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Autore: smarsties    22/07/2016    4 recensioni
Duncan/Courtney || 4.2k words || La one shot è ispirata a Mary's Song (Oh My My My) di Taylor Swift
E nessuno sapeva che quel gesto voleva dire tanto. Sanciva la sua vittoria a quel gioco dell’acchiapparella che si protendeva insistentemente da quando erano bambini. Se l’era ripromesso, negl’anni: lo avrebbe preso, fosse stata anche l’ultima cosa che avrebbe fatto nella vita. E ora era certa di avercela fatta.
Genere: Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan | Coppie: Duncan/Courtney
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
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N.d.A. Consiglio la lettura con questa in sottofondo.

 

 

 

 

il gioco dell’acchiapparella
 

 

She said, I was seven and you were nine
I looked at you like the stars that shined
In the sky, the pretty lights

Due bambini, un maschio e una femmina, giravano attorno senza mai staccarsi gli occhi di dosso, fronteggiandosi e tenendo le loro spade di legno ben sguainate l’uno contro l’altra. Le erbe alte della campagna solleticavano le loro gambe scoperte mentre il sole caldo di metà luglio tramontava, proiettando le loro ombre sul terreno. Ma nonostante la sera cominciasse a inoltrare, i due non si azzardavano ad abbassare le armi.
«Ti farò mangiare la polvere» dichiarò Courtney, più piccola d’età e più bassa di una spanna, eppure con una convinzione smisurata per una bambina di sette anni.
Mirò con forza alla sua spalla, ma lui evitò il colpo con estrema facilità, spostandosi di lato.
«Non ci conterei più di tanto, principessina» la derise Duncan, dall’alto dei suoi nove anni, con un ghigno stampato in volto. «Come speri di vincere, se non riesci neanche nei tiri più facili?»
Lei, irritata dall’ultima affermazione, sferrò un altro colpo alla cieca, ancora più potente del primo. Nessuno poteva prenderla in giro. Peccato che anche questo venne parato, andandosi a scontrare contro l’altra spada con un colpo secco.
Continuarono così per un po’, con lei che cercava di colpirlo con tutte le mosse possibili ed inimmaginabili e lui che sghignazzava sommessamente ogni volta che falliva.
Amava più di qualunque altra cosa farla innervosire, solo per vedere la sua faccia assumere quel patetico colorito rosso e sentirla rivolgergli qualsivoglia tipo di insulto contro - e, molto spesso, i suoi insulti risultavano talmente assurdi e poco offensivi che erano ancora più esilaranti della sua espressione. E poi, anche se non l’avrebbe mai e poi mai ammesso, era così carina quando si arrabbiava.
Alzò le mani, incitandola a fermarsi, ma non ottenne l’effetto sperato: Courtney, approfittando del momento di distrazione, picchiò la sua mano con abbastanza forza da fargli mollare l’arma e, prima che potesse accorgersene, era a terra, con lei addosso e una spada di legno puntata contro il naso.
«Dì le tue ultime preghiere» sussurrò, con un sorrisetto stampato in viso a dir poco inquietante. Era così vicina che poteva sentire il respiro irregolare uscire dalle sue labbra.
Sebbene la situazione non fosse esattamente dalla sua parte, Duncan non poté fare a meno di continuare a ridacchiare.
«Non vale» si limitò a dire. «Stavo per dichiarare un “cessate il fuoco”».
«Niente scuse, avanzo di discarica» lo liquidò lei impassibile, premendo un poco di più la spada.
E probabilmente sarebbe stato sconfitto - anche quella volta -, se la cena non fosse stata pronta e non gli fosse venuta la brillante idea di indire una gara a chi arrivasse per primo a casa.
Il piacevole tepore della sera era intriso di scalpiccio di piedi e di risate di infanti; qualche lucciola illuminava gli alberi e il sentiero brecciato.
E loro correvano, sempre più forti, sempre più veloci, disposti a tutto pur di trionfare. Ogni tanto lui gridava «Prendimi, se ci riesci!», e lei rispondeva «Sto arrivando». Ma, anche se arrivava, non riusciva mai ad acchiapparlo, era troppo veloce.
E allora continuava, aumentando un po’ di più la velocità, cercando di migliorarsi e senza mai arrendersi, perché lo sapeva: un giorno l’avrebbe raggiunto.
