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Autore: Gwen Chan    22/07/2016    5 recensioni
Londra Vittoriana.
Rose e Céline avrebbero potuto incontrarsi in una sala da tè. O sul treno. O per strada. In mille posti diversi.
Invece ci sono solo il manicomio e i suoi orrori.
[Fem!Fruk]
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland, Nyotalia
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Ciò che l’occhio non vede
 
La pillola era bianca e liscia, appena più piccola di un confetto e in apparenza altrettanto innocente. Rose, però, aveva visto quali effetti poteva avere quella pastiglia che i dottori si preoccupavano di somministrare a tutte le pazienti, senza distinzione alcuna, ogni giorno mattino e sera.
Era stata quella piccola pillola a spingere Anya a soffocare Sofja con un cuscino e poi a fracassarsi il cranio contro il letto a furia di testate.
Rose ne era convinta. Anya poteva essere stata un poco strana, affetta da potenti quanto repentini sbalzi d'umore, ma non avrebbe mai ucciso nessuno. Lei si era risparmiata lo spettacolo, ma aveva sentito dire che la faccia della povera russa era diventata irriconoscibile.
Rose guardò ancora il dottore, desiderando di poterlo incenerire col solo sguardo, poi si costrinse a portare il pugno alla bocca e a lasciarvi scivolare la pillola all'interno. Svelta la incastrò tra denti e guancia, fingendo di deglutire. Non convinto il dottore le fece aprire la bocca, ma ormai Rose era abituata a una simile routine e aveva imparato molto bene a fingere.
 
Quando fu di nuovo sola, si affrettò a sputare la pillola nel palmo della mano e a nasconderla in un slabbratura nella fodera del materasso, almeno finché non fosse venuta Céline per buttarla via. Quindi Rose si raggomitolò nel letto, con le dita nelle orecchie per non udire il monologo ininterrotto della ragazza nel giaciglio a fianco o i singhiozzi a intermittenza di un'altra, che non poteva avere più di sedici anni.
La sera precedente Céline non era passata a trovarla, nemmeno quella prima o quella prima ancora; Rose cominciava a preoccuparsi.
Soprattutto non riusciva a togliersi dalla testa la mano cianotica della piccola Sofja che sporgeva dal telo bianco mentre la portavano via; Sofja che tremava sempre come una foglia, ma che aveva anche la lingua lunga.
Anya si era fracassata la testa contro al letto.
 
Rose non era pazza. Lo scrisse nell'aria. Lo scrisse con le dita sul muro. Lo disse alle altre pazienti, anche se le loro orecchie erano intasate di incubi.
Lo aveva detto a Sofja parlando piano perché la capisse prima che Anya le togliesse la vita.
Lo aveva detto anche ad Anya.
Lo aveva detto ai medici, ma loro non avevano voluto ascoltarla, più interessati a vederla come cavia per le loro elucubrazioni che non a trattarla come persona.
 
Le lenzuola nella stanza erano sporche, l'aria stantia. Rose pensò al giorno in cui sua madre si era risposata, con un sorriso tanto tirato che le aveva fatto male al cuore. Aveva guardato lei e le sue sorelle come se stesse supplicando loro di intervenire, di fermarla dal commettere una tale sciocchezza; ma né Rose né le sue sorelle avevano mosso un dito.
Se la mamma non avesse sposato quell'uomo, lei non sarebbe stata trascinata al manicomio. Suo padre, il suo vero padre, non lo avrebbe mai permesso. Suo padre era stato come lei, un uomo severo e gentile che faceva il droghiere e la domenica,  dopo messa, portava tutta la famiglia a passeggiare nel bosco.
Soprattutto anche lui poteva vedere le fate.
Suo padre non avrebbe mai permesso che due medici nerboruti la trascinassero via.
 
Rose aveva provato a dire ai medici che non era pazza,  che le fate esistevano davvero, che avrebbero potuto vederle anche loro se solo avessero voluto.
La passione che le aveva acceso gli occhi era stata scambiata per follia. Le avevano somministrato un sedativo e Rose si era svegliata in quella prigione.

