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Autore: FRAMAR    23/07/2016    25 recensioni
Certo, caro, tu hai bisogno di tua madre e di tuo padre anche se questi, da tempo non possono più vivere insieme.
Saprò trovare le parole adatte? Saprò mantenermi sereno, saprò essere giusto?
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Vincitore premio "Io e mio figlio"
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Un padre




 
Da qualche mese, specialmente da quando siamo tornati dal mare, Jonathan sembra essere diventato tutto gambe e braccia, e dai suoi atteggiamenti si ha anche l’impressione che braccia e gambe gli siano spesso di impaccio, come questa sera, per esempio, mentre gironzola nel piccolo soggiorno stirando e buttando avanti o indietro, contemporaneamente,  entrambe le braccia. L’irrequieta passeggiata  finisce su di una vecchia poltrona, ma grande e comoda, dove può affondarsi e poi facilmente appollaiare ciascuna gamba su ognuno dei due ampi braccioli.

La stanza è quasi al buio perché vi arriva soltanto un riflesso luminoso dalla strada, passando attraverso i vetri della finestra che ha ancora la tapparella alzata.

Jonathan ha quattordici anni e in questo momento è profondamente annoiato, triste. E questo gli capita ogni tanto, forse da quando il suo corpo è cominciato ad allungarsi così. Sposta le gambe strette ne jeans sformati e si rannicchia chiudendo gli occhi. Ma è soltanto per poco perché, improvvisamente, ha sentito girare la chiave della porta di casa e di colpo accende il lume vicino alla poltrona, quindi afferra un libro e si mette a leggere.

Gli giungono i rumori miei abituali quando rientro, lo scatto leggero della porta  che si richiude, il fruscio dei sacchetti del supermercato posati sulla panchetta dell’anticamera e subito il mio dolce richiamo: “Jo!”.

Ma questa sera lui non si alza per venire incontro a me, anzi non risponde neppure. Con pochi passi sono sulla soglia del soggiorno: “Jo?”, ripeto quasi interrogando perché sono stupito del comportamento di mio figlio. Jò risponde appena con un “Uh, uh” che non si capisce bene se sia un saluto o uno sbuffo di noia. Vorrei dargli il solito bacio, però qualcosa nel suo aspetto mi trattiene.

“Sei pallido”, mi limito a dire, “scommetto che non hai fatto merenda”. Questa volta Jò risponde con un “Ufaaa!” dichiarato. La mia espressione diventa apprensiva, tuttavia dico soltanto, avviandomi verso la cucina, “Ti preparo la cena”.

Quando la cena è pronta, devo chiamarlo due volte per farlo venire a tavola. Jonathan  si è portato dietro il libro.

“Che cosa leggi?”, chiedo.

“Un giallo”.

“Dei ragazzi?”.

“Proprio!” fa con disprezzo Jò e aggiunge : “Sai bene che quelli non mi piacciono più”.

“Davvero? Ed è interessante questo?”.

“Sarebbe più interessante se tu smettessi di interrompermi”, mi risponde con un tono pungente che io finora non gli ho mai conosciuto.
Mi sento offeso, ma rifletto che non è il caso di discutere e tanto meno di rimproverare Jò che è evidentemente turbato. E decido: “Ora gli lascio finire la minestra e poi gli dico dell’impegno di stasera”.

Mio figlio mangia svogliatamente e seguita a leggere il libro che ha aperto sulla tovaglia.

“Su, che ti si raffredda la minestra”.

“Non mi va”, dice Jò scostando la scodella.

“Allora mangia il prosciutto”.

“E’ cotto?”, chiede con diffidenza senza distogliere gli occhi dalla pagina.

“Ma no è crudo!”, esclamo finalmente spazientito. “e ci sono anche le olive e i carciofini sott’olio”.

L’attenzione di Jonathan, pare essersi risvegliata e questo mi strappa un sorriso: “Forse non c’è nessun ragazzo che sappia restare indifferente davanti a un panino ben imbottito di prosciutto”, pensai.