«Direi che hai perso anche stavolta, principessa» annunciò Duncan, superando con un salto la staccionata.
«Ti ero praticamente dietro. Hai vinto solo perché porti i pantaloni» ringhiò, evitando di far impigliare la stoffa della gonna a qualche vite dello steccato in legno.
«Certo, come no» commentò, per poi cambiare subito argomento. «Chissà cosa c’è per cena».
Ma prima che potessero fare un altro passo, si ritrovarono il percorso sbarrato dalle loro madri, che avevano uno sguardo a metà tra lo sconvolto e l’accigliato.
«Cos’hai sulle guance?» quasi urlò la signora Nelson, strofinando via alla meno peggio alcune tracce dal viso del figlio, che si limitò a dire: «Pittura da guerra».
«E siete tutti sudati!» enfatizzò la signora Barlow. «Andate subito a darvi una sciacquata, tutti e due, altrimenti niente cena».
«Ma mamma!» esclamò Courtney, mettendo su il broncio, col tono di qualcuno che ha da replicare; basto un’occhiata furente per farla zittire.
«Ma abbiamo fame!» diede manforte Duncan, incrociando le mani al petto.
«Sicuramente tu non mangi, se non ti levi quello schifo dalla faccia» gli rispose sua madre.
I due bambini, rassegnati, si avviarono verso casa; nel frattempo, dal barbecue poco distante, si levò la voce gioiosa del signor Nelson, che li fece voltare: «Finalmente siete tornati, bricconcelli! Dove siete stati? E soprattutto, cosa avete combinato?»
«Credo sia quasi arrivato il momento di fare un bel discorsetto, giovanotto» commentò il signor Barlow, trattenendo una risata.
Usciva dall’ingresso con in mano un piatto di costolette e, attraversando il vialetto, si fermò a scompigliare i capelli mori del bambino, che, a quel tocco, arricciò il naso e cercò di rimetterli nel loro usuale ordine.
Mentre i papà scherzavano sul fatto che loro due, crescendo, sarebbero potuti innamorarsi, le mamme sorridevano e ruotavano gli occhi, dicendo qualcosa - o forse la intonavano? - che nessuno dei due bimbi percepì. Questi comportamenti, tuttavia, infastidirono molto Courtney che, con una smorfia in viso, si trascinò dentro.
Ricordava come si erano conosciuti, lei e Duncan, circa due anni prima: i suoi genitori, che erano soliti accogliere i loro nuovi vicini, avevano invitato i coniugi Nelson e il loro figlioletto, appena arrivati nel quartiere, ad una cena - a cui ne sarebbero conseguite tante altre - finalizzata a conoscersi meglio. La prima frase che le aveva rivolto era stata «Vuoi vedere come faccio esplodere una bottiglia di coca-cola, usando solo delle mentine?»; lei aveva semplicemente risposto: «Sei un essere ripugnante». Da lì era nata la loro amicizia.
Andavano nel campo vicino un giorno sì e l’altro pure, giocavano a nascondino o con le spade di legno, oppure si arrampicavano sino alla loro casetta sull’albero. Sebbene bisticciassero in continuazione, stava bene con lui.
Vedendo che andavano così d’accordo, i loro papà avevano cominciato a prenderli in giro con strane supposizioni riguardo loro due. A Duncan la cosa divertiva non poco e il più delle volte stava al gioco, ma lei non riusciva a tollerarlo e nemmeno a riderci su.
Era semplice da capire: non si sarebbero mai e poi mai messi assieme, lui non era decisamente il suo tipo e loro due erano solo amici. E baciare un amico era strano.
«Davvero credono che tra noi potrà esserci qualcosa di più di questo?» gli chiese di colpo, mentre apriva il rubinetto del lavello e metteva le mani sotto l’acqua corrente.
«Forse» rispose lui, con un ghigno, mentre lavava via gli ultimi residui di fango. «Ma una cosa è certa: sei una schiappa nella corsa».
C’era una strana luce nei suoi occhi, uno scintillio che, col tempo, avrebbe imparato a ricollegare alle stelle che splendevano in cielo.
«E tu lo sei con le armi» ribatté, ripensando alla vittoria schiacciante di poco prima.
«Avrei potuto batterti anche con le mani legate dietro la schiena,» disse con una scrollata di spalle, «solo che ho preferito lasciarti vincere. È così che si fa, è un gesto cortese verso chi è più debole e più piccolo di te».
Non era vero, non l’avrebbe battuta comunque. Non l’aveva mai fatto.

