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Autore: Restart    19/07/2016    0 recensioni
1934, Montereau Fault Yonne
Jean Lucas stringe un patto con Marion Rousseau, a causa della partenza di lei per Parigi: si dovranno sposare diciotto anni dopo.
La guerra, le perdite, i chilometri di distanza li divideranno inesorabilmente. E la loro speranza di rivedersi si affievolisce ancor di più.
Genere: Drammatico, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali, Dopoguerra
Capitoli:
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23 dicembre 1947;

Oxford

Per Marion passeggiare su quelle pietre era un'esperienza meravigliosa. Teneva stretta la mano di Steve che l'aiutava a non cadere o scivolare. I pantaloni erano zuppi fino a metà polpaccio, ma a lei non importava minimamente. Sapeva che di lì a qualche minuto la sua vita avrebbe preso una svolta sconvolgente. Lo sapeva da quella mattina, quando aveva ficcato le mani nelle tasche della giacca blu di Steve e lo aveva trovato. Racchiuso in una scatola antica, come una conchiglia a protezione della sua perla, c'era l'anello della famiglia Smith. Luminoso, brillante e prezioso. Steve lo custodiva da chissà quanto tempo e lei non ne sapeva niente. Ci ripensava mentre erano lì a passeggiare, mano nella mano, ad osservare le solitarie lande inglesi. Steve si guardò attorno e dopo lungo rimuginare, scelse quello come posto giusto. Si fermò sotto lo guardo falsamente stupito di Marion. La fissò negli occhi, ammirando ogni parte del suo viso abbronzato. Degli occhi scuri e dei capelli acconciati. Erano solo loro, loro e l'Inghilterra, che svolgeva il ruolo di spettatrice cupa e silenziosa. Si inginocchiò davanti a lei tenendole stretta la mano e non staccando lo sguardo dal suo volto. 
«Marion sono settimane che sto studiando questo discorso e vorrei tanto che fosse come me lo sono sempre immaginato. 
Io so che sei la mia anima gemella e che sei la donna che è stata legata a me alla nascita. Tu sei la donna con cui voglio passare ogni secondo della mia vita da oggi in poi, quella con cui voglio condividere ogni momento bello e ogni momento brutto. Ogni risata ed ogni pianto, ogni sorriso ogni lamento. Tu sei la mia prediletta, la mia dea. E io vorrei essere lo stesso per te da questo momento fino al mio ultimo respiro». Finì pulendosi gli occhi con le mani. Le lacrime abbondavano sul suo viso dolce e gentile. Marion era senza respiro. Non aveva mai sentito parole tanto gratificanti e amorevoli come quelle che gli stava dicendo Steve. Lo osservava, lacrimando, studiando ogni dettaglio di lui, e scoprendo che non c'era nulla che non amasse di quel ragazzo.

«Se tu sarai il mio Ulisse io sarò la tua Penelope.
Se tu sarai il mio Marius io sarò la tua Cosette
Se tu sarai il mio Heathcliff io sarò la tua Catherine, senza morire però» entrambi sorrisero, prima che Steve facesse scivolare l'anello al sottile dito di Marion.
«Ti amo»
«Ti amo».

*

Bordeaux, Francia.
Camera 118 dell'ospedale cittadino.

Era da solo in quella fredda stanza ad osservare le pareti bianche, aspettando che qualcuno entrasse a fargli visita. Erano tre anni che era rinchiuso in quel buco e la notte aveva iniziato a sognarsi il suo paesello. A sognarsi quando era piccolo e giocava con i sassi sulla riva della Senna insieme alla bambina dai capelli neri. Avrebbe pagato tutti i franchi che c'erano sul suo esiguo conto in banca pur di tornare là, ad ammirare il bellissimo e colorato paesaggio. Il suo paese. La sua vera vita. Non quella che aveva distrutto la guerra con i suoi orrori e i dolori che gli aveva arrecato. E pensava a sua sorella Cosette, che si era ritrovata a morire con un foro nella pancia; un regalino tedesco. E ripensò a quella rabbia che lo aveva cinto dopo aver visto il corpo delicato della donna afflosciarsi a terra come un fazzoletto bagnato. Quella rabbia che gli aveva provocato tutto quel periodo in ospedale, senza che nessuno mai venisse a trovarlo.

