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Autore: Black_Eyeliner    20/07/2016    1 recensioni
Ogni tanto vengo qui, nella stanza numero 7.
E sfido la morte.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La stanza numero 7.
 

Mi piace venire qui.
Di tanto in tanto, ne sento il bisogno.
Quando la fissità dei giorni tutti uguali, gemelli siamesi di se stessi, mi si appiccica addosso come lo zucchero filato tra le dita di un bambino al luna park, non resisto.
Metto a soqquadro il grande armadio a quattro ante che ho in camera e, quando finalmente l’ho trovato, tiro fuori il mio grosso zaino di pelle nera e borchie, sopravvissuto chissà come ai tempi verdi del liceo, quando ancora fumarsi uno spinello, leggere Bukowski e spararsi nelle cuffie i Nirvana a un volume impossibile significava tutto.
Significava essere fighi. Significava trasgredire.
Significava essere vivi.
Dopotutto, vivere sul serio è anche un po’ trasgredire.
Non pretendo di averne la prova empirica.
Ma davvero, basta scoccare un’occhiata ad un qualsiasi orologio analogico, fissare bene il quadrante, i numeri arabi in successione perfetta da uno a dodici.
Tic, tac. Tic, tac.
Produce esattamente questo suono, l’orologio, mentre le lancette, disciplinate e ligie come i suoi soldatini, scandiscono il passo inesorabile e tronfio di sua maestà il tempo.
Quando ero ancora una bambina, rimuginavo continuamente sui mille modi di infrangere il vetro dell’orologio della cucina dei miei genitori solo per arrivare a toccare le lancette, fermarle, forzarle a girare all’indietro.
Ancora non ne sapevo niente di liceo, di spinelli, di Bukowski e di Nirvana; ma sapevo perfettamente già allora di trasgredire  quella legge universale, tacitamente accettata da tutti.
Quella secondo la quale il tempo va avanti.
Quando si prova a riportarlo indietro, si ha un po’ l’illusione di combattere la morte.
E se combatti la morte, vuol dire un’unica cosa.
Sei maledettamente vivo.
Oggi voglio fare esattamente questo: vivere.
Riportare per qualche ora il tempo indietro, far girare le lancette in senso innaturale, antiorario.
Combattere contro la morte con la spada affilata di una nostalgia furibonda.
Trafiggerla.
Oggi voglio sconfiggerla.
Per questo, di tanto in tanto, ritorno sui miei passi.
Non è debolezza. E’ la stessa voglia di gridare “bis!” quando la band sul palco ha appena finito di suonare la tua canzone preferita.
E’ la stessa voglia di non morire.
E così stamattina, di buon’ora, ho preso il mio zaino di pelle nera e borchie e l’ho riempito con l’essenziale: un paio di mutande, una maglietta, un paio di shorts, un taccuino e una penna. Sono sempre stata una donna dannatamente atipica. L’ho gettato come una cosa di poco conto sul sedile passeggero della mia utilitaria, prima di prendere posto alla guida, inforcare sul naso le Rayban modello classico, accendermi una sigaretta e mettere in moto. Circa 800 chilometri di autostrada semideserta, l’asfalto nero come una colata di caramello bruciato e un’estate feroce a bussare coi suoi 40 gradi contro le lamiere bollenti dell’auto.
Detesto questa stagione, mi dico, mentre alzo distrattamente il volume di “Think Of Me With Kindness” dei Gentle Giant e vorrei che estati smorte come queste fossero definitivamente cancellate dai calendari.
Estati Smorte.
Estatis Morte.
Adoro l’estatica e ineffabile bellezza della destrutturazione sillabica.
Il tempo di pensare a questa cosa inutile ed eccomi, finalmente, di nuovo qui.
“Bentornata. La solita?”
La portiera mi rivolge un sorriso laconico, mentre pronuncia i suoi convenevoli da dietro il bancone della reception con un tono di voce asettico, privo di inflessioni, estremamente professionale.
Vorrei poterle spiegare quanto mi sia realmente mancata la stanza numero 7 del suo alberghetto fatiscente, ai margini pulciosi di una metropoli che non riesce a far sentire il proprio rumore fino a qui.
Di quanto il numero 7 mi sia caro almeno dal giorno in cui ho cominciato a leggere, anni fa, quel manga, tale Nana. No, non ci voglio pensare, perché se penso a Ren, piango come una fontana e ora come ora non me lo posso proprio permettere.
Per cui mi limito a sorriderle di rimando, soffermandomi sui suoi capelli bianchissimi raccolti in una cocchia sulla nuca, sul suo abito nero e compito, sulle sue lunghe dita sbilenche e rugose che, nel porgermi la pesante chiave di ottone scurito, rivelano la sua età attempata molto più di quanto non faccia l’ovale scarno del suo viso.
“La 7 andrà benissimo”, aggiungo soltanto, dirigendomi zaino in spalla verso la buia e angusta scala di legno che porta ai piani superiori.
 
