Storie originali > Fantasy
Ricorda la storia  |       
Autore: tillmorninghighway    13/07/2016    2 recensioni
A Maragho, capitale del ducato di Roviza, è notte. Il cielo è arrossato dagli incendi e su ogni cosa grava un silenzio teso e innaturale. Non è una notte qualsiasi, lo avrete già capito: è la notte della disfatta della città. Le truppe di Nestria, guidate dal comandante Kleist, hanno fatto breccia nelle mura, hanno preso il controllo della capitale e hanno messo agli arresti Elyn Dasayad, sovrana del paese. Ma se Roviza è definitivamente caduta, perché Wenzel Kleist è di umore così tetro?
Storia scritta per il contest "Quietly into the night" indetto da Whiteney Black sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
I

Caught in the undertow

 
 
La luce degli incendi entrava dalla sottile monofora strombata, soffondendo di un rossore necrotico le pareti della stanza. Kleist trovava l’atmosfera familiare e di norma l’avrebbe ritenuta indegnamente piacevole, ma il disagio che lo attanagliava quella sera nel percepirla non lo colse in alcun modo di sorpresa.

Ciullagambe gli stava indicando uno sgabello, e lui lo raggiunse senza protestare. Si sedette, e la semioscurità, mista alla quasi solitudine della compagnia del chirurgo, gli sgravò il pugno dall’incorporeo bastone del comando che era sempre costretto a stringervi. Era esausto, e alla stanchezza si autorizzò ad abbandonarsi.

«’Sta fasciatura è ‘na schifezza oscena» gracchiò il Ciulla dopo una rapida analisi della sua fronte. «Non si muovesse, Comandante, che mo’ vediamo di farla decente». Kleist annuì appena, ché non aveva voglia di aprire la bocca e formulare risposte verbali. Il medico trafficò fra i suoi strumenti, ne trasse bende e bottiglie e gli si riaccostò. «Su ‘sta testa, su ‘ste spalle!» sbuffò, raddrizzandolo seccamente. Kleist lo guardò gelido coi suoi occhi d’acciaio, ma Ciullagambe non si fece intimidire. Un gesto rapido, e la medicazione raffazzonata e incrostata di sangue fu strappata via. Il dolore tornò a pulsare forte sopra l’occhio sinistro e, in maniera più inaspettata, sul cuoio capelluto.

«Vi siete portato via metà dei miei capelli, dottor Nokt» osservò compassato, un rivolo di sangue che gli colava svelto attraverso il sopracciglio.

«Metà dei vostri capelli se l’è portata il minchione che v’ha fatto ‘sta roba qui, non io». Gli sventolò sotto la faccia la pezza sanguinolenta – null’altro che una manica strappata in fretta e furia da una camicia di tela. Kleist non si scompose. «Il soldato Perr è morto, dottor Nokt. Non sapeva quello che stava facendo, ma mi ha tenuto le cervella nel cranio egregiamente. Non mi aggrada che voi ne parliate con quel tono».

Ciullagambe gli versò sulla ferita un’abbondante sorsata d’acquavite, riducendolo a un silenzio sibilante. «Il soldato Perr, gli Dei se l’accolgano, era un minchione» ribadì con secchezza insindacabile. Ripose la bottiglia e applicò il nuovo bendaggio. «Doveva venire a cercar me invece di fare ‘sto casino. Se non s’infettano le cervella è ‘na fortuna sfacciata».
«Sono sempre stato un uomo fortunato, dottor Nokt» mormorò Kleist. Portò le dita a tastare la fasciatura e la sentì asciutta per la prima volta in ore. «Non ho motivo di preoccuparmi». Il Ciulla lo perforò da parte a parte coi suoi occhi neri, e il Comandante dell’Invittissima Armata di Nestria pesò in quell’occhiata parecchio rimprovero e non indifferente sospetto. Distolse lo sguardo, chiedendosi – e già rimproverandosi mentalmente – se non avesse esagerato con spalle curve e sussurri sfiatati.

“E non avrei nemmeno dovuto abbassare gli occhi, adesso”. Ma era così stanco.

