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Autore: Osage_No_Onna    29/07/2016    2 recensioni
[YuGiOh!ZEXAL X Slash:// X Puella Magi Madoka Magica]
Ave popolo di EFP!
Questa è la mia terza storia cross-over e la mia terza what if!
Ma, passando alla trama...
Una misteriosa ragazza viene catapultata ad Heartland City da un Universo Parallelo e perde buona parte dei suoi ricordi. Essa ha con sé una pietra verde dai misteriosi poteri e un ciondolo con un cristallo che, secondo le leggende, corrisponderebbe al "Cristallo della Purezza", una pietra magica di cui si sa poco e nulla... Ad ogni modo, questo accade circa cinque mesi prima dell' inizio di ZEXAL e, durante una notte buia e piovosa, questa ragazza (in punto di morte) viene raccolta da una misteriosa figura mascherata che le offre la salvezza, ma a prezzo molto alto...
Insieme alla ragazza, viene catapultato ad Heartland anche il suo ragazzo, che la vede sparire misteriosamente sparire nel nulla. Tutto ciò causa un cambiamento repentino del suo carattere e una vera e propria "caccia all' uomo" alla quale partecipano anche due Pueri Magi e (ovviamente) anche Kyubey sarà nella partita...
Cosa mai potrà succedere?
Leggete e scopritelo!
Dedicata a Feelings e a Ryoku. Grazie ragazzi!
Genere: Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Cross-over, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie '*For my love I'll survive*'
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Chapter 10
A room of tattle, a boulevard of thoughts
 
La ragazza squadrò la propria immagine riflessa nello specchio quadrato del bagno con aria critica. Il vestito che indossava, rosso ed aderente come un tubino, metteva in risalto il suo bel fisico magro ed armonioso, scolpito da anni ed anni di lunghi allenamenti di Tai Chi.
Le iridi verdi incastonate quasi per sbaglio nei suoi occhi a mandorla brillavano di una strana luce, insolitamente seria, mentre faceva quelle considerazioni fra sé e sé.
Lo specchio non le mentiva, come invece era successo a Yumiko nei mesi prima di incontrarla, ma trovava che l’immagine che le porgeva davanti agli occhi fosse, per quanto molto carina, molto insolita. Per un secondo non si era riconosciuta.
Smise immeditatamente di pensare al passato per focalizzare meglio il presente: fra poco meno di mezz’ ora John sarebbe passato a prenderli tutti e sette per cenare in un ristorante di lusso strabordante scintillii, noiosissimi ricconi inguainati nei soliti tailleur o in vestiti gli uni più astrusi (e scomodi) degli altri e formalità.
La cosa migliore da fare era cercare di mimetizzarsi, in modo da scambiarsi tutte quelle preziose informazioni passando inosservati.
Prese la spazzola e cominciò a ravviare i lunghi capelli neri, lasciati sciolti per l’occasione, finalmente liberi dall’ oppressione del codino verde che li aveva imprigionati fin troppo spesso.
Le setole percorsero velocemente ma coscienziosamente ogni centimetro di quella cascata di seta fino a quando la mano ossuta di Chen decise di aver fatto abbastanza e posò quel prezioso strumento sulla mensola di fronte allo specchio.
Con uno slancio insolito la cinese si mise ai piedi, proporzionati alla sua statura a scapito dell’ usanza cinese di bloccarne la crescita, un paio di nuovissime ballerine di vernice ed uscì dal bagno. Nella stanza di Tomoya l’aspettava l’insolito spettacolo di una Paula con i lunghi capelli rossi sciolti e spioventi sulle spalle, seduta compostamente su una traballante sedia pieghevole di legno, e di Matilde che la pettinava diligentemente con un pettine nero.
La fiorentina era davvero carinissima nel suo abitino blu notte, che con quell’ arriccio sulle ginocchia faceva l’effetto di una soffice nuvola, e sulle sue spalle scendeva morbido un lungo foulard argenteo. Con i sandali neri dal tacco basso e il braccialetto di onice al polso sinistro era davvero una magnifica visione.
La cugina non era altrettanto elegante, ma anche lei era vestita diversamente: la candida maglia aderente metteva in risalto le sue curve ancora acerbe, mentre le gambe erano nascoste, com’ era sua suo solito, da un pantalone molto largo fermato alle caviglie da due elastici, il cui tessuto assomigliava molto a quello dei blue jeans. Ai piedi calzava un paio di converse nere i cui lacci sembravano essere stati lavati di recente.