Ricaccio in un lungo sospiro l’aria che non mi ero neppure accorta di aver trattenuto fino a quel momento, mentre mi richiudo la porta che stride sui vecchi cardini alle spalle.
Finalmente sono qui, nella stanza numero 7 di questa sudicia pensione a una sola stella, in un angolo non meglio precisato della periferia milanese.
E’ scesa una sera appiccicosa, umida; un’afa invisibile, contornata da un cielo nerissimo e senza nessuna stella: solo uno spicchio pallido di luna calante mi ricorda che ci deve essere il cosmo da qualche parte, oltre questa terra che implora di non perdersi, parte infinitesimale nell’infinità dello spazio.
E’ buio, ma l’insegna luminosa dell’hotel basta a rischiarare, attraverso l’unica finestrella rettangolare della camera, le vecchie assi di legno del pavimento, il pacchiano motivo floreale del copriletto, la sedia a tre gambe tutta spagliata vicino all’armadio a una sola anta.
Il neon rosso della “O” di “Hotel” si è quasi del tutto fulminato: produce un suono sordo, simile a un ronzio e palpita, come una farfalla ferita a morte. Quante farfalle ho rincorso da bambina e quante altre ne ho catturate per studiare i colori ipnotici delle loro ali, Vispa Teresa anarchica e commossa da tanta, orribile, violenta fragilità. Ho sempre campato di ossimori campati in aria, mi dico, abbozzando un sorrisino amaro.
Getto lo zaino sul letto e mi sfilo esausta le Cult di pelle nera, mentre lascio a consumarsi la Marlboro che ho appena acceso nel posacenere sul mobile tarlato, accanto al telefono.
Il dottor Grimaldi me l’ha detto fino allo sfinimento che la devo smettere con le sigarette. A giudicare dagli attacchi di tosse mattutina che mi tolgono il fiato, mi sa che ha ragione. Ma più che un vizio, il fumo è un diversivo, un modo come un altro per ammazzare il tempo che, tutto a un tratto, finalmente cessa la propria rincorsa verso la morte. Si immobilizza, catturato dai margini di un’istantanea che non esiste e  che scatterei, se solo avessi avuto la premura di portarmi dietro la mia reflex.
Succede ogni volta che vengo qui, nell’attesa logorante che il telefono squilli.
Squillerà, ne sono certa. Lo farà prima che la sigaretta si sia ridotta a null’altro che un cilindro di cenere.
Dopotutto, lo ammetto. Se vengo qui, di tanto in tanto, è per incontrare te.
Inizio ad essere impaziente.
Ti sarai accorto, stavolta, del mio arrivo?
Tento in qualche modo di calmarmi, di attenuare i battiti velocissimi di un cuore che sembra voglia a tutti costi scappare alla gabbia toracica che lo imprigiona da sempre.
Mi guardo un po’ intorno. Non è cambiato proprio niente dall’ultima volta che sono stata qui. C’è addirittura la vecchia copia de “La Sacra Bibbia” conservata in uno dei ripiani del mobile di cedro. Ora che ci penso, non ho portato nulla da leggere con me e la storia di Davide e Golia la rileggerei volentieri, se non fosse che è un altro il motivo per il quale ho macinato sotto i pneumatici quasi 800 chilometri.
Chissà se la stanza in cui Cesare Pavese decise di addormentarsi per sempre assomigliava un po’ a questa. Chissà se anche nella sua camera d’albergo, da qualche parte, stava conservata una vecchia copia della Bibbia che avrebbe potuto distoglierlo da quella sua indomita volontà di morire. Non faccio nemmeno in tempo a concludere quel pensiero che il telefono inizia per davvero a squillare. La sigaretta si è davvero ridotta a un cilindro di cenere. Uno, due. Tre squilli.
Sollevo il  ricevitore con la mano che trema. E’ lo spasimo di un’emozione indefinibile, un misto di timore e trepidazione.
“Pronto?”, azzardo in un mormorio appena percettibile.
Sulla linea corre solo silenzio, respiri moderati ed infine un sussurro.
“Posso venire da te?”.
Quanto mi è mancata la tua voce: bassa, grave, indicibilmente tenera.
“No, non puoi. Devi.”
Ti intimo, in modo perentorio, mordendomi il labbro inferiore per non scoppiare subito a piangere di gioia; e non faccio nemmeno in tempo a riagganciare, che sento bussare alla porta.
Ah, amore mio, ti riconosco persino dal modo di bussare ad una semplice porta: quei due colpetti secchi, quasi imbarazzati, li distinguerei fra mille altri, credimi.
Dovrei lanciarmi letteralmente contro l’uscio e invece esito, temporeggio. Mi avvicino a passo lento alla porta e la schiudo con una lentezza estenuante. Lo faccio apposta. Lo faccio per godermi pienamente l’attimo, l’istante in cui comincio piano piano a intravedere nello spiraglio tra lo stipite e l’anta la tua figura esile, un po’ smunta e me lo chiedo. Mi chiedo come diavolo faccia un uomo ad apparire così seducente, seppure visto solo a metà. L’incompletezza non è che fascino superbo.
Non ti dico di entrare, a questo punto sarebbe superfluo. Ci sono momenti che sono esattamente come le vignette di un manga: senza parole a scalfire l’incommensurabile dolcezza di un’espressione. Così, mi limito ad aprire la porta quel tanto che basta a concederti di entrare.
Ti concederei di tutto, ma per il momento ti concedo di mostrarti alla luce intermittente del neon rosso dell’insegna dell’hotel.
E’ passato quasi un anno dall’ultima volta che ti ho visto, J., eppure il tempo, quello stesso tempo che corre inarrestabile verso la morte, su di te sembra non avere avuto alcun potere. I tuoi capelli sono più neri di questa mezzanotte senza stelle, come le tue pupille, due scaglie di ossidiana imprigionate nel taglio allungato, vagamente esotico dei tuoi occhi.
Mi sorridi senza proferire verbo, con quelle labbra sottili perennemente screpolate di vento e di freddo, nonostante sia Luglio inoltrato e l’estate ti voglia a tutti i costi strappare all’inverno, al quale la tua pelle pallida appartiene di diritto.
E ti sorrido anch’io, perché le parole rovinerebbero solo questo tempo immobile, cristallizzato nella bellezza eterna di questo nuovo incontro.
Come sempre hai portato il sax con te. Luccica anche lui, col suo corpo dorato, nella luce soffusa del neon elettrico; luccica proprio come le prime gocce di una pioggia improvvisa, che il meteo non era riuscito a prevedere.
Non c’è bisogno che ti parli, per pregarti di suonare per me.
Dopotutto lo fai sempre, ogni volta che vengo qui.
La stanza numero 7 stanotte è di nuovo testimone, insieme a noi, che la morte non è invincibile.
Sono le tue dita diafane sui tasti e sulle chiavi, la tua bocca sull’ancia e le note sommesse di “Blue in Green” di Miles Davis che sublimano come vapore dalla campana del sax, saturando la stanza accaldata, che la sfidano e la corrompono e la uccidono.
C’è solo vita, qui. Nient’altro che vita, traboccante di un amore senza tempo.
 
