendolo con cura al muro, e
slacciò i primi bottoni
della divisa per respirare con più libertà.
Gettò un’occhiata fugace
all’immagine trasmessa, ma la stanza di Ren era, per il
momento, priva del suo
abitante. Approfittando dell’occasione, si sistemò
sul bordo del letto e tirò
fuori il datapad: contava di sbrigare certe questioni organizzative il
giorno
seguente, ma visto che doveva aspettare, tanto valeva mettere a frutto
il suo
tempo.
Secondo
il contatore, era passata
un’ora e trentasette minuti da quando Hux si era messo al
lavoro. Nonostante la
tarda serata fosse ormai diventata notte a tutti gli effetti, era
riuscito a
mantenere un buon ritmo, senza concedere nulla alla propria stanchezza
e senza
permettersi alcuna distrazione. Allo scoccare del trentottesimo minuto
un
movimento della proiezione gli fece alzare di scatto la testa e, per un
lunghissimo
istante, pensò di essersi immaginato tutto; un attimo dopo
la figura vagamente
curva di Kylo Ren apparve nella sua dinoccolata lunghezza. Dovette
ricordarsi
che quella che aveva di fronte era solo una registrazione: al solo
vedere
quella stupida maschera un senso di fastidio si faceva largo in lui, un
vero e
proprio disagio. Mise da parte il datapad lentamente, come a non voler
far
scomparire la proiezione; aveva la netta impressione che, attraverso le
fessure
di quello stupido secchio che Ren si ostinava ad indossare, gli occhi
del
Cavaliere fossero puntati direttamente su di lui. Possibile che Ren
fosse in
grado di cogliere emozioni e pensieri con la forza da una parte
all’altra della
nave? Possibile che sapesse di essere spiato? Era un pensiero scomodo e
cercò
di rigettarlo da dov’era venuto, in quell’angolo
della sua mente che
evidentemente provava un perverso piacere nel ricordargli le
più compromettenti
possibilità della vita.
Dopo
essere rimasto immobile per
qualche secondo, Kylo Ren cominciò finalmente a muoversi:
Hux dovette
trattenersi dal deglutire rumorosamente nel vederlo sfilarsi il
mantello e
gettarlo sul letto con noncuranza. Seguì la cintura, assieme
alla tunica – non
si era mai reso conto di quanti strati di abiti indossasse Ren, ma
erano di
certo troppi (come facesse a non morire di caldo, tra la maschera e i
vestiti,
il Generale non riusciva a capirlo – a meno che non potesse
regolare la
temperatura con la forza). Quando anche gli stivali furono messi da
parte,
lasciando la figura in pantaloni, maglietta e maschera, Hux smise di
preoccuparsi dell’eccessiva deglutizione o dal calore che lo
stava investendo
dal collo sino alla punta delle orecchie (colpa del contesto
– di sicuro –
perché Hux non era abituato ad utilizzare mezzucci quali
telecamere nascoste e
l’intera sensazione lo metteva estremamente a disagio). In
ogni caso, per quel
che poteva vedere, Ren era umano. Una voce in meno, se non altro.
Lo
osservò senza neanche
permettersi di sbattere le ciglia mentre le mani – i guanti
erano stati gettati
nel mucchio di abiti ai suoi piedi – si accingevano a
togliere la maschera, il
movimento lento, calcolato, tanto da far sorgere nuovamente nel
Generale il
dubbio che Ren sapesse. La maschera finì sul bordo del
letto, appoggiata
delicatamente. Hux rilasciò un sospiro che non si era reso
conto di trattenere:
la visione di fronte a lui era, se non altro, inaspettata.
Perché nessuno
avrebbe mai creduto che il tanto temuto Kylo Ren avesse un volto,
bé… così
giovane. Così umano. Così facilmente
interpretabile. Anche attraverso
l’ologramma Hux poteva vedere su quel viso così
particolare ogni minima
emozione, riflessa con chiarezza. Lo osservò muoversi per la
stanza, ripiegare
con maggior cura gli abiti, controllare il proprio datapad. Se non
l’avesse
visto togliersi la maschera, non avrebbe mai creduto che il ragazzo
– uomo?
