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Autore: alwaysursluke    25/07/2016    0 recensioni
“Oh, andiamo, hai l’occasione di ricominciare e lasciarti tutto alle spalle. Sai quante persone lo vorrebbero?”
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ashton Irwin, Calum Hood, Luke Hemmings, Michael Clifford
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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V.
La settimana successiva, Heather dovette tornare a scuola.
In realtà, non aveva dovuto, lo aveva scelto lei. Infatti, quando i genitori aveva tirato fuori l’argomento, era stata lei ad anticiparli e a comunicargli che voleva tornare a scuola.
Non ce la faceva più a stare chiusa in casa. A rileggere sempre gli stessi titoli e le stesse trame dei libri che aveva in camera, sperando di sentire anche un minimo dejavù. A lanciare ripetute occhiate alle foto che aveva trovato in una scatola nell’armadio. Ritraevano lei e quelli che presumeva fossero i suoi amici più stretti con dei gran sorrisi sulle labbra, mentre si abbracciavano, o  mentre si trovavano al mare, in montagna, e altre occasioni. Una in particolare l’aveva colpita. Era una fotografia incorniciata che ritraeva lei e altri tre ragazzi mentre sembravano essere stati colti tutti e tre in un attacco di risa inaspettato. Lo sfondo era composto da centinaia di grattacieli in piena notte che si stagliavano come spuntoni di roccia alle loro spalle. Si tenevano tutti stretti, le braccia sulle spalle dell’altro, mentre sembravano aver appena scalato una montagna.
Si era chiesta così tante volte quale di quelli potesse essere il suo ragazzo, dal momento che non aveva trovato neppure una foto di loro due che si baciavano o che si tenevano per mano. Che stessero insieme da poco? Infine, c’erano anche alcune foto di lei e i suoi genitori, simili o che differivano da quelle sparse per la casa. Ma perché mai i suoi genitori le avrebbero nascoste?
Aveva chiuso lo scatolone con sguardo atono e si era rimproverata. Allora aveva cominciato a pensare a ciò che aveva prima sperando di scaturire in lei della tristezza, della rabbia, della delusione, qualcosa, e quando queste erano arrivate, una dopo l’altra, si era rimproverata ancora.
Dopodiché, aveva deciso di eliminare il primo account di Facebook, quello della sua vita precedente — perché ormai avrebbe dovuto chiamarla così —, quello di Twitter e di Tumblr, senza neppure dare loro un’occhiata. E se ne avesse trovati altri, aveva deciso di fare lo stesso. Infondo, che senso ha tenere la prova di qualcosa che non avrai mai più e che è come se non avessi mai avuto?
In quel momento, si era sentita, forse per la prima volta, sollevata.
Aveva continuato a scriversi con Luke tramite Facebook. Lui era l’unico che, seppure non la capisse, sembrava così. Ettie ogni tanto cominciava a pensare che avesse passato qualcosa di simile, ma poi scuoteva la testa e ammetteva: “Alle persone normali queste cose non succedono”. Lei era quell’una su un milione.
Non parlavano mai di quest’argomento, comunque. Parlavano delle più frivolezze che passavano loro per la mente, e il discorso non era mai uscito.
Fino ad ora, Ettie aveva imparato tre cose di Luke: odiava il caffè, amava i pinguini e andavano a scuola insieme. Erano particolari usciti fuori dai loro discorsi per caso, ma che Heather aveva inconsciamente trattenuto nella sua testa.
Era contenta andassero a scuola insieme. Anzi, se doveva essere sincera, prima di quella notizia non avrebbe mai osato essere lei a chiedere ai suoi genitori di tornarci. Era stato solo grazie a lui.
Sapeva di star correndo troppo, e sapeva anche che era dovuto al fatto di sentirsi sola, che lui era la sua unica costante, ma non si sarebbe spinta troppo in là.
Mancavano ormai poche ore al suo ritorno a scuola, e non ricordava neppure quante ore si facessero di lezione. Quali fossero quelle che lei seguisse, poi, neppure a parlarne. E non osava pensare agli sguardi che avrebbe ricevuto se la voce fosse girata, e se non fosse stato così, a quelli che probabilmente la conoscevano e che lei avrebbe dovuto ignorare.
Eppure, ciò che la spaventava di più, era il patto fatto con se stessa. Aveva deciso che la mattina seguente, prima di tornare a scuola, si sarebbe guardata allo specchio.
Se ci pensava, il cuore andava a farsi una corsa e non tornava per un lungo tempo. Non sapeva bene perché neppure lei. Le cose non potevano andare peggio di così, no?
Fissava il soffitto bianco atono da un tempo che non aveva saputo quantificare quando si costrinse a chiudere gli occhi e provare a dormire.
Il mattino successivo, alzarsi dal letto con la prospettiva di quella giornata fu più facile di quello si aspettasse.