I ragazzi si erano probabilmente volatilizzati nei bagni di servizio.
“Tu cosa ne pensi?” stava chiedendo Paula alla cugina, cercando di ignorare gli strappi ai nodi che i denti del pettine procuravano ai capelli.
“Di cosa?”
“Di tutto questo, ma soprattutto del cambiamento di Tomoya. Francamente io ci sono rimasta di sasso. D’accordo, la situazione non poteva non avere delle conseguenze, ma non pensavo che sarebbero state queste. Fa quasi paura con quell’ aria dura che si tiene perennemente addosso.”

La cugina alle sue spalle smise per un attimo di armeggiare con il pettine per risponderle: “Sì, hai ragione. Io però mi aspettavo qualcosa del genere. Lui è molto orgoglioso e, quando ci si mette, anche parecchio testardo. Inoltre non sembra, ma tiene davvero molto ai suoi familiari e a Yumiko, soprattutto perché ha sempre fatto del suo meglio per tirarla su e, senza farcene caso, si è innamorato di lei. Si sono scoperti a vicenda, per così dire, ed hanno imparato ad accettarsi e ad amarsi. Ma ora lei si è cacciata in un guaio più grande di noi… Credo sia normale che sia preoccupato.”
“Questo non giustifica il repentino cambio di carattere.”
Obiettò decisa la cugina.
Matilde arricciò le labbra e corrugò la fronte, cercando di trovare una spiegazione plausibile. Evidentemente non la trovò, o forse non giudicò credibile la girandola di opzioni che si era formata nella sua mente, perché sospirò e disse: “Potrebbe essere una sorta di meccanismo di autodifesa. Ricordi il comportamento di Yumiko durante i primi tempi?”
“Hmm-hmm.”
Le rispose Paula, pensosa. “Potresti avere ragione. Però lei ha tutt’ altro tipo di carattere, per lui sarebbe stato più sensato rimboccarsi le maniche, lavorare alacremente ed andare avanti non ottimismo, non diventare uno zitellone pedante, acido e senz’ anima.”
“Beh, per il lavorare alacremente direi che lo sta facendo eccome. Io rimango dell’ ipotesi che è tutta una maschera pirandelliana.”
“Che noia.”
“Comunque a me non è sembrato questo gran Re delle Nevi che vai decantando. Magari il nostro arrivo l’ha tirato su di morale.”
“Confermo.”
Intervenne Chen, che fino ad allora era rimasta in silenzio ad assistere all’ interessantissima conversazione. Ne dedusse che la fiorentina non aveva perso il suo spirito critico e la sua intelligenza, mentre la spagnola era rimasta la solita emotiva con la risposta perennemente pronta, più incline all’ azione che alla riflessione; ma entrambe erano rimaste più o meno colpite dalla situazione surreale in cui si trovavano e dovevano ancora attutire il colpo.
Lei, invece, l’aveva già fatto da un pezzo. Aveva dovuto suo malgrado sopportare gli sbalzi d’ umore dell’amico, gli ordini insopportabilmente imperiosi e le crisi di pianto improvvise, lo aveva preso per il collo e scosso come un albero di limoni se ce n’ era stato bisogno, avevano sfogato la loro rabbia correndo lungo le strade lastricate dei giardini pubblici improvvisando gare di velocità, avevano sudato e passato intere nottate in bianco per trovare ed installare il dispositivo per i viaggi interdimensionali. Ma avevano anche riso a crepapelle sul ridicolo tailleur verde muschio e la terribile montatura arancione degli occhiali del Signor Heartland, si erano sfidati reciprocamente a duello per testare le loro abilità, avevano rievocato i “bei vecchi tempi” con una punta di nostalgia, avevano esplorato ogni angolo della città scambiandosi informazioni ed impressioni, avevano imparato a perseverare insieme. Le due cugine non avevano visto che ad una piccolissima parte di quel nuovo mondo e lei voleva lasciare loro tutto il divertimento.
“Confermi cosa?” chiese Paula incuriosita.
