Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: Iria    13/07/2016    0 recensioni
Poi, accadde l’insperato (e l’inaspettato).
Se dovessi descrivere oggi l’aspetto di quel giovane, non riuscirei a farlo con precisione: gli occhi e la voce sono impressi a fuoco nella mia memoria, ma i tratti della sua immagine sono sfocati, come cancellati o sbiaditi dal tempo, quasi mi fossi imposto di dimenticare.
[One-shot su Rohan Kishibe e una sua (im)probabile (dis)avventura]
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Rohan Kishibe non cade
 
Quell’anno mi diressi in Italia non per lavoro o per ricerca, ma per il più banale dei motivi: una vacanza.
Il mio editor aveva ritenuto potesse essere l’ideale, considerando il lieve calo in classifica di Pink Dark Boy.
Nulla di preoccupante, mi aveva detto. Succede, i lettori crescono, gli interessi cambiano… dovevo solo cercare di accalappiare l’attenzione di una nuova fetta di pubblico.
Mi aveva spaventato.
Quel fallimento era crollato sulla mia testa come un macigno, e avevo trascorso notti insonni e giorni a digiuno, cercando, testando, provando nuovi espedienti, inverosimili e mai tentati percorsi di trama.
Volevo essere letto.
Quella era la mia volontà, la proiezione del mio spirito.
Quindi, dopo che il mio fisico aveva ceduto alla pressione cui mi ero sottoposto, la redazione aveva suggerito quel periodo di pausa; il primo senza che avessi dei capitoli già pronti per colmare eventuali buchi o tempi morti.
E se mi avessero dimenticato?
 
Avevo scelto Firenze come meta. Adoravo la Toscana, il serpeggiante verde della Maremma con i suoi gonfi e lussureggianti lecci e le campagne infinite immerse in un’arcadica pace…
Tuttavia, sarebbe meglio non divagare e iniziare il mio racconto, rendendo più chiara la ragione per cui ho deciso di narrarvi quello che sarebbe dovuto essere un banale periodo di futile riposo.
 