Zaius Nokt si era voltato, impegnato a rimescolare gli affari misteriosi stipati nella sua sacca medica. «È per la donna, n’è vero?» ruppe il silenzio assordante di quella notte cremisi con voce pacata, e Kleist pensò immediatamente che avesse avuto l’ardire di porre la domanda solo perché gli stava dando le spalle.

«La duchessa» corresse di scatto, e drizzò la schiena, le mani strette a pungo sopra le ginocchia. Nokt continuò a trafficare con le sue pinze e i suoi elisir. Kleist lo guardò inferocito e sentì la testa ricominciare a pulsare. Si alzò di botto. «C’è spazio libero sulle mura. Datemi di nuovo del traditore e una forca per voi la trovo prima che abbiate richiuso la bocca, Ciullagambe».

Il chirurgo lo scrutò di sghembo, un sorriso sbilenco sulla bocca sottile e rasposa. «Correte parecchio, Comandante. Persino prima della vittoria di quest’oggi non mi è mai nemmeno passato per la testa che poteste essere un traditore e, a maggior ragione, non ho mai detto che lo foste. Ma state pur certo che lei lo dirà. E che le passa per la testa da un bel pezzo, eccome».

La vista di Wenzel Kleist si era ottenebrata bruscamente quando si era alzato, e le parole di Nokt gli erano giunte alle orecchie che la testa ancora gli girava. Le registrò a fatica ma lo aiutarono a far riaffluire il sangue alle tempie. La ferita pulsò rabbiosa, la stanza arrossata dalla città in fiamme riprese i suoi contorni e le sue sfumature di colore. Gli occhi del comandante si fecero affilati. «Basta, Nokt» ordinò piano. E quello, che dopotutto aveva raggiunto una veneranda età perché era uomo di comprovata saggezza, obbedì.

Kleist non aggiunse altro. Col cranio che doleva per più ragioni del dovuto, attraversò la stanza e spalancò l’uscio, sprofondandosi nei corridoi bui e vuoti del Palazzo Ducale.

Aveva visitato quell’edificio quasi quotidianamente due anni prima, e lo aveva fatto per mesi. Sapeva come muovervisi con la luce e con la tenebra - visto o non visto, aveva cognizione degli anfratti segreti nei quali dovevano essersi rintanati i cortigiani impauriti, non aveva esitazioni nello scegliere i punti in cui piazzare le sue guardie e le sue ronde e, ovviamente, conosceva anche la via che Ciullagambe insinuava conoscesse: quella, vale a dire, che lo avrebbe condotto negli appartamenti privati della duchessa senza passare dalla porta principale.

Un istinto nottambulo guidò i suoi passi sotto gli archi acuminati che contornavano il patio occidentale. Non voleva, non davvero. Ma infilò la porta ammaccata, quella dalla toppa debole messa lì a sorridere ad amanti, spie e assassini, e solo dopo aver contato trentadue gradini si ricordò di quanto fosse inutile l’andatura felpata che stava tenendo. Il Palazzo era suo. La città era sua. Nessuno lo avrebbe scoperto in quella torre, perché nessuno era rimasto per scoprirlo. La guarnigione di Roviza era defunta, ferita o nelle segrete; l’esercito di Nestria, come suggerito dal cielo fiammeggiante, era per la maggior parte ancora impegnato nel sacco della capitale, e di quei pochi uomini che aveva già disposto dentro e attorno al Palazzo sapeva per certo che lì non ne avrebbe trovati.

Fu a questa considerazione che si arrestò, un piede su un gradino, l’altro più in basso. “Cosa sto facendo?” si chiese. E perché non aveva messo qualcuno a guardia di quel passaggio? Lo aveva deciso inconsciamente in vista di questo momento? Era forse impazzito? Chiunque sarebbe potuto entrare o uscire di soppiatto, chiunque. Lei poteva già essere fuggita. La voragine di sentimenti contrastanti che l’idea gli spalancò nelle viscere non gli piacque per nulla. Poggiò una mano sulla parete concava e chinò il capo, sforzandosi di pensare in fretta nonostante le fitte profonde sopra l’orbita.