Quando mio figlio attacca il secondo panino, incoraggiato dico:

“Mi dispiace Jò, ma anche questa sera ho un impegno di lavoro perciò dovrai startene solo per l’ultimo dell’anno. Ma domani…”.
“Lo sapevo già”, interruppe Jò.

“Come? Se l’agenzia mi ha telefonato in ufficio poco prima delle sei?”.

“Si, ma ha telefonato qui anche la signora dove devi andare”.

“Quando? Che voleva? E me lo dici ora?”.

“Me n’ero dimenticato”.

“Mente”, pensai di nuovo irritato. “E’ inutile, non riesce ad accettare il fatto che io, oltre l’orario di ufficio, lo lasci per qualche serata durante la settimana. Certo, oggi non ha tutti torti e del resto  non fa piacere neppure a me passare da solo una sera come questa”. 

Cercando di mantenermi calmo domandai:


“Che cosa voleva la signora?”.

“Che tu andassi alle nove e mezzo invece che le dieci”.

Guardai l’orologio, c’è appena il tempo per finire di cenare  e per fare la strada. Do un lungo respiro come per immagazzinare un’altra dose di calma, quindi comincio, persuasivo:

“Senti Jò, questa notte ho un impegno lungo, di cinque ore, il che vuol dire che guadagnerò di più, cioè quasi un altro giorno di pensione per tutti e due a Villetta Barrea. Non pensi che valga la pena di stare separati l’ultimo dell’anno, ma avere poi un altro giorno di vacanza tutto per noi?”.

Nessuna risposta. Jò si alza e va a mangiare la banana in poltrona.

“Aspetta c’è il dolce”.

Silenzio.

Sparecchio radunando le stoviglie nell’acquaio. Laverò i piatti quando sarò tornato dal servizio di baby-sitter, e si per tirare avanti faccio anche quello, giacchè desidero partire presto, al mattino, in modo che fin da domani Jò possa godere di un’intera giornata sulla neve. Non mi sfiora nemmeno il pensiero che potrei così dormire poche ore. L’importante è che Jò si rassereni. I giorni di festa sono sempre i più tristi da passare per lui, da quando Federica ed io ci siamo separati. E se io mi ero cercato un’altra attività fuori delle ore di ufficio, è stato unicamente per offrire a Jò qualche divertimento e qualche vacanza in più, e anche per fargli sentire meno l’assenza della madre.
Adesso vorrei andare a raggiungerlo nel soggiorno e tentare di farlo parlare, cercare di ristabilire l’armonia e la confidenza che c’erano un tempo fra noi e che da qualche mese sembrano  essere diminuite. Ma io non ho tempo. Prendo dal frigorifero uno spicchio di torta di mele, lo metto su un piatto con accanto il cucchiaino d’argento che porta scritto  ‘Jonathan’ e che è un regalo di battesimo. “Dio, quanti anni sono passati da quel giorno e soprattutto, quanto li sento lontani e me lo sono cresciuto da solo”, penso. “ E Federica com’era fiera del suo bambino”.

Poso il piattino con il dolce vicino a Jò. Mi sono infilato il giubbotto e mi avvicino deciso, questa volta, a dargli un bacio.  Mi accorgo allora che lui sta ‘leggendo’ il giallo tenendolo alla rovescia. Fingo di non averlo notato e dico:

“Ciao, Jò, a mezzanotte ti telefonerò per farti  gli auguri. Sai che anch’io, lontano da te, non sono contento, ma da domani, domani…”.
“Va bene papy”, dice Jonathan senza ricambiare il bacio. Poi aggiunge fra è: “Anche mamma sarà sola”.

Ecco il momento di parlare, di aprire i nostri cuori, ma mancano pochi minuti alle nove e io devo uscire. Sento che Jonathan soffre e questo aumenta la mia pena, quel dolore penetrante e insistente che, da quando Federica ci ha abbandonati, non mi dà tregua e diventa insopportabile quando si carica della sofferenza innocente di mio figlio.