Quanti anni aveva? Non riusciva a stimarlo – fosse la stessa
persona che vagava
per la sua nave distruggendo oggetti e soffocando i suoi migliori
soldati.
Imputò a questo disorientamento il nodo che gli si era
formato in gola;
spegnere la telecamera, staccarsi da quella visione fu più
difficile del
previsto – dieci minuti passati a ripetersi che ormai il suo
obiettivo era
raggiunto, che finalmente sapeva che aspetto avesse il suo pericoloso
ed
instabile alleato.
Si
promise che non avrebbe più
usato la telecamere per spiare come un ladro nei quartieri di Ren,
perché
violare ripetutamente la privacy degli ospiti non era
un’azione ben vista né
dal codice di comportamento militare né da qualsiasi altra
forma di
regolamentazione della vita sociale ed Hux aveva una dignità
da preservare. Se
non fosse che la sua curiosità – si rifiutava di
aggiungere “morbosa” nei suoi
pensieri – sembrava aver ingaggiato un duello
all’ultimo sangue con il suo
onore. La sera seguente si trattenne e così anche la terza.
Alla quarta accese
per qualche minuto la telecamera, ma Ren non era nelle sue stanze e si
obbligò
a disconnettersi prima che potesse effettivamente rientrare. La quinta
sera
cedette di nuovo, dicendosi che tanto non l’avrebbe trovato,
ed invece lui era
lì, una mano sul volto stanco, come a cercare di riflettere.
Dalla sesta sera
in poi pose fine al suo dibattito interno, la sua mano inseriva il
codice
d’accesso come se avesse vita propria. Nel giro di
un’altra settimana era
diventato un riflesso incondizionato e appena entrato nella stanza la
telecamera veniva accesa – che Ren ci fosse o meno era quasi
di secondaria
importanza, dal momento che Hux era disposto ad aspettare il suo arrivo
per ore,
approfittandone per portarsi avanti con il lavoro.
Rifiutandosi
di interrogarsi sul
perché tutto questo stesse succedendo, il Generale aveva
semplicemente lasciato
che l’abitudine s’instaurasse e prendesse il
sopravvento. Allo stesso modo si
era rifiutato di indagare il fatto che il suo corpo aveva reazioni non
propriamente desiderate mentre osservava Ren spogliarsi, muoversi per
la
stanza, coricarsi. Ogni volta che la sua mente gli ricordava le
imbarazzanti
implicazioni del caso, Hux spegneva il cervello e si metteva in pilota
automatico. Finché, ad un certo punto, accettò
semplicemente la cosa, decidendo
che ogni riflessione a riguardo sarebbe stata semplicemente
infruttuosa, fonte
di stress, imbarazzo e fastidio. Essere in costante controllo di ogni
singolo
fatto o comportamento sulla nave era logorante: poteva davvero
rimproverarsi
per il fatto che la sera, nelle sue stanze, si concedeva di staccare
mentalmente da tutto quell’ordine, quella perfezione, quella
meravigliosa
macchina che gli era stata affidata? Non era forse una giusta
ricompensa per
tutto il duro lavoro che affrontava ogni giorno? E non era quasi
ironico il
fatto che Ren, il quale sembrava aver eletto a suo sport ufficiale la
distruzione metodica del Finalizer e il tormento continuo del Generale,
fosse
lo stesso a garantirgli la possibilità di eliminare lo
stress? Era una sorta di
rivincita personale e Hux era ben contento di godersela fino in fondo.
Ritiratosi
nelle sue stanze, la
prima cosa che faceva, prima ancora di scrollarsi di dosso il cappotto,
era
accedere alle telecamere della stanza di Ren. Una sera il Cavaliere era
già lì
e il Generale si meravigliò nel rilasciare un sospiro che
aveva inconsciamente
trattenuto sino a quel momento. La maschera era appoggiata sulla
spartana
scrivania e Hux poteva osservare chiaramente la postura,
l’espressione del
volto, il quasi impercettibile automatismo di denti che mordevano il
labbro
inferiore. Ren doveva essere immerso profondamente nei suoi pensieri,
perché i
suoi movimenti erano più lenti, lo sguardo fisso di fronte a
sé: se non fosse
stato completamente vacuo, il Generale avrebbe potuto credere che Ren
stesse osservando
proprio lui. Gli ci volle un attimo per rendersi conto che la sola
attesa di
quel momento aveva avuto un certo effetto su di lui ed i pantaloni
della divisa
sembravano all’improvviso eccessivamente stretti; si morse
una guancia mentre
Ren, con una lentezza infinita, si sfilava i guanti, lasciandoli cadere
per
terra – poteva quasi udirne il fruscio, anche se in
realtà la telecamera non trasmetteva
l’audio.