Aveva fatto amicizia con una suora, che di una suora aveva poco, a partire dalla verginità, che gli portava il pranzo tutti i giorni. Mentre mangiava gli faceva compagnia raccontandogli di tutto: di come il mondo fosse cambiato, di come l'Europa stesse rinascendo dalla cenere e di come fosse bella Parigi, dove andava un fine settimana sì e uno no. Ci andava per trovare Casanova. Non quello originale, ovvio, ma solo un ragazzo che amava approfittare di tutte le belle donne che venivano ammaliate da lui, tra cui la povera sorella che si era bell'e che innamorata del birbante.

Quella mattina però era solo, solo come una cane. Si annusava l'aria natalizia fin da lì, ma a lui il Natale dava il voltastomaco. 
Girò lo sguardo verso la parete bianca alla sua destra. C'erano due quadri, due copie che la suora gli aveva portato da Parigi l'anno prima. Uno era il suo preferito: la notte stellata di Van Gogh, l'altro un Monet di cui non ricordava il nome. Fissò a lungo il giallo con cui erano state dipinte le stelle e vi trovò tante screziature. Come dentro di sé. Tante parti di un unico insieme. Gli venne da piangere ma cercò di trattenere le lacrime. Invano, inutile dirlo.

Si girò di nuovo e questa volta gli occhi erano puntati sul soffitto. Bianco come il resto delle pareti nella camera. Bianco e spoglio.

"Anche oggi depressione?" la voce squillante di Manon lo fece scuotere. Non se lo aspettava, soprattutto a quell'ora.

"Sei in anticipo. Sono sempre le undici" disse lui con voce piatta, non scostando gli occhi dal soffitto.

"Non sono qui per il pranzo, Jean" a quelle parole lui mosse la testa, con movimenti lenti e scattanti, come se avesse paura di quello che avrebbe visto. Si aspettava una schiera di dottori e infermieri pronti a portarlo in sala operatoria per l'ennesima operazione, forse quella che aspettava da secoli, quella che gli avrebbe finalmente tolto la vita per ricongiungerlo a Cosette.

Invece non fu così. Accanto alla suora c'era un ometto basso e tozzo, che teneva tra le dita callose un vecchio cappello di feltro. Se lo rigirava tra le mani con nervosismo, mentre cercava di non incontrare il bel viso di Jean. Il ragazzo dal canto suo era rimasto senza parole. Non riusciva a spiegarsi perché quell'uomo, quel parente, fosse lì.

"Zio?" sussurrò, credendo di avere davanti agli occhi un fantasma. Non era mai stato morto, ovviamente, ma lui e sua madre non si erano mai parlati, per quanto se ne ricordasse.

Alle parole del nipote, l'ometto alzò lo sguardo, come se fosse stato preso in fallo.

"Ciao Jean, come stai?" lo guardò con premura, facendosi piccolo piccolo dietro quel logoro cappello nero. Jean non seppe cosa rispondere, né con quale tono. Suo zio non c'era mai stato, ma per la prima volta, Manon a parte, qualcuno gli chiedeva come stesse.

Stava bene? Dopo tre anni inchiodato in una stanza d'ospedale? Ma neanche per sogno!

Stava male? In realtà, i dottori avevano sempre parlato di un "ottimo recupero, quasi miracoloso" negli ultimi mesi, quindi in realtà non stava né bene né male. Si trovava in quel fastidioso limbo da cui era impossibile uscirne.

Per tutta risposta alzò le spalle. Lo zio abbozzò un sorriso, un po' compiaciuto dal fatto che il nipote aveva tanta voglia di parlare quanto lui e un po' contento perché d'altra parte, Jean era uno dei pochi parenti che erano sopravvissuti alla distruzione della guerra.

Manon, da inguaribile chiacchierona, non poté sopportare a lungo la situazione, allora s'intromise:

"Tuo zio, Jean, è venuto a prenderti. I dottori ti hanno dimesso. Non sei contento?" sorrise entusiasta, guardando fisso gli occhi blu del ragazzo. Per la prima volta dopo tutto quel tempo, vedeva in lui, sebbene molto rada, un voglia di vivere che prima non aveva.