Sofja era stata soffocata nel sonno.
Dietro al letto di Anya si vedeva ancora la macchia di sangue.
 
Rose non era pazza, ma se non fosse stato per Céline lo sarebbe diventata. Le fate si facevano vedere sempre più di rado, rapide e spaurite, come frammenti di un sogno. A volte si trovava a dubitare che fossero mai esistite e l’ipotesi che, forse, aveva ragione chi diceva che erano solo illusione, si scavava la strada nel cervello, come una talpa che crei nuove gallerie.
 
Céline era bella, spregiudicata e ribelle. Aveva già raggiunto e quasi sorpassato l'età in cui una ragazza doveva sposarsi se non voleva dare adito a malelingue, ma non se ne curava. Anzi, non nascondeva di avere più amanti occasionali o di darsi piacere lei stessa all'occorrenza. Ce n'era abbastanza da chiuderla in manicomio come paziente.
Eppure, a dispetto di una vita apparentemente sregolata,  Céline era sana come un pesce,  oltre a essere una valente infermiera.
"Perché sei venuta a Londra?" le aveva domandato una volta Rose, quando il loro rapporto cominciava la delicata traversata dalla semplice conoscenza al vero affetto.
"La guerra” le aveva risposto, raccontandole di come i suoi genitori avessero speso fino all’ultimo centesimo per pagarle un passaggio oltre la Manica, prima che l’esercito del Kaiser chiudesse Parigi in assedio e la Comune infiammasse gli animi.
 
Céline profumava di pulito. La divisa ben inamidata mal si adattava alle morbidezza del suo corpo. Rose si sedette sul letto.
Rose aveva i capelli più lunghi e più belli che Cèline avesse mai visto. Pettinarli era una gioia, nonché una fonte di sollievo per Rose, nonostante fingesse una freddezza che andava sfumando di giorno in giorno.
“Mi piace stare con te” era la frase che sempre più spesso interrompeva il loro altrimenti completo silenzio – per quanto si potesse chiamare tale un vuoto continuamente sporcato dai rumori di sottofondo delle altre degenti.
La ragazza era stata internata circa tre anni prima, più o meno nel medesimo periodo in cui Cèline iniziava il proprio tirocinio. All’epoca si era chiesta chi mai – e perché – avesse voluto rinchiudere una giovane tanto calma e posata. Poi aveva letto sulla sua cartella clinica che era spesso vittima di allucinazioni, ma quelle frasi in bella scrittura non l’avevano affatto convinta.
“Non sono pazza” borbottò Rose, interrompendo i suoi pensieri. Cèline posò il pettine sul materasso e le accarezzò la guancia.
“No, non lo sei. Sei la ragazza più lucida e tranquilla che conosca. Hai una lingua troppo tagliente per essere pazza” cercò di rassicurarla, la voce sporcata da un po’ di goffaggine. Rose non era una persona con cui potesse usare qualche moina e qualche frase dolce per farla cadere ai suoi piedi.
E non lo desiderava nemmeno.
Rose tirò su col naso un paio di volte, asciugando con la manica le due lacrime che avevano fatto capolino agli angoli degli occhi. Nel vederla sul piangere, il cuore di Cèline si strinse di rabbia, quindi si aprì per un sentimento gentile che non provava da tanto tempo. Doveva essere cresciuto senza che se ne rendesse conto, proprio come era cresciuto il suo rapporto con Rose.
Amore.
C’era stato un tempo in cui l’aveva considerata solo una ragazza rigida e viziata, noiosa col suo guardare chiunque dall’alto dei suoi occhiali. Un tempo in cui Rose l’aveva evitata.
C’era stato un tempo in cui le uniche parole che si erano scambiate erano stati sottili insulti al vetriolo. Poi il muro difensivo di Rose aveva cominciato a crollare, permettendo a Céline di infilarci la testa, solo per sbirciare la vera natura dell’Inglesina e scoprire che c’era un fuoco ribelle che covava sotto le ceneri.
Amava Rose, dal suo essere snob alla sua infinita cultura. 
“C’è una fata sulla tua spalla” la informò  Rose. Céline, trovandosi quasi sul punto di baciarla, si tirò indietro e si voltò. La sua spalla era vuota.
“Non c’è n-“ fu sul punto di dire, ma poi si ricordò di quanto distrutta fosse sembrata Rose poco prima, quanto poco importasse che vedesse il mondo diversamente dagli altri, fosse esso realtà o fantasia. Importava la luce che brillava nei suoi occhi verdi quando affermava di aver visto una fata, sollevando il dito a indicare il punto in questione.
“Hai ragione, è una fata stupenda. Ma non quanto quella che ho davanti agli occhi.”
 