Si
morse l’interno della guancia,
cercando di contenere la propria agitazione, ma il controllo di cui
andava così
fiero nel suo ruolo di comando sembrava essere rimasto fuori dalla
porta della
sua stanza. Non riuscì a trattenere un sorriso quando le
mani dell’altro si
portarono sull’orlo della maglia e la fecero scivolare
lentamente in alto,
rivelando quel fisico tonico che ormai Hux conosceva a fondo
– ed il pensiero
era disturbante ed eccitante allo stesso tempo e cosa non avrebbe dato
per
poter toccare quello che si era costretto ad osservare a distanza e,
diamine,
l’autocontrollo non era semplicemente restato fuori dalla
porta, si era
defenestrato nello spazio per non tornare mai più e tutto
era precipitato nel
giro di pochissimi secondi in un vortice di caos ed era
meravigliosamente
perfetto come non lo era mai stato prima. Hux si era lasciato andare,
dopo una
vita passata a trattenersi, ed era come se l’ingranaggio si
fosse finalmente
messo in moto dentro di lui: non c’era più una
fredda mente razionale a
bloccare i suoi istinti. In quel preciso momento c’era ben
poco che non fosse
il corpo di fronte a lui, sempre più esposto al freddo della
nave, e la mano –
sua? Purtroppo – che slacciava la cintura e
s’insinuava tra la stoffa e la
pelle. Una serie di immagini balenavano nella sua mente in successione
ed
alcune erano assai difficili da dimenticare, erano difficili da
ignorare, da
bollare come impossibili ed una vocina nella testa gli ripeteva che
forse,
forse, così impossibili non erano. Il resto era un vortice
di sensazioni che –
cazzo, non sentiva da troppo tempo, da quanto non sapeva neppure! E le
visioni
di Ren che stringeva le lenzuola, gli occhi come pozzi profondi fissi
su di lui
mentre Hux – non più Generale, non più
niente se un ammasso di tendini tesi,
muscoli contratti e suoni indicibili – dettava il ritmo a
cavalcioni su di lui,
come se fosse nato per
quello e non
avesse altro in mente che quello (spaventoso quanto tutto questo si
avvicinasse
a tratti alla realtà).
Quando
tornò con i piedi per
terra – solo metaforicamente – si
ritrovò seduto sul pavimento gelido della sua
stanza, la testa leggera, cappotto e guanti gettati con noncuranza
accanto a
lui, sparsi come se un ciclone fosse apparso all’improvviso.
Lentamente si rese
conto di avere ancora la mano intrappolata nei pantaloni, le vivide
immagini
che la sua mente aveva partorito stampate nella retina, il nome del
Cavaliere
sulle labbra (non l’avrebbe mai ammesso a nessuno, neanche a
se stesso). Si
guardò attorno, ma la telecamera, ancora attiva, gli
mostrò un letto vuoto e
nessun segno della presenza di Ren.
Si
alzò, pronto a ricomporsi, a
prendere quant’era accaduto negli ultimi minuti e chiuderlo
in un angolo della
mente che avrebbe tenuto fermamente sigillato. Pronto a gettarsi tutto
alle
spalle e a spegnere per sempre quella dannata telecamera. Se lo
ripromise
ancora ed ancora, mentre si dava una ripulita in bagno. Se lo
ripeté con
fermezza risistemando al loro posto cappotto e guanti. Se lo stava per
ricordare
per la ventesima volta quando una richiesta d’accesso alle
sue stanze apparve
sul pannello di comunicazione. Il flusso di pensieri si infranse contro
lo
scoglio del volto scoperto di Kylo Ren che attendeva fuori dalla sua
porta.