 
Take me back to the house in the backyard tree
Said you'd beat me up, you were bigger than me
You never did, you never did

 

• • •

 

And our daddies used to joke about the two of us
They never believed we'd really fall in love


Courtney ricordava quanto le desse fastidio da piccola quando suo padre faceva battute a tavola, insinuando in un’improbabile storia tra lei e Duncan. Si tappava le orecchie e correva dritta in camera, pur di non sentirlo più.
Semplicemente, la trovava un cosa impossibile, innamorarsi del suo vicino di casa, specie per un punto fondamentale: per portare avanti una relazione seria bisognava andare piuttosto d’accordo e avere almeno qualche punto in comune; loro due, non solo erano l’uno l’esatto opposto dell’altra, ma finivano per battibeccare, anche per le cose più patetiche e futili, con un’estrema facilità. Una volta, ad esempio, se l’era presa con lui solo perché le aveva dato della permalosa - dimostrandogli, tra l’altro, che aveva ragione.
Quindi, in conclusione, non avevano alcuna chance.
E poi si ritrovò ad avere di colpo sedici anni e a pensare che forse quella bambina si sbagliava, forse c’era una piccola possibilità.
Quel giorno sedevano insieme sul divano in salotto: lui ripassava la lezione di scienze, sdraiato a pancia in su e il libro sospeso sulla testa; lei tentava di svolgere una complicata espressione di algebra, col quaderno poggiato sul bracciolo. Stavano in religioso silenzio, quando lui lo ruppe con una delle sue affermazioni idiote.
«Mi chiedevo,» cominciò, chiudendo il libro e rimettendosi seduto, «tu che sai sempre tutto, sai cosa succederebbe se mandassimo un lupo mannaro sulla luna?»
Vedendo che scuoteva la testa, come per autoconvincersi che non avesse veramente detto una cosa del genere, si affrettò ad aggiungere: «Dai, è un grande quesito!»
«È la cosa più stupida che abbia mai sentito» sillabò, alzando gli occhi dal foglio e puntandoli nei suoi.
«Invece di porti certe domande insensate, perché non pensi a ripassare per l’interrogazione di domani?»
«Stai deviando il discorso, quindi devo supporre che tu non lo sappia» disse, avvicinandosi pericolosamente al suo volto e portando una mano dietro la sua nuca. «Stai cadendo in basso».
E poi posò le labbra sulle sue in un bacio delicato, accarezzandole i capelli e attorcigliandoli attorno alle dita, mentre lei, titubante, poggiò le mani sul suo viso. L’unica cosa che riusciva a realizzare era che il suo vicino di casa la stava baciando e le piaceva da impazzire.
Di punto in bianco, il divano del salotto di casa sua era diventato il posto più romantico del mondo.
La cosa più divertente di tutta la situazione era che, alla fine, i loro papà non ci avevano creduto, al fatto che si erano davvero innamorati. Ci avevano scherzato una vita, eppure non si erano trovati pronti, quando gliel’avevano detto.
Durante una delle loro solite cene, proprio mentre veniva servito il dolce, Duncan aveva avuto la brillante idea di alzarsi e, di conseguenza, far piombare la stanza nel più completo silenzio. Come se fosse stata la cosa più scontata al mondo, aveva annunciato con la più completa nonchalance: «Ad ogni modo, ci tenevo a farvi sapere che io e Courtney stiamo assieme».
Servirono esattamente tre secondi per assimilare la notizia, dopodiché il signor Barlow sbiancò e cominciò a boccheggiare, balbettando parole a caso, mentre il signor Nelson per poco non collassò, rischiando di far finire la sua faccia nella sua porzione di tiramisù. In tutto ciò, le mamme scoppiarono in una fragorosa risata, alimentata sia dalla reazione dei loro mariti, sia dalla notizia appena appresa: evidentemente, se lo aspettavano già da tanto tempo.
Courtney, sebbene in quell’occasione rimase completamente attonita e, in un certo senso, la prese anche un poco sul personale, ripensandoci a distanza di mesi non poteva fare altro che riderci su.
Anche perché, all’inizio tutto quello era così strano, così inusuale. Erano amici da una vita e, di punto in bianco, era cambiato tutto. L’amicizia e l’affetto si erano tramutati in un sentimento più profondo, più intimo, e avevano lasciato spazio all’amore. Ed era anche imbarazzante manifestarlo: carezze, abbracci, baci in pubblico.