Rose distolse lo sguardo e non rispose. Conosceva la passione che Céline aveva per i giochi di seduzione, il trasformismo che adorava per piacere alla controparte - l'aveva vista sfruttarlo sia con i dottori sia con qualche infermiera.
Il punto era che in quel momento non stava flirtando.
Céline rideva quando puntava qualcuno.
Ora era seria.
"Non devi tornare al lavoro?"
"Sì, giusto."
Céline le passò di nascosto un libriccino perché non si annoiasse e la salutò con un bacio sulla fronte.
Rose riuscì a leggere fino a pagina venti prima che la sua mente tornasse a vagare.
 
Sofja era stata una delle tante vittime di quella prigione.
Anya aveva sbattuto la testa trentasette volte. Margot, la ragazza che dormiva vicino a lei aveva finito con l'impazzire sul serio. Una scossa elettrica e si era buttata giù dalle scale - solo perché c'erano le sbarre alle finestre.
Anya non sarebbe mai più tornata nella sua Russia.
 
"I dottori stanno parlando di una nuova terapia e desiderano testarla sui pazienti recidivi" comunico Céline pochi giorni dopo mentre la pettinava. Rose le sedeva quasi in grembo, percorsa dal genere di fremiti che non si addice a una ragazza di buoni costumi,  se il seno della donna premeva appena contro la sua schiena o se le sue mani finivano sulle sue cosce, sebbene per caso e non per volontà.
“Di cosa si tratta?”
“Qualcosa con l’elettricità.”
 
Rose e Céline avrebbero potuto incontrarsi in una sala da tè. O in chiesa. O per strada. O durante una manifestazione di suffragette. Avrebbero potuto incontrarsi in qualsiasi altro posto, ma invece c'era il manicomio da cui Rose non sarebbe mai uscita finché il suo patrigno fosse rimasto in vita. Avrebbero potuto incontrarsi sul treno. O a cavallo. O girando sul metro.
Invece c'era solo il manicomio dove Anya aveva soffocato Sofja nel sonno e poi aveva dato trentasette testate al letto.
Rose non vedeva più le fate ma c'erano i fantasmi.
 
I dottori dissero sorridendo che non avrebbe sentito dolore. Mentivano. Le misero due elettrodi sulle tempie e giocarono a fare gli dei.
Rose urlò come una banshee e loro aumentarono il voltaggio.
 
"Sono dei barbari!"
Céline scosse la testa come se non credesse alla stupidità umana mentre applicava un poco di pomata sulle bruciature. Era diventata infermiera perché credeva davvero di poter aiutare la gente, ma il sogno si era infranto quando si era ritrovata a cambiare padelle, somministrare pillole a pazienti che chiaramente non ne aveva bisogno e guardare i medici legarne altre quando l’unica cosa intelligente da fare sarebbe stato ascoltare.
Rose né si mosse né rispose per tutto il tempo; fu solo quando Céline le sfiorò piano i capelli che Rose uscì dalla propria trance. Sbatté le palpebre sugli occhi secchi, mise a fuoco la donna e scoppiò a piangere.
Céline aveva un buon profumo di gelsomino quando la strinse a sé borbottando maledizioni tra i denti. Le baciò le tempie, cullandola fino a farla addormentare.
Rose non era pazza, ma lo stava diventando.
 