Dicevo, dunque, che avevo scelto Firenze.
Firenze e l’arte che si respirava nei viottoli di mattoncini, il vociare multilingue e la bellezza che ogni angolo nascosto custodiva nella sua storia secolare. Era una di quelle città, Firenze, che meritava una cravatta. Calpestare quel suolo sacro, battuto dai piedi degli artisti più grandi della storia, richiedeva il dovuto rispetto.
Ero seduto a fare colazione ad uno dei tavoli del Rivoire, lo storico locale in Piazza della Signoria, dominato dall’imponenza di Palazzo Vecchio.
Mi trovavo lì, ripeto, con il mio taccuino da disegno davanti e mi guardavo attorno, alla ricerca di qualcosa, di qualunque cosa che potesse stimolare anche solo lontanamente la mia fantasia.
La tentazione di utilizzare Heaven’s Door era alta, eppure non volevo causare alcun tipo di panico fra la folla, semmai ci fossero stati altri portatori di Stand. I miei occhi scivolavano tra i turisti, gli artisti di strada, dallo sguardo severo della Fontana di Nettuno alla replica del David, fino ad osservare la Loggia della Signoria.
Ero esasperato, pronto anche a rivoltare il tavolo, pur di avere un aneddoto, la scintilla di un evento fuori dal buon agire ordinario, da raccontare.
Poi, accadde l’insperato (e l’inaspettato).
Se dovessi descrivere oggi l’aspetto di quel giovane, non riuscirei a farlo con precisione: gli occhi e la voce sono impressi a fuoco nella mia memoria, ma i tratti della sua immagine sono sfocati, come cancellati o sbiaditi dal tempo, quasi mi fossi imposto di dimenticare.
Comunque sia, quella che oggi è un’ombra grigia nei miei ricordi avanzò sola fra la folla, stringendo un violino prezioso.
È incredibile come riesca a ricordare con precisione ogni venatura più scura del legno dello strumento, e nulla delle mani forti che lo impugnavano.
Ebbene, quell’apparizione stimolò il mio interesse ed ebbe tutta la mia attenzione: scivolò con eleganza verso il locale, ma si posizionò a distanza dai tavoli, ben visto nel resto della piazza. Gli occhi castani sfumati da scintillanti scaglie di intenso verde passarono in rassegna i volti di tutti i clienti, ma trovarono solo i miei a ricambiare, quasi con sfida.
Mostrami le tue intenzioni.
Sorrise.
Ebbi la sensazione che le sue labbra si arricciassero in un movimento appena visibile e le mie mani… no, tutto il mio corpo tremò
Aveva inteso i miei pensieri? Possibile, suggeriva l’esperienza.
Mi sembrò d’essere il solo ad avere la percezione della sua presenza, mentre avvicinava il violino al viso e lo posava su una spalla.
La frustrazione che ancora oggi mi accompagna è il non riuscire a ritrarre alla perfezione quella scena: ci sono la piazza, la folla, le statue immobili e il cielo striato da candide nubi; eppure lui, il mio protagonista, continua ad essere solo una macchia indefinita che regge un violino.
La prima nota fu un timido accenno, uno squittio quasi muto nel frastuono, però attraversò il mio udito e la sentii vibrare in me. In un lento crescendo, il suono iniziò ad articolarsi in una sinfonia ondeggiante, un’ammaliante suggestione dalle sfumature oscure. C’era qualcosa, fra lo scorrere frenetico della musica: era una dissonanza stridente, un intervallo che pareva saltare tre toni, prima di tendere all’illusione acustica dell’estensione di una nota più grave. Oscillava per una pausa, poi si riavvolgeva a rincorrere il resto della composizione.
Ero ipnotizzato.
Lo osservavo totalmente rapito dai suoi gesti, dalla forza creatrice con cui l’archetto pizzicava le corde tese… e allora perché? Perché ero il solo a guardarlo, ad ascoltarlo, a godere della bellezza di cui era portatore? Mi sembrava quasi potesse librarsi, che la luce sparisse nella piazza, oscurata dalla sua ombra, dall’immagine di grandi ali di cuoio nere…
Ali di cuoio nere.
Quello fu inaspettato, ma non del tutto.
La stramba apparizione sembrava estranea al suo corpo, pur prendendo forma dalle sue spalle e ben presto fu seguita da mani artigliate, un corpo nudo e scolpito nel carbone. Occhi di oro colato rilucevano su un viso bestiale e squadrato, due corni caprini squarciavano la carne scura di quella visione e si arricciavano poco sopra la sua fronte aggrottata.
Le gambe forti si tendevano e, muovendosi sinuose e scattanti, percorrevano in un manège di piroette il perimetro della piazza. Così, ad ogni nuovo giro, la punta dei piedi si levava sempre più da terra, fino a quando quel diavolo danzante non fu in aria.
Io potevo vederlo, e non riuscivo ad osservare null’altro che non fosse quella figura che correva ed anzi scorreva lungo le solide mura degli antichi palazzi.
Il violinista si stava avvicinando al mio tavolo e ad ogni passo le note della sinfonia si facevano sempre più alte, ancor più stridenti, cancellando tutto il resto.
Suoni, immagini, colori, sapori…
Non ricordavo neanche cosa stessi mangiando: tutto sparì nel nulla, e rimase soltanto la risata di quel demonio che sembrava ritmare la musica.
Quando lo strumento, infine, tacque, gli occhi del violinista furono davanti ai miei e li vidi fondersi con l’oro diabolico, che scomparve risucchiato nel silenzio.
So che sorrise.
Rabbrividii, perché la sua espressione era mutata e perché il suo sguardo aveva brillato di una gioia incomprensibile, non umana.
“Il mio nome è Fausto Paganini, per servirla”.
 