Era determinata a muovere avanti, ora che nulla la tratteneva indietro. I suoi genitori, da quando le avevano proposto di tornare a scuola e lei aveva accettato spassionatamente, sembravano anch’essi  leggermente più sollevati. Probabilmente, nonostante il dolore che provassero, ciò che volevano principalmente era il meglio per la loro figlia, e sapere che era abbastanza propensa a ricominciare aveva dato loro un briciolo di speranza.
Inoltre, da quando aveva scovato più o meno le ragnatele più importanti del suo passato (le foto come breve riassunto dei suoi rapporti, gli account, che poi aveva eliminato), si sentiva più sicura. Era come se prima avesse avuto paura di mettere piede nella sua casa, nella sua stanza — di cui non si ricordava — per paura di tuffarsi in una vita che non sentiva sua, e ora che quella trappola in cui aveva messo piede era scattata, sentiva di poter affrontare tutto. Pensava di aver reagito piuttosto bene al tutto, no?
Questa era la convinzione che la portò in bagno, quella mattina, e che la lasciò guardarsi allo specchio senza rifletterci un minuto di più. Senza ripensamenti. Senza soffermarcisi sopra.
Trattenne il respiro.
Si avvicinò ancora di qualche passo finché i suoi fianchi non si pugnalarono col bordo del lavabo. Le mani afferrarono il ripiano.
Poi, alzò una di esse e si accarezzò i boccoli castano ancora bagnati per la doccia che aveva fatto di prima mattina. Le accarezzavano il seno e anche la fronte.
Indossava solo una maglietta nera a maniche lunghe e dei jeans fino all’ombelico, perciò notò subito il piccolo neo sul seno destro. Forse l’unica cosa che le piacque.
Con la mano si accarezzò lo stomaco, poi il petto, dove stazionava un piccolo ciondolo d’oro a forma di sole che i suoi genitori le avevano detto glielo avessero regalato i nonni alla sua comunione. Proseguì ad accarezzarsi le clavicole, dove una lunga cicatrice le arrivava fino al collo. Si era dimenticata di averla. Non le aveva dato problemi, ma ricordava che i primi giorni all’ospedale il dottore gliela controllasse sempre.
Arrivò alle guance e ai capelli ancora una volta. Anche gli occhi erano castani, le labbra erano abbastanza carnose.
Non sentì niente. Assolutamente il vuoto.
Non era bella. Non si vedeva bella. Era nella media, sì? Non sapeva neppure quale fosse il suo punto di riferimento per dire una cosa del genere, ma le venne naturale pensarlo.
Frettolosamente, scosse la testa e legò in una crocchia alta e malandata i capelli per lavarsi il viso.
Dopodiché, li asciugò nella piega migliore che riuscisse a dare loro e preparò il resto per la scuola.
Si chiese se fosse il caso di truccarsi? Insomma, non sarebbe stato un po’ pretenzioso?
Prima di uscire di casa, si lanciò un’altra occhiata allo specchio: ancora nulla. Si sistemò una ciocca di capelli sulla spalle e si guardò il viso tondo. Afferrò al volo il mascara e lo passò un paio di volte sulle ciglia. Niente di più.
I suoi genitori si erano svegliati poco dopo di lei e quando era uscita dalla doccia aveva trovato sua madre intenta a preparare la colazione. Quando scese, riservò loro un sorriso convincente e sincero e si sedette a tavola per consumare il pasto tutti e tre assieme.
Fu meno scomodo di quello che pensasse, anzi, avrebbe osato dire quasi confortante. La normalità lo era. Non aveva avuto neppure un attimo di spazio per pensare che quelle persone non le conosceva, perché le avevano fatto così tante domande con uno sguardo di tale entusiasmo, che l’avevano fatta sentire a suo agio. Le avevano domandato se era agitata per il suo primo giorno di scuola; le avevano fatto i complimenti per come si era acconciata i capelli e come si era vestita; inoltre, le avevano domandato se avrebbe preferito prendere l’autobus o essere accompagnata. Proprio come se fosse una ragazza normale! Non avevano pronunciato o accennato a ciò che era successo neppure una volta, e questo, invece di destabilizzarla, non aveva fatto che altro che renderla più tranquilla e sicura.
Aveva scelto l’autobus, e nemmeno allora era riuscita a vedere una qualunque forma di disappunto o sorpresa nei suoi genitori. Neppure in sua madre, che aveva capito fosse più protettiva nei suoi confronti, e anche un po’ più fragile. Avevano solo cominciato con l’informarla delle varie fermate, di quanto tempo ci impiegasse e dell’ora in cui sarebbe passato. E ciò fu solo d’aiuto.
