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Autore: SunVenice    18/07/2016    1 recensioni
Da quando Agathe è diventata una strega gli anni sono diventati lenti e tediosi, ma scanditi da un unica dolorosa ricorrenza. E in quel particolare giorno lei vede il silenzio che l'avviluppa tutto l'anno lasciarla sola, in balia dei ricordi.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Le Streghe di Oggi'
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Il silenzio per Agathe Boquet è come un’amante appiccicoso. Da secoli lo detesta, cerca di allontanarlo, prova a dimenticarlo, ma questo si accolla sempre più pesante ed opprimente su di lei, conficcandole i suoi odiosi artigli nel cuore e stringendo fino a mozzarle il fiato.

Eppure, Agathe lo sa. Quel vuoto bastardo che ride di lei tutto l’anno, senza tregua, aspetta un solo, unico giorno per farsi desiderare.

Quel giorno è il 21 Dicembre.

Ogni anno in quella fatidica data lei lascia la confusionaria e colorata Parigi per addentrarsi nella secca ed addormentata Provenza, facendosi strada tra le correnti d’aria sotto forma di un nuvola di petali rosati solo per poi riassemblarsi sul lago ghiacciato che un millennio prima le cambiò la vita. 

Essere immortale o, meglio, una strega immortale porta i suoi vantaggi, specialmente quando hai un’appuntamento ricorrente di data indefinita con una persona troppo speciale per mancarlo.

Giunta a destinazione, il suo essere richiama a sé i piccoli pezzi setosi che, come le pagine di un libro, si radunano uno sopra l’altro, formano palpebre, gote e arti, e lei sente l’aria colma di sottili gelidi sussurri su di lei. La invade fin dal primo respiro, riempiendole i polmoni di quell’unica promessa che, lei sa, difficilmente verrà mantenuta.

Non serve aprire gli occhi perché quel verme strisciante le scivoli via di dosso. È sufficiente udire il fremito scrosciante dell’unico albero sempreverde lì accanto, seguito dal fruscio sommesso dei cespugli gialli e filamentosi lì sparpagliati tra la neve e la presenza dello specchio di ghiaccio, perché accada.

Il silenzio fugge via da lei. L’abbandona, e lei riesce quasi a sentirlo ridacchiare come un diavolo prima di venire sommersa di suoni e ricordi che l’assordano e le infilzano la testa come aghi.

Odori e colori si sovrappongono brevemente a ciò che vede, ma i suoni… quelli sono sempre i più difficili da arginare.

Là dove ora Agathe vede un ramo spoglio ed appesantito di bianco, lei ode il ronzio pacato di api fluttuanti attorno al proprio alveare, unito a quello più distante di altre indaffarate tra steli di lavanda oramai appassiti. Un immaginario frinire di grilli si mischia al ruggito, più presente e reale, del vento che la colpisce sul collo e le scompiglia i capelli corti e arruffati. Le risate e gli starnazzi di bambine giovani e innocenti più di lei le solleticano fastidiose i timpani, richiamandola da un convento medioevale ormai, lei sa bene, sgretolato dal tempo.

Si accartoccia su se stessa Agathe, fluttuando priva di restrizioni da parte della gravità, e percepisce il lento gonfiarsi e sanguinare del suo cuore colmo di malinconia e vergogna. Lei, la Strega di Parigi, ridotta nuovamente ad una ragazzina sola e spaventata come allora. Se il Concilio sapesse…

Osserva il proprio riflesso sfocato rispondere tra le venature bianche del ghiaccio su cui sta fluttuando e, spinta dall’urgenza di rendere i propri tratti distinguibili, vi si china ancora di più. 

Agathe conosce fin troppo bene la ragazza, o meglio, la creatura dall’aspetto fresco e gracilino, dall’altro lato dello specchio, ma ha bisogno di rivedersi. 

Tra il nero torbido dell’acqua ed il bianco del ghiaccio, appare infine un volto pallido, quasi cadaverico, offeso dalla presenza di due orbite tristi, verdi, venate di rosso, incastonate tra un paio di palpebre gonfie e stanche. Sulla sua testa c’è una scodella ondulata di capelli tinti, piccolo vezzo dettato più dalla necessità di coprire ciocche scolorite dal passare degli anni, che da un mero desiderio di distinguersi dalla massa umana.