Mi sono svegliata presto, stamattina.
Tra le lenzuola sgualcite mi sono ritrovata da sola, ma il biglietto che ho ritrovato tra le pieghe basta a farmi incurvare le labbra in un sorriso.
“Vienimi a trovare ancora”, dice soltanto la nota, scritta con quella tua grafia nervosa, acuminata, quasi febbrile che contrasta col senso di pace che pervade ogni singola parte del tuo essere, rendendoti etereo, inarrivabile. A due passi dal verosimile e a uno solo dal sogno onirico di non esistere. Il tempo di una doccia e di un cambio di abiti e sono già al pian terreno, dove c’è la portiera ad attendermi.
Lei, invece, non si è cambiata. Ha addosso lo stesso abito scuro della sera prima.
Mi fa il conto a testa bassa, non mi chiede se ho fatto  colazione.
Come al solito, mi sorride e “alla prossima”, mi dice con quella sua voce sottile, senza incrinature che possano tradirne in qualche modo  una vaga emozione.
Lei lo sa che, anche quella notte, sono stata l’unica cliente del suo alberghetto di periferia.
E sa benissimo che nella stanza numero 7, J. tanto tempo fa si è impiccato, lasciando null’altro che il suo sax e un pacco di vecchi spartiti ingialliti dal tempo. Nessun biglietto a spiegare il motivo di quel suo folle gesto. Solo una sigaretta ridotta a un cilindro di cenere accanto a un telefono che aveva atteso invano squillasse.
Ma non me lo dice, perché ha paura che io possa non tornare più e, per quanto misero, del mio periodico incasso ha bisogno per non chiudere i battenti.
Ma tornerò, questo è sicuro.
Aspetterò  ancora una volta che il telefono squilli mentre una Marlboro rossa si ridurrà in cenere.
E ascolterò “Blue in Green”, reggendomi in equilibrio sulla vecchia sedia spagliata a tre piedi, mentre farò il nodo a quel pezzo di fune, lasciando finalmente vincere la morte.
 
Per una volta soltanto.
 
La rivincita va concessa a tutti, prima o poi.
   
 
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