Così, da prestabilito, alle 7:40 era già fuori ad aspettare l’autobus. I suoi genitori l’avevano salutata dalla porta principale di casa, guardandola incamminarsi verso la fermata dell’auto che distava pochi minuti.
Aveva deciso lei di non essere scortata da nessuna parte perché voleva riacquistare il contatto col mondo. E’ strano e anche insensato da dire, ma lei si era risvegliata da un coma appena poco più di una settimana prima, e da allora non aveva fatto altro che alternare da ospedale a casa, eccetto quella volta che si era incontrata con Luke (sempre davanti l’ospedale), perciò doveva rifare tutto d’accapo: per cominciare, voleva scoprire il mondo che la circondava. E voleva essere come tutte le ragazze della sua età, capaci di uscire di casa conoscendo la zona, o di prendere l’auto senza saltare le fermate.
Arrivò a scuola appena cinque minuti prima che la campanella suonasse. Fu quando mise piede nel cortile che tutti i buoni propositi cominciarono a cedere. Come si era aspettata, gli altri ragazzi la guardavano come se avesse commesso un omicidio e l’avessero dichiarata incapace di intendere e di volere. Con riserva, ma anche con compassione. E lei odiò quelle occhiata lanciatele. Non era un piccolo cucciolo smarrito, tanto meno una povera pazza. Non aveva bisogno della loro pena.
Continuava ad accarezzarsi i capelli per sistemarli dietro le orecchie e a stringere la bretella dello zaino che aveva portato.
La situazione continuò così finché non entrò nel corridoio principale; lì le cose furono anche peggiori. Non solo gli sguardi, ma anche le voci sussurrate. Odiava già quella marmaglia di ragazzi.
Si recò immediatamente alla segreteria e per chiedere nuovamente il foglio con le informazioni sulle lezioni e sul suo armadietto dovette ricevere anche dall’assistente un’occhiata di stupore alla comunicazione del suo nome. Si trattenne dall’alzare gli occhi al cielo e si allontanò senza neppure ringraziare.
Sapeva che doveva essere una situazione che non si vedeva tutti i giorni e non dava loro tutti i torti per essere un minimo sorpresi, ma avrebbe preferito che la cosa fosse durata meno e che le persone fossero tornate alle proprie vite, dimenticandosi della povera ragazza che ha perso la memoria e neppure il suo stesso ragazzo vuole riconoscere.
I suoi buoni propositi stavano cominciando a crollare, e lei aveva ricominciato a pensarci troppo su.
Stava dirigendosi all’armadietto 555 – apparentemente il suo –, ormai quasi abituandosi a quell’attenzione che riceveva, quando un rumore non la distolse dai suoi pensieri.
Ad una decina di metri, c’era Luke Hemmings con una mano aperta sull’anta chiusa di un armadietto. Il rumore era stata probabilmente la sua mano che chiudeva lo sportello, dedusse Heather guardando il bianco delle nocche che si espandeva sempre di più.
L’altra mano, stesa lungo il braccio, era chiusa a pugno, e neppure il suo viso rivolto verso il basso sembrava essere d’umore differente. Indossava i suoi soliti skinny jeans, questa volta senza strappi, una maglietta completamente nera tirata su fino agli avambracci e delle converse alte nere.
Inutile dire il sollievo che l’aveva invasa quando aveva visto la sua figura fra le persone che le camminavano davanti per dirigersi a lezione. Eppure, si chiese se fosse il momento giusto per avvicinarsi. Luke sembrava piuttosto di cattivo umore. Anche da lì, poteva vedere la leggera barba incolta sulla sua mascella.
Sorrise, poi scosse la testa e si avvicinò a lui lentamente.
— Ciao. — lo salutò. Lui si voltò velocemente e Heather quasi strabuzzò gli occhi per lo sguardo duro che gli vide negli occhi, ma che ben presto si tramutò in dolcezza.
— Ciao. — Le sorrise, togliendo la mano dall’armadietto e volgendosi completamente a lei. Il suo sorriso, tuttavia, sembrava tirato. Poi il suo sguardo si tramutò in qualcos’altro... compassione? — Mi dispiace per quello che stai passando. —
Heather prese un respiro profondo e si preparò a rispondere acidamente, ma poi lentamente lasciò sbollire la rabbia. Luke non lo faceva apposta, magari cercava solo di essere gentile. I suoi capelli biondi gli accarezzavano la fronte ed erano leggermente portati da una parte. — Me lo aspettavo. — Alzò le spalle. — Comunque, al momento mi preoccupa di più il fatto di non sapere neppure quale sia la classe di Biologia Marina, che tra l’altro ho in prima ora. —
Luke sembrò sovrappensiero, ma annuì con la testa e s’incamminò insieme alla ragazza per il corridoio. Le loro spalle si sfioravano a malapena. A Heather venne da sorridere e solo allora si rese conto che il ragazzo fosse più silenzioso del solito.