Nemmeno Anya era stata pazza. Non lo era stata finché le pillole non l'avevano spinta ad alzarsi di notte come una sonnambula – e così ignorata – e a premere un cuscino sulla faccia di Sofja, finché non aveva smesso di agitarsi. I medici l'avevano trovata che ninnava il corpo, con l'indice in verticale sulle labbra a chiedere il silenzio. .
"Altrimenti se ne sarebbe andata" era stata l'unica spiegazione che erano riusciti a cavarle di bocca.  Delle persone di buon senso l'avrebbero isolata perché non fosse un pericolo per gli altri e controllata perché non lo fosse per se stessa; chi gestiva il manicomio però era troppo impegnato a farsi bello agli occhi della gente per curarsi delle pazienti. Avevano messo ad Anya una camicia di forza - per sicurezza - e via di nuovo in un dormitorio di trenta ragazze che puzzava di muffa e di scarti corporei. 
Per qualche giorno la ragazza era rimasta tranquilla, poi, senza alcun preavviso, aveva iniziato a picchiare la testa contro il letto. I deboli tentativi di fermarla delle altre internate erano serviti a poco. Quando gli infermieri nerboruti erano arrivati la faccia di Anya era ormai ridotta a una poltiglia. Trentasette testate per morire. Rose l'aveva vista. Era da allora che le fate avevano cessato di visitarla. 
Rose non era matta. Se lo era ripetuto all'infinito per sopravvivere in un ambiente in grado di mandare fuori di testa anche la persona più razionale, ma ora i primi dubbi rodevano tale convinzione. 
 
Fortuna che quando stava con Céline Rose tornava a vedere le fate. Letteralmente. Ridevano come lucciole sul davanzale della finestra, comodamente sedute sulla crocchia dell'infermiera o aggrappata alle pieghe dei suoi vestiti. La salutavano agitando le gambette, succhiando una goccia di pioggia come una granita e Rose si diceva che, forse, non era pazza.
Forse sarebbe riuscita a farlo capire. Con sua stessa sorpresa strinse le mani di Céline, desiderando che potesse vedere con i suoi occhi. Poi si ricordò della pessima prima impressione che le aveva fatto e quasi le venne da ridere-
Anche se Margot era rotolata giù dalle scale dopo aver visto quanto restava di Anya. Aveva lasciato scritto di sentirsi in colpa per non essere riuscita a fermarla.
L'avevano portata via con la stessa cura che si usava per il sacco della biancheria sporca.
E le fate scomparivano di nuovo.
 
Rose non era pazza ma la pressione dell'ambiente, non trovando sfogo, mise i primi semi della nevrosi che, trovando terreno fertile, crebbero in fretta. Cominciò a dimenticarsi di non prendere le pillole.
Rose e Céline avrebbero potuto incontrarsi in un sala da tè e diventare due spregiudicate icone del femminismo, celebrando l'amore in barba alla società.
Invece la ragazza pacata, studiosa, dalla lingua tagliente che era stata Rose stava lasciando il posto a un fantoccio che Céline temeva di rompere se solo l'avesse stretta troppo forte.
L'impossibilità di essere sole riduceva l'amore a uno sfiorarsi di dita e di baci rapidi, sufficienti per svegliare in Rose sensazioni che non aveva mai provato col corteggiamento di nessun giovanotto.
 