Agathe vede se stessa, sommersa in una melassa amara di suoni scoordinati, e al tempo stesso vede sua sorella Cléanthe.

Il giorno in cui, su quello stesso lago invernale, lei era scappata dal convento, sua sorella aveva i capelli lunghi fin oltre la schiena ed accorciava con snervante insistenza l’orlo della toga, oltre a tenere il collo scoperto ed il più libero possibile. Si erano salutate in silenzio quel giorno, ondeggiando le loro mani giovani l’una in direzione dell’altra come in uno specchio, prima di separarsi e rendere così più difficile per le suore individuarle.

Cléanthe aveva scelto la via tra i cespugli di rose, che l’avrebbero condotta davanti ad un vecchio pozzo dove si sarebbe nascosta fino al tramonto. Lei aveva invece optato per la scorciatoia sopra il lago, accessibile solo d’inverno e perfetta per lei, troppo leggera e svelta per incrinare con il proprio peso la superficie ghiacciata. Sarebbe dovuto essere semplice ritrovarsi e continuare insieme per la loro strada.

Ovviamente il destino non aveva condiviso i loro stessi progetti.

Lei era stata sorpresa nell’atto di togliersi la toga ed iniziare la propria traversata con in spalla solo una coperta di lana ruvida, abbastanza pesante per superare la notte, da nientemeno che un porco libidinoso appena entrato nella maggiore età.

Anche dopo tutti quegli anni poteva sentire la risata oscena di quel maiale, il suono del suo ansimare eccitato, mentre la rincorreva a proprio rischio e pericolo su quella lastra di ghiaccio troppo sottile per lui.

Il secco scricchiolio sotto i suoi piedi scalzi le aveva fatto sperare, per un solo infimo secondo, di essere finalmente salva e che, dietro di lei, il mostro sarebbe scivolato in una trappola di acqua nera e fetida, lasciandola finalmente andare.

Agathe si morde le labbra nel ricordare quella pia illusione.

Il lago aveva sì ceduto, ma il mostro era riuscito a ghermirle una caviglia ed aveva iniziato a ridacchiare tra i denti storti e tremanti dal freddo, trascinandola a sé, pronto a sfruttare la sua presenza in più modi.

Agathe ricorda perfettamente la sensazione di scomporsi in tanti petali di rosa per la prima volta, la paura, il panico, l’impressione di essere stata fatta a pezzi, il buio e la percezione di ogni angolo di quel luogo farsi insopportabile, ma, soprattuto, ricorda il grido prima rabbioso, poi disperato, della belva. Rimembra le sue patetiche richieste di aiuto, le sue maledizioni a lei dirette, il suo chiamarla “Strega!” e il modo in cui i lamenti erano scemati di fronte e intorno a lei in un silenzio colmo di morte.

Era rimasta lì, ferma, sparpagliata tra le frasche e la neve per settimane, prima di capire come tornare se stessa, ma, quando i suoi piedi infreddoliti avevano infine calpestato l’agognata riva opposta, sua sorella era oramai sparita, partita senza di lei.

Perse il senso di fame e la capacità di invecchiare. Divenne potente, così tanto da far tremare al proprio cospetto persino la Strega Cannibale delle Americhe. Non aveva mai perso, tuttavia, la speranza che avrebbe rivisto Cléanthe, confidando che anche lei avesse subìto la medesima metamorfosi, in quello stesso luogo e giorno e, chissà, forse era proprio quello il suo sbaglio.

Le ore passano rumorose. Scende il sole, la luce si dissipa all’orizzonte e l’aria è ancora vuota. Il bosco si risveglia, la notte si riempie dei versi notturni e il fracasso che ha nel cuore tace, strappandoglielo ancora una volta. 

Anche per quest’anno, sarà solo lei a lasciare quel luogo.

Agathe si raddrizza e lascia che il sottile vento invernale la riporti a casa.

Il silenzio la insegue, promettendole un’altro anno di cupa compagnia.

   
 
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