— Allora, ho bisogno di distrazioni. Come va con la tua ragazza? —
Lui sembrò leggermente sovrappensiero, ma le sorrise. — Bene, diciamo. — Sembrò pensarci su prima di continuare, poi — Mi manca. — pronunciò con tono nostalgico.
— Dov’è? —
— Lontano. Non ci vediamo spesso, purtroppo. —
— Oh. — annuì Heather. Le venne voglia di chiedergli una sua foto, così, per curiosità, ma si trattenne. Luke sembrava nella sua stessa posizione: aveva bisogno di distrarsi.
— Be’, allora, se fossi così gentile dall’accompagnarmi alla classe di Biologia. Non so proprio orientarmi— —
— Scusa, non posso, Heather. — Si fermò nel mezzo del corridoio e si voltò verso di lei con sguardo già stanco, ma dispiaciuto. — Ci vediamo. — Poi, scomparve fra la gente.
Heather era di nuovo sola.

Erano finite le sette ore scolastiche e Ettie non era ancora pronta a rinunciare alla positività che l’aveva investita quella mattina. Neppure dopo la prima ora di Biologia in cui il professore (piuttosto oltre l’età in cui si dovrebbe insegnare) non l’aveva riconosciuta e l’aveva pure interrogata. Neppure dopo le successive tre, in cui aveva ricevuto occhiate di sottecchi dai compagni, sguardi sorpresi dai professori e trattamenti speciali che assomigliavano più ad un modo di tenerla a bada. Cos’era nella sua vita precedente, un’assassina? Una bulla?
Aveva cercato di passare il più inosservata possibile, perciò cercò di convincersi fosse quella la ragione per colpa della quale nessuno gli si fosse avvicinato dicendole che prima erano amici o altro.
A pranzo, aveva dato un’occhiata fra i volti della mensa, senza individuare Luke. Le venne spontaneo tirare fuori il cellulare dalla tasca e mandargli un messaggio (si erano scambiati i numeri con Facebook), ma non voleva apparire troppo appiccicosa, perciò si era fatta i fatti propri e aveva mangiato sugli spalti della palestra, da sola.
Adesso, scese i gradini dell’entrata principale della scuola, lasciando andare uno sbuffo.
Aveva detto a Cole ed Elizabeth che Luke e i suoi amici l’avevano invitata a mangiare una cosa insieme solo perché lui lo conoscevano, più o meno, e si sarebbero preoccupati di meno rispetto a dire loro che usciva con nuovi amici.
Non le andava di tornare a casa subito, ma ora che il cortile era vuoto e lei vi si trovava nel mezzo a cercare di infondersi calore muovendosi sul posto, si sentì di aver magari fatto la cosa sbagliata. Come ciliegina sulla torta, il cielo minacciava di piovere e inondarla della sua negatività da un momento all’altro.
Scosse ancora una volta la testa e si convinse ad incamminarsi verso la fermata dell’auto per cercare un posto in cui pranzare. Fin quando non vide il veicolo che avrebbe dovuto prendere sfrecciarle davanti.
L’orologio segnava le 14:37 e lei era sicura che l’auto sarebbe dovuto passare in tre minuti. Fece mente locale e si rese conto di aver invertito gli orari del percorso mattutino. Si schiaffeggiò la fronte con una mano e poi si mise a correre per tentare di fermarlo, invano.
Dentro, alcuni ragazzi risero nel vederla così disperata.
Rimase ferma nel mezzo della strada con sguardo atono.
— ‘Fanculo! — urlò. — ‘Fanculo, ‘fanculo, ‘fanculo! — continuò contro l’auto, ormai a diverse centinaia di metri di distanza. In realtà, l’aver mancato di prendere il mezzo di trasporto che l’avrebbe riportata a casa era solo la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, ma era anche l’unico pretesto con cui prendersela in quel momento.
Infilò furiosamente le mani fra i capelli per scansarli dal viso e cercò di respirare.
Probabilmente solo allora fu abbastanza onesta con se stessa da ammettere che quella giornata era stata uno schifo. Che non aveva reagito bene a tutta quella storia, perché fino ad allora aveva solo negato a se stessa l’evidenza. Aveva cercato di convincersi che andasse tutto bene, quando non era così.
Si voltò verso l’edificio scolastico e notò una figura in piedi sul marciapiede dietro di lei. Luke. La guardava con stanchezza, come se capisse la sua reazione ma non avesse più le forze per dire o fare niente.
Per la prima volta da quando tutto era cominciato, Heather cominciò a piangere.

A/N
chiunque ci tenesse a seguirla, su wattpad la sto pubblicando con aggiornamenti più frequenti. 
c'è la possibilità che qui venga eliminata.
link: amnesia. 
  
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