La voce del giovane era profonda e calma, aveva un calore inaspettato e maturo, un suono antico rimasto inudito a lungo. Ciononostante, quando mi ridestai dall’incanto della musica e dall’armonia delle sue parole, la piazza era ormai oscurata dalla notte e nessun altro era lì con noi.
Mi guardai attorno.
Al di là del buio, al di là del silenzio e della solitudine, c’era altro di stonato e di estremamente sbagliato in tutto quello: l’aria pesante, le mura in rovina, frammenti marmorei di visi scolpiti. Non era la città che mi aveva accolto, o meglio… sembrava esserne una copia, un abbozzo lasciato a marcire.
Guardai il giovane che mi aveva condotto in quel luogo alieno, i suoi occhi castani brillavano di una strana eccitazione, una pura estasi di inebriata follia. Eppure, non mi spaventava: c’era qualcosa, in lui, che mi trasmetteva una calma artificiale e inadatta e non riuscivo ad avvertire alcun timore, nonostante le membra tremanti.
Né freddo, né caldo.
Immobilità vitrea.
Pensai ad un insetto conservato nella resina.
“Sono Fausto Paganini, signore.” Parlò ancora, presentandosi di nuovo, e in un battito di ciglia i suoi occhi furono davanti ai miei.
“Rohan Kishibe.”
“Lei cerca una storia.”
Gelai alla sua constatazione. No, non era una domanda, ma la semplice realizzazione di una verità innegabile.
“Diabolus in Musica l’ha avvertito. Sa, si nutre dei desideri… no, anzi delle ossessioni della gente.”
Diabolus in Musica… Quell’essere?” Chiesi, e la figura mostruosa riapparve in una nebbia evanescente alle spalle del mio interlocutore senza volto, come a rispondere a quella domanda.
Cos’era?
Ad essere del tutto onesto, avrei voluto indagare a fondo; utilizzare Heaven’s Door, aprire l’anima del ragazzo e leggere, trovare conferma al mio dubbio: uno Stand, di certo. Nulla di più.
Ma non ci riuscivo, e se nel cuore infuriava la frustrazione a quel blocco, forzato o consapevole non avrei saputo dirlo, della mia volontà, mentalmente ero sereno.
“Io sono qui per darle ciò che cerca.”
Diabolus in Musica spalancò ancora le ali e, in un movimento netto dal suono affilato, un suo braccio si tramutò in un violino, mentre l’altro assunse le sembianze di un archetto. Allora, con un balzo si librò nell’aria e restò sospeso, prima che iniziasse a suonare.
 
Quali storie avrebbe potuto raccontarmi?
Me lo chiesi mentre la pavimentazione della piazza distrutta si squarciava sotto i miei piedi, e io straordinariamente restavo lì, su un lembo di pietra intatto.
Dall’oscuro abisso sul quale mi sporgevo, inerme, proveniva un rombo sconosciuto che non avrei potuto definire: si confondeva con la sinfonia, vibrava assieme alle note articolate da Diabolus in Musica ed era la base di un coro armonico fatto di grida, preghiere e lamenti soffocati dalla gioia della composizione. Paganini era al mio fianco, maestro di quella folle e furiosa orchestra.
I suoi occhi brillanti seguivano la scena, le sue braccia si agitavano a condurre il movimento di ogni singolo masso che crollava.
La paura continuava a restare sepolta nella zona più remota del mio cuore.
Mi colse la nausea, certo, e il fetore che si alzava dalle viscere della terra mi aveva costretto in ginocchio, ma Paganini infondeva al mio animo la sicurezza che, restando al suo fianco, nulla avrebbe potuto accadermi.
Fu allora che dalle nere fauci della terra presero a contorcersi rampicanti mostruosi. Si innalzavano vanamente verso il cielo buio, apparendo simili a mani scheletriche e tumefatte.
Osservai quello spettacolo grottesco ad occhi spalancati e un conato di vomito batté contro il mio palato. Allora, per un solo istante, avvertii le ginocchia cedere, ma imposi a me stesso di resistere: ero lì per restare, riflettei testardo, perché la visione che Paganini mi stava donando era quanto di più grandioso avessi mai potuto sperare di vedere…
Tra i rovi, difatti, notai quelli che dapprima mi parvero cadaveri.
Poi scorsi dei volti piangere, labbra intonare litanie patetiche, e compresi che quei corpi erano ancora scossi dalla vita.
O così desiderai convincermi.
Volevo sapere.
Pretendevo quelle storie per pura fame di conoscenza, per ottenere le loro esperienze e farne eventualmente tesoro, se utili al mio scopo.
Ero pronto ed Heaven’s Door, ancor prima che pronunciassi un solo ordine, già levitava alle mie spalle. Si tese, come anch’io mi tesi, verso una mano livida e cadaverica che era stata avviluppata da spesse spine nere, e la prima pagina dell’esistenza di quella creatura si manifestò. Quando, però, fui ad un solo attimo dallo sfogliarla, Fausto mi impose di fermarmi.
Avvertii la sua presa ferma sul mio polso, le dita lunghe che vi si avvolgevano con decisione; tuttavia, per quanto oggi ancora mi sforzi, vedo solo un tentacolo d’ombra e null’altro di più definito.
“Non è consigliabile, sior Kishibe.”
Appuntai nuovamente il suono della voce, desiderando di poterne disegnare l’intensità, trovare un espediente per far comprendere ai lettori quanto fosse vibrante e totalizzante. Mi lasciava quasi incapace di replicare, alla disperata ricerca di un pennino che, dannazione, era rimasto al mio tavolo del Rivoire, sotto il cielo della Firenza assolata.
Il suono prodotto da Diabolus in Musica diveniva sempre più distorto, come a levarsi oltre il frastuono di quell’Inferno; e fu allora, soltanto allora, che Fausto mi prese per le spalle, sorreggendo le mie membra di colpo spossate.
“Non badi alla banalità della morte. È un evento del tutto ordinario.” C’era una risata nel suo tono, ma non riuscii a negare l’esattezza di quell’affermazione.
“Piuttosto, le consiglio di scrutare nell’eternità…” Fu un bisbiglio eccitato, e il lampo verde nei suoi occhi brillò ancora, pregno di aspettativa.
 