Jean non poteva crederci. Era finalmente libero. Nessuno più a vincolarlo, non più pareti bianche, disinfettante, non più infermieri, dottori, operazioni e quant'altro. Guardò lo zio che era contento almeno quanto lui. Il ciò dimostrava che, anche seppur poco, a lui ci teneva.

Manon l'aiutò a togliersi il camice, osservando silenziosa le cicatrici sul suo corpo. Erano tante e sparse, come delle dolorose stelle. Quando fu vestito, lo guardò nuovamente nel viso. Aveva paura, una paura folle di non rivederlo mai più. Di non parlare più con lui tutti i giorni, di non ridere più per la sua costante depressione, che si alleviava giorno dopo giorno, ma che lo tormentava sempre, come un'ombra scura nei suoi occhi color del mare.

Anche lui pensava alla stessa cosa. Pensava che la compagnia di Manon gli sarebbe mancata con nient'altro. E forse gli sembrò di scorgere in fondo al cuore quell'amore che aveva provato solo una volta prima d'allora

"Vieni con me Manon, ti prego. Ho bisogno di qualcuno come te, vicino a me. Qualcuno che non mi faccia desiderare di morire ogni mattina appena apro gli occhi. Per favore, vieni con me a Montereau*. Saremo vicini a Parigi, dove potrai incontrarti con Casanova tutte le volte che vorrai" la donna sorrise nell'udire quel nome. Si era dimenticata di dirlo a lui.

"Non vedo più Casanova da un anno ormai. Lui si è trasferito in Italia, a Venezia per ironia della sorte. Perciò ogni volta che vado a Parigi lo faccio perché..." si voltò verso la finestra e osservò fuori. "Non lo so nemmeno io. Vado lì, prendo una bella stanza in un albergo economico e poi sto tutti e due i giorni a gironzolare per la città. Qualche volta vado al cimitero di Montmartre a trovare la tomba dei miei genitori e di mio fratello e se è una bella giornata sto lì a parlare con le lapidi di quanto sia triste la mia vita. Qualche volta gli ho parlato anche di te, sai? Una conversazione col profondo nulla. Poi mangio brioches prima di tornare qui a Bordeaux alla solita vita. Triste, vero? Lo so, lo so, ma avevo paura ad ammetterlo a te, ai miei capi. Tanto di infermiere ce ne è a bizzeffe qua, in questo posto di merda. Quindi se non venissi più, nessuno se ne accorgerebbe" tornò a guardare Jean che la fissava curioso: "perciò d'accordo, vengo con te" Jean le sorrise dolcemente, facendo sì che la cicatrice sulla guancia si arricciasse. La donna sfiorò con il pollice la piegatura e pensò al giorno in cui era arrivato e in quella parte del viso non c'era altro che sangue. Era stata lei a ricucirgliela. Sentiva quindi che lui avrebbe sempre avuto una parte di lei con sé.

E quasi senza aspettarselo si trovò a baciarlo. Fu una cosa breve, ma abbastanza lunga per lui. Non ricordava nemmeno più l'ultima volta che aveva avuto un contatto così vicino con un essere umano. Figuriamoci un bacio.

Manon dette immediatamente le dimissioni, mettendo in un sacchettino di stoffa i franchi che le spettavano quel mese e seguì il ragazzo e l'ometto. Quest'ultimo si mise a sedere davanti al carretto di legno a comandare i cavalli, che li avrebbero condotti alla ferrovia più vicina, mentre i due giovani si sdraiarono dietro, abbracciati l'uno all'altro, ridendo delle loro disgrazie, come solamente due disperati come loro potevano fare.





 

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*Per Montereau intendo un posto reale vicino Parigi che si chiama Montereau-Fault-Yonne. Lì c'è la confluenza tra la Senna e La Yonne. 

Angolo autrice:  questa sarà una storia leggermente diversa dalle altre, a partire dall'epoca in cui è ambientata; gli anni '50. Mi sono informata sui periodi storici che tratterò, ma se vedete qualche incongruenza, per favore segnalatelo, ve ne sarò molto grata


Alla prossima, 
Restart

   
 
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