La sua prima risoluzione fu quella di imprecare pesantemente a denti stretti. La seconda lo portò a riprendere l’ascesa tre gradini alla volta. Raggiunse l’andito angusto che immetteva agli appartamenti signorili e lì trovò solo una fiaccola ardente ad attenderlo. Gli aveva rischiarato la salita – come di consueto, ecco perché non ci aveva neppure pensato – ma ora gli parve un segno pessimo: gli risultava difficile immaginare quella donna che, prigioniera nei suoi appartamenti, trovava il tempo di accendere lumi per gli ospiti clandestini che non avrebbe potuto avere. Ma la torcia era accesa, il che significava che qualcuno quelle scale doveva percorrerle o, peggio, le aveva già percorse.

Kleist estrasse dal fodero sulla coscia il suo lungo pugnale di malachite ricurva. La testa gli faceva un male boia ma l’attesa scarica di adrenalina non mancò di attraversarlo, e lo mantenne lucido e pronto. Schiuse l’uscio e scostò l’arazzo che gli si parò davanti, scivolando nelle stanze di Elyn Dasayad di Roviza.

I candelieri accesi illuminavano i tripodi e l’ottomana, i tappeti, lo stipo d’osso di tartaruga, la grande arpa scordata e la scrivania a specchiera. Il luogo pareva immutato, uscito dai suoi ricordi e dai suoi sogni con una precisione irreale. Un uomo dalla barba ruvida e dai capelli arruffati, tanto sudici da non essere più biondi, rispose al suo sguardo dallo specchio. Aveva delle profonde ombre sotto gli occhi e dava l’idea di essere in preda a un qualche attacco cardiaco particolarmente doloroso. Kleist vi si riconobbe solo per quest’ultimo dettaglio.

Le stanze erano deserte, e lui era perduto.

“Dei, fate che sia già lontana.”

Digrignò i denti: no. In due passi attraversò la stanza e andò a spalancare lo stipo.

Il cielo era rosso sopra Maragho. Elyn era fuggita, ma doveva trovarsi ancora sotto quella cappa di morte soffusa. L’avrebbe ripresa - gli Dei gliene fossero testimoni - e l’avrebbe ripresa subito.

 
---
 
Le fiaccole illuminavano l’atrio, accendendo di bagliori dorati le cotte dei due uomini e scavando chiaroscuri di sonnolenza sui loro volti. Il vecchio Den Cur Seltit montava la guardia davanti alla sua porta, e con lui un giovanotto di cui non ricordava il nome. Kleist li trovò entrambi decisamente fiacchi.

Piombò fra di loro senza che se ne accorgessero, e solo dopo aver fissato per qualche secondo i suoi occhi glaciali quelli si decisero a sobbalzare impercettibilmente e a risvegliarsi. Sbarbatello saltò sull’attenti e Cur Seltit, benché si limitasse a drizzare la schiena, sfoggiò un’espressione talmente risoluta che in un altro momento il generale nestriano non avrebbe avuto bisogno di null’altro per sentirsi rassicurato fin nel profondo dell’animo.

Ma non era un altro momento.

«Avrei potuto uccidervi entrambi con la facilità con cui si torce il collo a un gattino» constatò. L’osservazione fu seguita da un borbottio fatto di ‘mi dispiace, Comandante’ e ‘le mie scuse, signore’ che Kleist mise subito a tacere con un cenno della mano. «Non ora. Signor Cur Seltit, ho bisogno di parlare con il sergente Ferlen. Trovatela e portatemela prima che suoni l’ora».

Sparì nelle stanze in cui si era acquartierato prima che il soldato terminasse il suo ‘signorsì’: non c’era motivo di fargli perdere tempo, mancavano meno di quindici minuti alla decima. “E almeno uno dovranno perderlo a bisbigliare di questa”. Gettò sulla prima cosa che gli venne a tiro la lunga calza di seta nera che aveva tenuto stropicciata nel pugno, e andò a saggiare la qualità del vino che gli era stato procacciato.

Afferrò la caraffa e versò finché il liquido scuro non cominciò a straripare sul tavolo. Imprecò, poi imprecò di nuovo e infine bevve. Al primo sorso riconobbe il Brunito di Torrexiaro, al secondo accantonò il futile interrogativo che quel sapore deciso gli aveva fatto sorgere spontaneo – quando e con chi aveva avuto il lusso di berlo l’ultima volta - e al terzo vuotò il calice per tornare a riempirlo, la mente di nuovo occupata dall’analisi della schifezza contingente.