E’ tardi, posso dire soltanto: “Ricorda, Jò, domani tutto il tempo sarà nostro, potremo parlare, se vuoi, di tante cose”.
Jonathan non risponde.

“C’è ancora del dolce nel frigo”, cerco di dire con naturalezza.

“Bene papy”’ nient’altro.

Mentre fino alla guida della mia macchina sono preso da un turbine di ricordi e di pensieri. O primi mesi felici di matrimonio, la nascita di Jò, ancora qualche anno sereno, le prime infedeltà di Federica, la sua vita intensa e disordinata di artista che la allontanava sempre di più dalla famiglia. Le riconciliazioni, i buoni propositi, altri cedimenti, poi la rottura. Jonathan viene affidato a me.

“Forse ho sbagliato a non fargli vedere la madre”,  penso, “forse ho sbagliato a non spiegargli subito come sono andati i fatti. Ora Jò, si sente privato ingiustamente della madre, forse me ne fa una colpa. Ma come spiegare a un ragazzo di quattordici anni il comportamento di Federica? Questa del resto, si ricorda molto raramente del figlio: qualche cartolina durante i suoi viaggi, una sommetta per il compleanno  di Jò, un paio di telefonate alla fine della scuola e a Natale. Ma Jonathan sta crescendo e più cresce più sente la mancanza della madre. Non vede tutto quello che faccio per lui?  Io ormai non vivo che per lui, eppure adesso non so neanche se mio figlio mi vuole bene. Domani parleremo di tante cose, gli ho detto, ma come potrò farlo? Saprò trovare le parole adatte, saprò mantenermi sereno, saprò essere comprensivo, giusto?”.

Con sollievo, perché così sono costretto a distogliermi dai miei pensieri,  mi accorgo di essere arrivato.

Il bambino che due giovani genitori mi affidano per questa notte è un batuffolo rosa e biondo, di due anni, che naturalmente è già nel mondo dei sogni. Come è mia abitudine mi faccio lasciare il numero del cellulare dove poter rintracciare, in caso di necessità, i genitori. La signora mi segna sul taccuino anche il numero di telefono del Grand Hotel di Cesenatico, dove lei e suo marito daranno il benvenuto al nuovo anno con amici e si tratterranno oltre la mezzanotte”.

“Sono sicuro che non occorrerà nulla””, dico sorridendo.

“Certamente”, interviene il marito e aggiunge: “Questa è la prima festa alla quale possiamo partecipare dopo la nascita del nostro ‘coniglietto’, e desidero che mia moglie possa finalmente distendersi e divertirsi”.

“In genere il ‘coniglietto’ fa tutto un sonno fino alle sei del mattino, perciò mi auguro che non le dia da fare”, mi informa la mamma. “In ogni modo c’è pronto un biberon di latte”.

Rimasto solo, tiro fuori dalla busta, la maglia che ho comprato per Jò. Così Jonathan domani avrà il dono di un maglione nuovo da indossare in montagna. Spero che gli piaccia.

La stanza è calda e accogliente, e ancora un po’ spoglia, come molte case di sposi giovani, ma i quadri e i pochi soprammobili sono di buon gusto, inoltre c’è una grande libreria. Mi siedo sul divano e comincio a leggere.

Alle undici passate vado ad affacciarmi nella camera del bambino che dorme tranquillo, tuttavia con un respiro pesante e la boccuccia aperta. Lievemente, per non svegliarlo, gli tocco la fronte che sento calda. Può darsi che il piccolo abbia un po’ di febbre. Accendo una lampada che è sullo scaffale del corridoio e mi metto a leggere lì, tenendo la porta della camera socchiusa.

Mancano pochi minuti alla mezzanotte quando vado di nuovo a vedere il bambino e questa volta, non posso fare a meno di preoccuparmi. Il bambino si agita, è sveglio e pare che abbia difficoltà a respirare. Ora non è caldo, ma coperto di sudore freddo e ha perso il suo colorito roseo. L’avvolgo in una coperta e la prendo in braccio: mi accorgo che il piccolo non ce la fa a respirare normalmente.