Diabolus in Musica mi avvolse.
Si alzò in volo e suonando con una violenza innaturale, fatta di movimenti meccanici e spaventosi, mi strinse tra le spire ipnotiche e dissonanti di quel trillo.
Gridammo.
La terra tremò.
Giù, giù.
Solo buio.
 
“Quomodo cecidisti de caelo, Lucifer qui mane oriebaris? Corruisti in terram, qui vulnerabas gentem?”*
 
Respirare mi feriva, ma lo feci famelico e, mentre incameravo ossigeno in lunghi sorsi, fu come venire al mondo.
Il sangue rombava e grattava contro le mie orecchie; il cuore, battendo nel petto, quasi esplodeva. Tutto era ovattato: la vista, il tatto, l’udito. Cercai di mettere a fuoco il luogo di luce in cui mi trovavo, provai a guardare le mie mani, ma vidi solo l’abbozzo di uno schizzo di carne.
Tentai di leccarmi le dita, per avere un qualsiasi contatto con la realtà, con il mio corpo, ma non avvertii nulla, neanche il sapore aspro del sudore.
Inspirai ancora.
Dolore.
Mi divorava dall’interno e non captai un singolo odore.
Tuttavia, la mia unica agonia era la smania di intravedere la fonte di quella voce: anelavo a conoscerne le sembianze, desideravo memorizzarle per ritrarle, conferendo loro la forza che quella eco fece riecheggiare nel mio animo. Però, non ebbi il tempo di tentare alcunché.
Soffocai.
La luce che dapprima mi aveva accecato ora mi stava circondando, e i suoi fasci, stringendosi, mi ferivano. Gridai e non udii la mia voce. Mi divincolai, ma non avevo la piena coscienza del mio corpo.
Stavo cadendo.
Non sapevo da dove, da che altezza o per quale motivo. Percepii soltanto uno strappo all’altezza dell’addome e poi il nulla sotto i piedi.
Ero disorientato e spaventato, dovevo fare qualcosa, qualunque cosa pur di salvarmi da quell’assurdità.
“Heaven’s Door!”
Ma le mie labbra erano sigillate.
E allora, quando riuscii a spalancare le palpebre, lo vidi.
 
Occhi dorati.
Occhi belli come il calore del sole al tramonto, luce tiepida della prima stella che sorge al mattino.
Precipitavamo assieme e, stringendomi per la gola, mi conduceva giù. Paradossalmente, non c’era alcuna violenza in quell’agire furioso. La disperazione aveva sconvolto i suoi lineamenti, indurendoli, e la cute nera come il carbone scottava contro la mia pelle, ma non mi bruciava, non consumava.
Illusione di fuoco.
Dunque, in quello sguardo, oltre l’immobilità dorata ed eterea, Egli mi lasciò leggere.
 
“Io sono Colui che divide. Creatore del libero arbitrio, artefice del risveglio dell’uomo.”

Tremavo a leggere quelle parole. Erano in una lingua a me sconosciuta, eppure riuscivo a comprenderle e non ebbi un accenno di dubbio sul loro significato.
Frenetici, i miei occhi scorrevano lungo le pagine, perché sapevo di aver poco tempo prima del devastante impatto.
Anche le mie membra si stavano tingendo di nero.

“Come portatore di conoscenza, in me è la scienza e ogni altro bene. Perciò, sono simile all’Alfa e all’Omega che è Sapienza; dunque, divento divinità di luce, benignità essenziale, complemento e identità di quel divino Cristo, salvatore degli uomini.”