Elyn gli era scivolata fra le dita e nessuno avrebbe creduto che lo ‘scivolamento’ non fosse stato accuratamente pianificato da lui stesso. Da Ciullagambe al re di Nestria, dal burattinaio di Piazza dei Fiumi al Gran Sacerdote del Tempio Bianco, dai mocciosi della contea di Donaet alla delicata Ireen che era sangue del suo sangue: tutti si erano aspettati qualcosa del genere e convincerli che sì, era successo, ma non certo per volontà sua, sarebbe stato possibile tanto quanto ammazzare a mani nude un grauma. Ma - per gli Dei! - valevano di più Refa, Yerkosa e Maragho o la fuga della duchessa di Roviza? Arion non poteva ignorare le dicerie, ma il sovrano avrebbe dovuto riconoscere che, nella realtà dei fatti, Kleist non lo aveva mai deluso. Anche stavolta, duchessa o meno, non aveva forse spezzato le gambe di un’intera nazione per trascinargliela inerme ai piedi del trono?

“Non è inerme”, si disse. Scrutò il cielo sanguigno oltre la bifora, rimestando nella bocca il vino finché non ne trasse il retrogusto più amaro. “Finché lei è in giro non è inerme. E in Nestria si crederà che io l’abbia lasciata andare per permetterle di riorganizzare le sue forze e darle l’occasione di riprendersi tutto. O peggio, chissà.” La fantasia del marchese Zeischer, dopotutto, non aveva limiti quando si trattava di spalare letame addosso ai suoi nemici, e Kleist riconosceva di avergli appena reso il lavoro oltremodo semplice.

Voltò le spalle alla finestra e andò a recuperare la calza dalla panca imbottita su cui l’aveva scaraventata. Si lasciò cadere al suo posto e se la premette sulla faccia dopo solo un attimo di esitazione. “Elyn, amore mio, dannata cagna. Non mi trasformerai in un traditore, né con le buone, né con le cattive. Ti troverò, so che lo sai, mia piccola rondine dal becco d’acciaio, mia bella pantera unghiuta…”. Si accorse che Bern Ludd lo stava guardando.

Le braccia rigide sui fianchi, l’aria di chi doveva dirgli qualcosa di importante e le guance in fiamme, lo scudiero spostò il peso da un piede all’altro e attese il permesso di parlare. Kleist pensò che, per essere una giornata in cui aveva riportato una grande vittoria militare, era proprio fra le più orride che avesse mai vissuto. Schiantò la mano e il suo contenuto accanto a sé. «Cosa?» domandò.

«La vostra armatura signore. E la spada lunga. Se volete che le riponga o se le devo lasciare pronte. E il vino. Se ne volete altro o se va bene questo» balbettò il ragazzo.

«Risponditi da solo e liberami della tua presenza. Se vedi Cur Seltit spronalo ad affrettarsi, ché la notte è breve e la mia clessidra non va oltre».

Ludd portò la mano alla fronte e farfugliò come un idiota la sua obbedienza e il suo rispetto. Ancora paonazzo, uscì dalla stanza, confuso come non l’aveva mai visto. Nemmeno due minuti dopo si sentì bussare e, grazie agli Dei, Tiril Ferlen fece il suo ingresso negli alloggi. La donna si richiuse la porta alle spalle e gli rivolse il saluto con la sinistra. Aveva ancora addosso lo smanicato d’ordinanza ed emanava, oltre alla solita fragranza di cane bagnato, un pungente odore d’acquavite. Il braccio destro le pendeva inerte, attaccato al collo attraverso una fasciatura nella quale Kleist riconobbe i colori e lo stemma araldico di Roviza.

«Riposo. Che è successo al braccio?»

Ferlen si rilassò. «Una freccia lo passò da parte a parte, niente di che. Dopo lo faccio controllare al Ciulla ma, in tutta onestà, mi sa che stai messo peggio tu, Comandante».