Spaventato, non perdo però il mio sangue freddo: porto il bambino in salotto e lo metto quasi seduto su di una poltrona, poi mi dirigo al telefono.


In quel momento la mezzanotte dell’ultimo dell’anno esplode fragorosamente. Senza perdere di vista il piccolo, provo e riprovo febbrilmente a fare il numero sia del loro cellulare che del Grand Hotel, ma le linee sono sovraccariche e non riesco a mettermi in comunicazione. Dopo qualche minuto, vedendo che il bambino è diventato di un pallore impressionante faccio risolutamente il 118 e chiedo un’autoambulanza con un medico. Prego anche la polizia di avvertire i genitori. Poi riprendo in braccio il ‘coniglietto’ e comincia l’attesa angosciosa che, fortunatamente, non è lunga.

Un medico di mezza età esamina attentamente il bambino.

“Difterite?”, sussurro ansiosamente.

“No, laringite, ma una laringite sotto-glottica”.

“E’ grave?”.

“Ancora non si può dire, ora gli faccio un’iniezione”.

Dopo l’iniezione il piccolo si rianima, ma il medico rimane ancora. Più tardi dice:

“Non ci sarà bisogno di ricoverarlo, è fuori pericolo”. E aggiunge:  “Lei è il padre?”.

“No sono il baby-sitter. I genitori ora saranno avvertiti e dovrebbero arrivare da un momento all’altro”.

Il medico ha un viso  placido, molti capelli, molta barba castano chiara tagliata in tondo. C’è qualcosa di familiare a cui però non so dare un nome.

“Ma a chi assomiglia?”, sto ancora chiedendomi quando la porta di casa si apre bruscamente e i genitori trepidanti irrompono nella stanza del loro bambino.

Il medico si allontana dal lettino. Entro con il caffè per tutti. Il pupo ha quasi ripreso il suo colore rosa. Papà e mamma gli sono accanto tenendolo ognuno per una manina e interrogando con lo sguardo il dottore e me.

“Come va dottore? Che è stato?”, chiede infine il padre con voce spezzata.

“Non si preoccupi, va tutto bene adesso, ma per sicurezza mi tratterrò ancora. Per quanto”, aggiunge bonario, “un bambino con papà e mamma vicini non ha bisogno di altro”.

Con discrezione mi allontano e torno in salotto. Mi ricordo che non ho telefonato a Jò per fargli gli auguri. Adesso non oso. Forse lui dorme e poi non mi sembra opportuno mettersi a fare telefonate in casa di gente che conosco appena e dopo momenti di tanta ansia. “Però Jò sarà rimasto deluso”, penso. “Si sarà sentito ancora più solo”.

La frase che il medico ha pronunciato poco fa: “Un bambino con papà e mamma vicini non ha bisogno di altro”, mi risuona all’orecchio e nello stesso tempo mi penetra dentro come una lama. Un papà, una mamma, un bambino. Io, Federica e Jò.

Più tardi, mentre la notte si sbianca e le stelle si spengono,  ritorno a casa. E’ stata la signora a trattenermi, a pregarmi di restare ancora dopo che il medico è andato via.

Jonatham non è andato a letto, dorme sulla sua poltrona, vicino al cellulare. L’inutile libro giallo è scivolato sul tappeto. Nel sonno appare indifeso e tenero quasi come il ‘coniglietto’. Lo scuoto dolcemente.

“Papy…”.

“Perché non sei andato a letto?”.

“Aspettavo che mi chiamassi o che mi telefonasse la mamma, poi mi sono addormentato”.

“Non mi è stato possibile, adesso ti racconto ma intanto: buon anno, Jò”.

“Buon anno papy”.
Mentre Jò si spoglia, gli racconto l’episodio della notte.

“E’ un bel bambino, papy?”.

“Si caro. Molto bello”.

“Un bambino con mamma e papà?”, sospira Jò che sta riaddormentandosi.