Poi, una notte, Céline camminò fino al letto di Rose tenendo la lampada ad olio in modo da non svegliare le altre pazienti perse nel loro mondo onirico e mentale. Si sedette sul bordo del letto, inizialmente non intenzionata a svegliare l'altra; Rose però aprì lo stesso gli occhi, formulando la domanda col viso ancora prima che con la bocca.
"Cosa c'è?"
"Ti ho sentita parlare nel sonno" rispose Céline. La voce uscì a fatica.
Aveva sentito ancora i dottori discutere a proposito di Rose, declamando entusiasti una nuova terapia che la faceva vomitare solo a pensarci. Credere che l’utero di una donna avesse qualcosa a che fare con la sua testa, che assurdità!
L'avrebbero distrutta. L'avrebbero usata come una delle tante cavie su cui sperimentare cure inutili perché nate da ipotesi senza fondamento.
Le avrebbero fritto il cervello a furia di scosse elettriche, di iniezioni, di pillole.
Céline non poteva far fuggire Rose, ma poteva avvisarla. Non le consigliò di fingere il comportamento che essi desideravano perché allora sarebbe stato come ammettere davvero la sconfitta. Negli anni a venire se ne sarebbe sempre pentita.
"Mi dispiace. Vorrei poter fare qualcosa."
 
A sorpresa Rose intrecciò le dita dietro la nuca di Céline e avvicinò il suo viso al suo. Goffamente cercò di mettersi a cavalcioni sul bacino della donna.
"Allora fai l'amore di cui tanto parli con me" la invitò prima di lasciarsi guidare di nuovo giù con la schiena contro al materasso.
Céline era un'amante premurosa ed esperta.
Per un momento Rose riuscì a dimenticare che un infermiere alticcio aveva sbagliato le dosi di Anya e che lei si era suicidata sbattendo trentasette volte la testa contro il pomello del letto, dopo aver soffocato Sofja.
 

Rose non era né pazza né isterica, ma in manicomio lo divenne, a poco a poco, mutilata nel corpo e nello spirito, imbottita di pillole fino a perdere la facoltà di riconoscere la realtà.
"La ragazza che amo mi ha tradito. Non viene più da me, ma tu non dirlo in giro" disse abbracciando il cuscino a una Céline inorridita. Quando provò a carezzarle la testa, Rose sibilò e si divincolò.
“Rose, Rose, per favore, per favore. Calmati. Sono io” sussurrò, cercando di stringerle le mani e di abbracciarla.
Rose urlò ancora più forte.
“Va bene. Va bene, lo capisco. Dopotutto l’amore non è qualcosa che puoi forzare sugli altri.”
 
Qualche giorno dopo una paziente, forse sperando in un trattamento più umano, disse e giurò di aver visto Céline e Rose nude, strette l’una all’altra.
Céline fu licenziata, ricattata. Provò a visitare Rose, spingendo via chi cercava di sbarrarle la strada, ma fu riacciuffata da due agenti e gettata in cella per disturbo della quiete pubblica. Uscì. Riprovò a visitare Rose e di nuovo sperimentò il carcere.
E di nuovo.
E di nuovo.
Finché non fu invitata gentilmente ad espatriare se non desiderava finire anche lei i suoi giorni in un manicomio, dove davvero non avrebbe mai più potuto vedere Rose.
Non la vide più comunque.
 
Rose ricevette altri farmaci, divenne sempre più aggressiva e fu messa in isolamento, dove si ridusse a fissare il soffitto.
Céline se ne era andata.
Le fate erano scomparse.
Le banshee urlavano in giardino.
Anya aveva soffocato Sofja e si era uccisa quando si era accorta di essere sola.
Margot si era gettata giù dalle scale.
 
A Rose la conclusione parve ovvia. Si impiccò pochi giorni dopo, pensando a suo padre quando portava lei e le sue sorelle nel bosco la domenica dopo la messa, quando erano bambine, tutte in fila come tanti piccoli anatroccoli.
 
Note
Vorrei poter dire qualcosa a mia discolpa, ma la realtà è che mi trovo bene a scrivere angst (soprattutto quando ho l’ispirazione di notte e devo costringermi a spegnere il pc perché “Guendalina, domani devi andare a lavorare!”). L’idea è partita da una drabble scritta per la frukweek su tumblr e si è evoluta più in fretta di quanto pensassi. Lo so, puzza di OOC lontano un miglio. Di fatto il punto di vista è esterno. Anya è Fem!Russia, Sofja Fem!Lettonia. Le eventuali contraddizioni nel testo sono volute.
Detto questo, enjoy.
* Passa fazzoletti *
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
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