«Al dottor Nokt» si sentì obbligato a correggerla Kleist. «E la mia testa è messa meglio di quanto potrebbe sembrare, non crucciarti. Te ne darei prova se avessimo tempo per i convenevoli ma, ‘in tutta onestà’, sono alquanto di fretta». Le lanciò la calza di seta nera. «Dobbiamo trovare questa signora» disse, ignorando l’incipiente inarcarsi del sopracciglio di Ferlen. «Scegli uno dei tuoi grauma e conducilo sotto i portici del Palazzo. Ti voglio lì fra non più di dieci minuti» proseguì, senza lasciarle spazio per osservazioni irrilevanti.

Senonché, certe cose non pareva potessero evitate. Tiril Ferlen rimirò l’indumento per un lungo istante prima di schiarirsi la gola e rialzare gli occhi nocciola su di lui. «Comandante, non è che voglio discutere i tuoi ordini ma… non credi che sarebbe ora di dare un pochino di freno ai tuoi passatempi erotici?». Kleist espirò rumorosamente attraverso le narici, ma non servì a nulla. «Che poi questo è perverso persino per te. Che te ne fai di una donna con la pancia sbranata e le viscere sparse? Ti conviene ripensarci, senti a me».

Tacque. Kleist tacque con lei, fosco in viso. La donna sorrise storto, proprio come aveva fatto Zaius Nokt poco prima, e scrollò la testa ricciuta. «Dei, Wenzel. È lei, non è vero? Madre di Llaw, allora è vero che sei completamente andato».

Kleist distolse lo sguardo. La testa gli faceva male e il suo corpo era di nuovo svuotato di ogni forza. O era più lo spirito, forse. Non ne era certo e, in ogni caso, non aveva energie da investire in un’indagine più approfondita della questione. «Mi è scappata, Tiril. Meglio morta che libera. Mi serve un grauma».

«Ti è scappata? Llaw del Sole, te la stavi facendo!» gli sventolò la calza sotto il naso con ira autentica. Kleist non si prese la briga di chiarire l’equivoco. «Te la stavi facendo e lei ti ha dato una botta in testa e se n’è scappata! Dei dell’Hakke, Wenzel, dimmi che non è andata così. Llaw, sono più contenta se mi dici che l’hai lasciata andare e che ora ti stai lordando le mutande in un momento di ripensamento! Dimmi che è così, cretino. Dimmi che è così, non c’è bisogno di prendere i grauma! L’Armata ti seguirà ovunque, lo sai, anche nel cambiare il nome da ‘Invittissima di Nestria’ a ‘Invittissima di Roviza’. I ragazzi se lo aspettano, persino, dopo tutto quel ‘trattate i prigionieri come fossero vostri figli’ e ‘non bruciate i campi, verdi sono più belli’ con cui ci hai tartassati per settimane. Madre di Llaw, Wenzel… non prendere i grauma. Se la ammazzi questo posto ci cade sulla testa, e su a Nestria quel ratto del Marchese ci ricama abbastanza da farti sbattere in ginocchio sul ceppo del boia».

«L’epilogo sul ceppo del boia, perdona il mio scarso discernimento in materia, lo trovo di gran lunga più probabile nell’eventualità che la lasci andare. Quanto al resto, se credi davvero che permetterei a questa latrina di cadere sulla testa mia e vostra, mi sottovaluti in modo offensivo». La voce di Kleist si era fatta più secca di parola in parola, e si spense nel silenzio della notte con lo schiocco di uno scudiscio sulla carne viva. Si rimise in piedi ignorando l’oscurarsi della vista. «Un grauma, sergente Ferlen. E lo voglio fra cinque minuti sotto quei dannati portici».

Tiril contrasse la mascella ma non osò controbattere. «Signorsì» disse. Gli voltò le spalle e lasciò la stanza. Kleist aspettò che la porta si richiudesse prima di curvare le spalle. Si passò una mano sulla fronte, sugli occhi.

“Devo, si ricordò. “Devo”.

 
Angolo autrice:
Beh... boh xD Che ve ne è parso? Fatemi sapere cari lettori e care lettrici, e a presto! Prossimo capitolo in arrivo venerdì!
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: tillmorninghighway