Poi col tempo alcune azioni erano divenute così quotidiane che ci aveva preso l’abitudine. Sembrava che lo fossero sempre state, in qualche modo. Come le lunghe passeggiate alle due di notte in mezzo alla campagna.
Quell’estate, infatti, Duncan aveva avuto la brillante idea di prendere la macchina di suo padre e di guidare fino alla periferia della città, dove la vegetazione di estendeva a perdita d’occhio. All’inizio vi andò da solo; successivamente, dopo averla pregata per tre interi giorni, era riuscito a portare anche Courtney.
E così almeno due volte alla settimana prendevano la macchina e lasciavano la città, giungendo a quello che divenne il loro posto segreto. Si toglievano le scarpe e camminavano, mano nella mano, con l’erba che accarezzava loro i piedi. Talvolta si sdraiavano e guardavano le stelle in perfetto silenzio. E bastava solo quello.
«Sei troppo lenta, principessa».
«Questo lo credi tu».
Quella notte di inizio agosto, invece, avevano deciso di giocare a rincorrersi, così quando erano dei bambini. E, come allora, lui la provocava e lei cercava di migliorarsi e di acchiapparlo. E, sempre come allora, ogni volta che si avvicinava, lui sgusciava via veloce.
«Okay, può bastare così per oggi» annunciò Duncan, fermandosi e afferrando Courtney per i polsi, impedendole di schiantarsi contro di lui.
«Perché hai capito che si era messa male per te?» domandò lei con un sorrisetto.
«Perché comincia a farsi tardi» rispose, scuotendo la testa. «E poi, sinceramente, non riuscirai mai a battere il maestro».
Courtney passò una parte del viaggio di ritorno in silenzio, ad ammirare la cresta verde del suo ragazzo. Aveva quasi quattordici anni, quando aveva deciso di tingersi il ciuffo di quel colore. Lei aveva sempre detestato quel taglio assurdo e più volte gliel’aveva ricordato, eppure adesso cominciava a piacerle.
Come cominciavano a piacerle i piercing sparsi sul suo volto. Il primo, quello sul naso, l’aveva fatto a sedici anni e, nel giro di due anni, ne erano seguiti tanti altri. Ognuno di loro era stato causa un anno in meno da vivere per i genitori e di almeno una settimana di mutismo selettivo da parte sua.
Quando incominciarono ad intravedersi le prime luci della città, si azzardò a proferire parola.
«Stavo pensando,» cominciò, guardando dritto davanti a sé, «che ho bisogno di pratica per sconfiggere il “maestro”» E qui si fermò un attimo per mimare delle virgolette, mentre lui sghignazzava. «Quindi, che ne diresti se andiamo nel nostro posto segreto anche domani?»
«Mi ‘spiace» disse Duncan improvvisamente serio. «Ho promesso a Gwen che domani sarei uscito con lei e il resto della compagnia».
Sentì improvvisamente la rabbia ribollirle dentro.
Duncan e Gwen si conoscevano dai tempi delle medie e subito avevano istaurato un buon rapporto, avendo molti punti in comune. Erano diventati migliori amici nel giro di due settimane. Avevano anche provato ad avere una relazione in primo superiore, ma in seguito avevano capito che si volevano bene più come fratelli che come fidanzati e avevano lasciato perdere.
A Courtney non era mai particolarmente andata a genio, sarà forse per il suo carattere duro e scontroso, o per i vestiti da gotica, oppure perché lei la considerava una bambinetta viziata. Ma il motivo principale, anche se non l’avrebbe mai ammesso, era che andava fin troppo d’accordo con Duncan, e questo non le andava particolarmente giù.
All’inizio della loro relazione, lui le aveva gentilmente chiesto di provare a legare con la sua migliore amica, ma aveva deciso di sorvolare quando, alla prima uscita, le aveva rovesciato addosso la coppa di gelato, dopo una provocazione non troppo velata.
Duncan si accorse del silenzio astioso e, con molta precauzione, provò a romperlo.
«Ho per caso detto qualcosa di sbagliato?»
«Gwen» mormorò lei come se si trattasse di un insulto pesante.
«Potresti essere più chiara?»
E mezzo secondo dopo gli stava urlando contro tutto il suo disappunto.