“Oh non dormire, Jò, ti devo parlare”

“Si papy…”. Solleva le palpebre con sforzo: Benchè velati dal sonno. Vedo che gli occhi di Jò sono ancora tristi. “Papà, anche io devo parlarti: ha telefonato mamma”.

“Che cosa voleva?”.

“Dice che se tu mi mandi da lei posso raggiungerla domani”.

“E tu che le hai detto?”.

“Che non potevo perché dovevo venire in montagna con te”.

“Ma tu ci vuoi andare?”.

“Si papy. Con te ci sto sempre, ma lei non la vedo mai”.

Rimasi silenzioso per un attimo.

“Ebbene, Jò, vai pure da mamma. Io sono contento”.

“Sicuro, papy?”.

E’ tornato il Jonathan di prima, affettuoso.

“Certo, e potrai andarci tutte le volte che vorrai. E se mamma vorrà venirti a trovare, sarò contento. Adesso dormi. Vedrò nell’orario ferroviario se c’è un treno che possa  farti arrivare per l’ora di pranzo”.

“Papy, posso dirti un’altra cosa?”.

“Certo, dimmi tesoro”.

“Ma… non so da dove cominciare… mi vergogno”.

“Fidati tesoro, ti ho sempre voluto bene, no?”.

“Mi prometti che non ti arrabbi?”.

“Promesso…”.

“Sai papy,  penso… si, penso… penso… di essere gay”.

Abbassa gli occhi, diventa rosso, gli scende una lacrima: “Scusa papà”.

“Di cosa ti devi scusare tesoro, non è mica una malattia, vieni che ti abbraccio, sappi che io ti sosterrò. Ma ne sei sicuro?”.
“Aiutami a capire”.

“Senti quando ti masturbi a chi pensi a una bella morettina o un ragazzo, magari un compagno di classe”.

“Ma papy…”.

“Non ti vergognare”.

“Papà sei fantastico,  si penso ad Andrea, mio compagno di classe e miglior amico. Sai ieri mi ha detto che gli piaccio. Posso farlo venire in casa?”.

“Va bene, fallo pure”.

“Non ti arrabbi?”.

“E perché mi devo arrabbiare, sei mio figlio, ed io non desidero altro che il tuo bene e la tua felicità, anche a costo della mia vita”.
“Papy, sei grande, sei il miglior papà del mondo. Ti voglio bene”.

Mi abbraccia, mi bacia e scoppia a piangere.

“Mi sveglierai tu?”.

“Si sta tranquillo”.

“Grazie papà sia per la mamma che per Andrea”.
“Ora vai a letto”.

Consulto l’orario, disfo in parte la valigia  già pronta e vi metto indumenti meno pesanti.

Finalmente posso andare a letto, mi sento placato ma non riesco a prendere sonno. “In fondo non è stato necessario fare tanti discorsi con Jò”, dico fra me. “Voglio lasciargli la possibilità di ritrovare sua madre, di volerle bene e di vivere la sua vita nel modo che lui desidera. E’ un ragazzo intelligente. Comprenderà da sé, ma non voglio che scelga tra Federica e me. Continuerà a volerci bene a entrambi come ha fatto finora. Un figlio ha bisogno di un padre  e di una madre anche se questi non possono più vivere insieme. E se  nel suo cuore entrasse anche Andrea? Gli darò il benvenuto”.

Dalla mensola vicina prendo un mazzo di carte che, a volte mi aiutano a passare le ore di qualche notte insonne. Preparo un solitario sul letto. “Toh guarda a chi somiglia quel medico: al faccione del cinque di denari! Che cosa buffa! Domani voglio dirlo a Jò”, mi rendo conto di stare ridendo mentre le lacrime mi scendono giù lungo le guance.






 
 
 
 
Grazie di essere arrivati fin qui.
Questo racconto mi sta particolarmente a cuore, non perchè ho vinto un premio, ma perché  è dedicata a mio padre, il padre che non ho mai avuto, se ne andato via troppo presto, e ancora oggi che sono adulto sento ancora la sua mancanza.
 

   
 
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