Certo, le nozioni che avevo sul cristianesimo si limitavano alle ricerche fatte per alcuni personaggi del mio manga, nulla di più; ma… non corrispondevano con ciò che conoscevo di quell’Essere, ammesso che mi trovassi al suo cospetto.
Dovevo trovare il suo nome. Sapevo che la fine era vicina: nelle mie orecchie era tornata la risata di Diabolus in Musica, il suono disarmonico del suo violino stridente.
No, non ora.
Giù, sempre più giù, verso l’abisso.
Dimmi il tuo nome.

“Sono il Tentatore che siede alle radici dell’umanità, somigliante all’Altissimo, l’alleato dell’uomo e ispiratore della coscienza.”

Ero vicino, ad un passo… così come la terra alle mie spalle, il terribile scontro a pochi metri.
Fuoco.
Ora lo sentivo.
“Lucifero.”

“HEAVEN’S DOOR!”
Riuscii a gridarlo guidato dalla disperata consapevolezza di star sfiorando la mia fine, e grazie alla volontà testarda di allontanarmi da quel limite impercettibile dove attendeva la morte.
“Rohan Kishibe non cade.”
 
Quando mi destai, ero ancora seduto al tavolo del Rivoire. Il mio cappuccino fumava, il foglio del taccuino appariva immacolato, ma la mano con cui stringevo il pennino tremava così furiosamente che lo lasciai cadere.
Un lampo dorato.
Non mi fermai oltre. Raccattai disordinatamente (insolito, per me) tutte le mie cose e mi incamminai di corsa per allontanarmi, per ritrovare il respiro.
Ero sotto il cielo striato di nubi di Firenze. Indossavo la mia cravatta, in bocca persisteva la dolcezza della bevanda calda appena assaggiata e avevo l’odore della città sulla pelle. Il colore delle mie mani era del tutto umano. Stavo bene. Andava bene. Eppure, il lampo di due occhi dorati continuava a seguirmi.
Erano lì.
Li vidi al centro della piazza mentre mi avviavo verso gli Uffizi: l’ombra di Paganini mi sorrideva e Diabolus in Musica, alle sue spalle, portò un dito nero alle labbra, in un gesto che imponeva il silenzio. Poi, come se nulla fosse, si voltarono; quindi, l’oscura apparizione spalancò le ali e, imitando i gesti del suo portatore, assieme a lui riprese a intonare la mefistofelica sonata.
 
Non aspettai ulteriormente e corsi verso il mio hotel, proprio di fronte a Ponte Vecchio.
Scattai, digitando velocemente il numero del mio editor sul cellulare. Dovevano essere le nove di sera, mi avrebbe risposto.
“Torno in Giappone.” Gli annunciai senza mezzi termini, quando sentii la sua voce. Poi misi giù la chiamata, ignorando qualsiasi tipo di cerimonia o senso comune dell’educazione.
E cosa mi importava?
La mente lavorava frenetica, ed il taccuino era uno strumento troppo ridotto per quelli che erano i miei piani.
Già, sentivo davvero il bisogno del mio studio a Morioh: avevo una storia straordinaria da raccontare.
 
Fine
 
Note
Dunque, dunque…
Questa è la mia prima fanfiction su JoJo, e da tempo desideravo mettere giù qualcosa su Rohan (il mio personaggio preferito, oserei quasi dire).
Ammetto che non so quanto sia buona questa one-shot. Solitamente riesco a dire se sono soddisfatta o meno di un lavoro. Ma qui, invece, ecco… sono abbastanza soddisfatta delle descrizioni che ho fatto, un po’ meno del contenuto in sé. Comunque sia, ho deciso di postarla, perché ci tenevo e perché mi sono messa d’impegno per finirla.
A questo punto, mi va bene anche considerarla solo un esercizio di scrittura, un appunto che mi lascio per migliorare sempre più! è.é
Infine, una spiegazione sia su Fausto Paganini che su Diabolus in Musica.
Per il primo, ho scelto questo nome dal Doctor Faustus e ho usato il cognome di Niccolò Paganini, chiamato anche “il violinista del diavolo”.
Con il termine “Diabolus in Musica”, invece, si intende il tritono, una distanza di tre toni tra un suono e l’altro. Nel Medioevo il suo uso venne bandito, proprio per il suono fastidioso e “malvagio” che produceva.
E nulla, mi auguro ugualmente che questo piccolo straccio di storia possa essere stato un buon passatempo e una distrazione. =)
Grazie di cuore per aver letto.
Iria.
 
 *
Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell'aurora? Come mai sei atterrato, tu che calpestavi le nazioni? 



 
 
   
 
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