«Ogni volta che ti chiedo di uscire, c’è sempre di mezzo lei! Non ne posso più di essere messa in secondo piano rispetto ad un cadavere ambulante!»
Duncan si fermò a riflettere per un secondo.
«Provo ad azzardare un’ipotesi» partì, cercando di scegliere le parole più adeguate. «Non è che sei, non so… gelosa di Gwen?».
Lei scoppiò in una risatina di scherno.
«Io dovrei essere gelosa di Gwen? Hai voglia di scherzare?» chiese con tono isterico, ridendogli in faccia. «Dimmi, cosa dovrei invidiare ad una gotica pallida e con un pessimo gusto nel vestirsi?»
In qualche modo, quelle parole cominciarono ad urtarlo.
«Basta» borbottò.
«Cos’è, ti dà fastidio sentire la verità? Ti dà fastidio che io le dia della sciattona, della vampira e magari anche della drogata?»
Non si era mai sentita così piena di rancore. Avvertiva un lacerante bruciore al petto. Si era tenuta dentro quelle cose per troppo tempo.
«Court, stai esagerando» disse, alzando appena la voce e stringendo più forte il volante, fino a che le nocche non diventarono bianche.
Stava per esplodere, se lo sentiva.
«Io esagero!» esclamò ironica. «L’ho visto come ti guarda, come si comporta con te quando non ci sono. Con quel sorriso da vipera velenosa e quegli atteggiamenti da troietta…»
Fu la goccia che fece traboccare il vaso.
«Taci» ringhiò furioso, facendola ammutolire di colpo. «Invece di criticare Gwen, perché non pensi al tuo carattere insopportabile? Lei potrà anche essere una vipera, ma perlomeno non è uno schifoso essere sputasentenze, o un’acida viziatella del cazzo, oppure una perfettina rompipalle con le manie di perfezionismo».
Si pentì mezzo secondo di quello che aveva detto, quando intravide dallo specchietto i suoi grandi occhi neri sgranarsi e riempirsi di lacrime e sentì il singhiozzo che le morì in gola. Aveva rovinato tutto, aveva sprecato l’unica possibilità che gli aveva dato.
Nessuno aprì bocca fino a quando Duncan non parcheggiò lungo il viale. Dopodiché lei si limitò a dire: «Okay, mi sembra chiaro che preferisci lei».
E, senza aggiungere altro, scese dall’auto e si avviò verso casa sua.
Si sentiva umiliata, tradita, profondamente ferita da quelle parole piene di collera. L’aveva perso a causa di Gwen, le aveva permesso di rovinare la loro splendida relazione.
Non aveva mai sentito Duncan così distante. Era come se stessero giocando ancora al gioco dell’acchiapparella: lei lo rincorreva ma, più cercava di raggiungerlo, più lui si allontanava, facendo sì che il gioco continuasse ininterrottamente. Ma adesso le era chiaro che quel gioco, per quanto bello fosse stato, era finito per sempre: non l’avrebbe mai preso.
«Courtney, aspetta!» le gridò dietro Duncan, attraversando il cancelletto con un balzo.
«Che diamine vuoi adesso?» gli chiese urlando, la voce che le tremolò per un istante, voltandosi di scatto e lottando contro le sue lacrime.
«Io… mi dispiace, davvero…» cercò di dire, grattandosi la nuca.
«Risparmiati le scuse» lo fermò con un gesto della mano.
E, prima che potesse scoppiare a piangere davanti a lui, percorse velocemente il vialetto e si richiuse la porta di casa alle spalle con un tonfo sordo.
Non provò nemmeno a fermarla, non avrebbe risolto niente. Doveva aspettare che si calmasse, che si sfogasse.
Era la prima volta che loro due litigavano seriamente. Non erano mai andati d’amore e d’accordo, ma non erano mai arrivati a tanto, non era mai arrivato ad apostrofarla con termini del genere.
Era stato un imbecille, un perfetto stronzo, e di certo non si sarebbe sorpreso, se Courtney avesse deciso di rompere ogni tipo di contatto con lui.
Il flusso dei suoi pensieri fu interrotto da un tuono improvviso e, successivamente, da un’incresciosa pioggia.
Allora si accomodò sotto il porticato di casa Barlow, il più al riparo possibile. Avrebbe aspettato la mattina e le avrebbe chiesto scusa, senza muoversi di lì finché non le avesse ottenute.
Chiuse gli occhi, inconsapevole del fatto che, l’indomani, Courtney l’avrebbe ritrovato lì per terra, infreddolito e fradicio, e l’avrebbe fatto entrare. E, dopo essersi entrambi scusati, lei gli avrebbe dato il bacio più bello che avesse mai ricevuto.

 
Take me back to the time we had our very first fight
The slamming of doors instead of kissing goodnight
You stayed outside till the morning light

 

• • •

 

And you looked at me, got down on one knee

 
Courtney ricordava quel giorno come se fosse ieri.
Si era appena laureata in giurisprudenza con il massimo dei voti e, dopo la cerimonia, Duncan l’aveva strappata via dai parenti e da tutto il giro di baci, abbracci e congratulazioni. Aveva preso la macchina e aveva guidato fino al loro posto segreto, come quando erano due ragazzini.
«Perché siamo qui?» gli chiese fissando la linea dell’orizzonte, mentre il vento le scompigliava i capelli e le rovinava l’acconciatura impeccabile.
«Ti ricordi quando ti ho chiesto di infiltrarti illegalmente con me a quel concerto e tu hai rifiutato, dicendo che era un’idea folle e stupida?» domandò, la voce un po’ roca perché era stato in silenzio a lungo.
Lei annuì. Quella storia era diventata ormai leggenda nel loro quartiere.
Quell’estate uno dei gruppi preferiti del ragazzo veniva in tour in una città a poco più di mezz’ora da lì e la tappa era andata sold out nel giro di poche ore. Duncan, all’epoca quindicenne, aveva raccontato una balla colossale ai suoi genitori ed era salito sul primo autobus diretto in città, intenzionato ad andare al concerto senza però avere il biglietto.
Una volta davanti al palazzetto, aveva oltrepassato la recinsione facilmente e aveva cominciato a correre verso il parterre, seminando la guardia che gli stava alle calcagna. Si era goduto lo spettacolo, ma era stato beccato fuori dall’ingresso.
Verso mezzanotte e mezza il vicinato fu svegliato da una macchina della polizia e si riversò in strada, dove trovarono il figlio dei Nelson affiancato da due sbirri, impegnati a raccontare ciò che era successo ai suoi genitori sotto shock. Una delle cose che nessuno dei presenti potrà mai dimenticare fu la successiva sgridata colossale da parte del padre.
«Bene, perché ho qualcosa di ancora più folle e stupido da proporti» annunciò, tormentando con le dita della mano un piccolo rigonfiamento all’altezza della tasca dei pantaloni. Sembrava vagamente nervoso. Fece un respiro profondo e farfugliò: «Che ne dici di sposarmi?».
Le ci volle un attimo per realizzare ciò che avesse detto e, in un primo momento, pensò di essersi sbagliata, di aver sentito male; ma, quando si girò verso di lui per domandare spiegazioni, lo trovò inginocchiato ai suoi piedi che stringeva una scatoletta di velluto blu, con dentro uno splendido anello d’argento con un diamantino incastonato.
E allora capì che quello che aveva sentito non era frutto della sua immaginazione, che non era uno scherzo di pessimo gusto, che Duncan voleva sul serio passare tutta la sua vita con lei.
Si lasciò sfuggire un gridolino di gioia e si gettò contro di lui, con una forza tale da farlo cadere sull’erba. E, a giudicare da come lo stava baciando, anche lei voleva passare tutta la vita con lui.
Nei mesi successivi alla proposta, a Courtney parve di vivere dentro ad un bellissimo sogno e temeva che, da un momento all’altro, tutto potesse finire e che lei si sarebbe risvegliata nel suo letto. Ma non era così, era tutto reale e lei se ne rese conto solo il giorno del suo matrimonio, quando entrò in chiesa con il suo lungo abito bianco a braccetto con suo padre e tutti si girarono a guardarla con un’espressione radiosa in volto.
Tra alcune vecchie amiche del liceo, scorse anche il caschetto nero e il sorriso di Gwen, mano nella mano con il suo fidanzato storico Trent. Le sorrise di rimando. Negli anni, le due avevano imparato ad andare d’accordo e, sorprendentemente, erano diventate anche buone amiche.
In prima fila, le loro mamme piangevano di gioia e il signor Nelson, che ogni tanto accarezzava la spalla della moglie per confortarla, le strizzò l’occhio.
Suo padre le diede un bacio sulla fronte e, lasciando il suo braccio, si andò a sedere vicino a sua madre, passandole un braccio dietro la schiena.
Salendo sull’altare, intercettò Bridgette, la sua testimone, che la salutava con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia così bello che non poté non ricambiare.
E poi c’era lui, il suo sposo: la cresta verde era sparita sotto la tintura nera, ma i piercing, anche se ad occhio sembravano di meno, erano sempre lì. Aveva un’espressione inebetita e al contempo gioiosa. E doveva ammettere che in smoking era da mozzare il fiato.
Non appena lo raggiunse, gli rivolse un delizioso sorriso timido e gli afferrò la mano.
E nessuno sapeva che quel gesto voleva dire tanto. Sanciva la sua vittoria a quel gioco dell’acchiapparella che si protendeva insistentemente da quando erano bambini. Se l’era ripromesso, negl’anni: lo avrebbe preso, fosse stata anche l’ultima cosa che avrebbe fatto nella vita. E ora era certa di avercela fatta.
La cerimonia procedette velocemente e Courtney era talmente stordita dalla felicità che, quando riuscì a darsi un contegno, era già arrivato il momento tanto atteso.
«Vuoi tu, Duncan Nelson, prendere come sposa la qui presente Courtney Barlow?» chiese la voce leziosa del sacerdote.
«Dannazione, certo che lo voglio!» esclamò lui, riuscendo a strapparle una piccola risatina, che mascherò prontamente con un colpo di tosse.
«E vuoi tu,» continuò leggermente spazientito, alzando la voce, «Courtney Barlow, prendere come sposo il qui presente Duncan Nelson?».
Lei si voltò in sua direzione e incrociò il suo sguardo, quei meravigliosi occhi azzurri. Brillavano come le stelle che illuminavano la notte nel loro posto segreto.
E, senza che se ne rese conto, le sue labbra si incurvarono nell'ennesimo sorriso. Ora che l’aveva finalmente catturato, di certo non l’avrebbe lasciato andare così facilmente.
«Sì, lo voglio».

 
Take me back to the time when we walked down the aisle
Our whole town came and our mamas cried
You said «I do» and I did too

Taylor Swift, Mary’s Song (Oh My My My)

 

 

 

 

 

 

 
Angolo dell’autrice
Finalmente sono riuscita a pubblicare. Se non avessi avuto problemi di connessione, l’avrei fatto molto prima.
Ultimamente tutto ciò che pubblico o è una song-fic, o un vecchio ritrovamento di qualche anno fa. In questo caso, questa one shot è entrambe le cose.
L’ho iniziata ad aprile dello scorso anno, in un periodo in cui ero ossessionata dalla canzone a cui si ispira il racconto, con l’intenzione di scrivere qualcosa di romantico su questi due e l’ho conclusa adesso, perché mi dispiaceva lasciarla incompleta. E perché meditavo da tempo di scrivere una song-fic con una canzone di Taylor Swift.
All’inizio, avevo progettato di scrivere anche un’ultima parte, in cui erano dei vecchietti con prole e nipoti al seguito, riprendendo così l’ultima strofa del brano, ma alla fine ho lasciato perdere, c'entrando poco con l’argomento cardine della fan fiction.
A proposito, non chiedetemi il perché del gioco dell’acchiapparella, so solo che in quel periodo ero ossessionata da figure retoriche di ogni genere. Ho cercato di rendere il paragone il più sensato e meno fuori luogo possibile.
Oh, un piccolo aneddoto prima di chiudere: ho letto che il nome di questo gioco cambia di regione in regione; mi piacerebbe sapere come viene chiamato nella vostra zona - ad esempio, da noi è acchiapparello.
Spero vi piaccia e che vi faccia intenerire almeno un po’.
Vi mando un grosso abbraccio e ci vediamo presto.

Hayle xx

  
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