“Che il vostro arrivo lo ha tirato su.” Le rispose Chen ridacchiando. “Durante le prime settimane era a dir poco insopportabile con tutti i suoi malumori. Finiva sempre per riversarli addosso a me.”
“Beh, doveva pur sfogarsi in qualche modo.”
Cercò di difenderlo Matilde, la cui voce tradiva una certa preoccupazione per il compagno.
Proprio in quel momento fece capolino dalla porta d’ ingresso Muhammad, avvolto in uno strano completo, decisamente fuori dai suoi standard: camicia bianca e panciotto grigio perla appuntato fino all’ ultimo bottone, pantaloni di lana neri a righe grigie tenuti opportunamente su da un paio di bretelle, calzettoni di cotone nere e scarpe di vernice.
Con una tuba, un bastone e un fiore all’ occhiello si sarebbe potuto benissimo mimetizzare tra la folla di gentlemen dell’ Ippodromo di Astrot.
Paula e Chen scoppiarono a ridere, mentre la povera fiorentina cominciò poco a poco ad assumere un colorito violaceo nel tentativo di non seguirle a ruota.
“Ma come ti sei vestito?” riuscì a chiedere la spagnola dopo vari tentativi. «Assomigli al Cappellaio Matto di “Alice nel Paese delle Meraviglie”!»
“Beh? Mai visto un tight?” chiese il sudafricano, imitando le pose affettate degli aristocratici snob.
“Dove l’hai preso?” fu la risposta di Matilde, che si lasciò involontariamente sfuggire un risolino. “È così… ”
“Se stai pensando che non è da me… Puoi dirlo forte!”
la interruppe l’ amico con un sorriso che gli attraversava tutto il viso. Il suo scherzo era perfettamente riuscito.
“L’ hai preso in una sartoria teatrale?” disse incredula Paula scoppiando nuovamente a ridere. “Sei troppo forte, amico mio.”
“Certamente, quando mai potrò rimettere una cosa simile? E poi non ho alcuna intenzione di comprare abiti da pinguino che non metterò mai.”
“Sembri un attore.”
Osservò Chen, le gote arrossate.
“Non lo siamo un po’ tutti, in fondo?” fu la filosofica risposta. Life’s but a walking shadow, a poor player that struts and frets his hour upon a stage, and then is heard no more…[1]
“Senti, puoi fare tutte le citazioni colte che vuoi, ma quel vestito rimane comunque ridicolo, quindi fila a metterti qualcosa di più adatto.”
Sentenziò la spagnola con un tono a metà tra l’altero e il divertito.
A quella battuta fece il suo ingresso, per niente trionfale, anche Isaia. I tre sguardi femminili parvero approvare le sue scelte in fatto di vestiario: camicia bianca, gilet blu notte, uno pseudo-jeans di un nero così scuro che al confronto l’inchiostro sarebbe parso di un grigio sbiadito e scarpe abbinate. Sull’ avambraccio teneva poggiata una giacca cerata: evidentemente non aveva escluso a priori la possibilità del cattivo tempo, anche se non avrebbe dovuto preoccuparsi così tanto: in caso di pioggia buona parte del tragitto per lo Starry Garden avrebbe potuto essere coperto dalla monorotaia e il costo di un biglietto non era poi così elevato.
“Be’? Perché mi guardate in quel modo?” chiese il ragazzo divertito, ma gli bastò un’occhiata all’ abito dell’amico sudafricano per capire tutto e sgranare gli occhi.
Decise saggiamente di non commentare e sviò il discorso verso un argomento a suo parere interessante e in quanto tale degno di essere approfondito: “Ragazzi, secondo voi che tipo di famiglia è, questa che ha raccolto Yumiko?”
“I numerati, intendi dire?”
saltò subito su Paula, senza nemmeno dargli il tempo di finire. “A giudicare da quelle divise così… non saprei, stile Diciassettesimo o Diciannovesimo Secolo, direi che è una famiglia antiquata, molto antiquata. Secondo me l’eredità passerà tutta al figlio maggiore.”
“E i cadetti si fanno monache e frati, secondo te?”
scoppiò a ridere Muhammad. “Non credo proprio che anche in Giappone le cose vadano così.”
“A me, veramente, più che giapponesi sono sembrati inglesi.”
Intervenne Matilde pacata.
“Non credo ci siano molti elementi concreti per affermarlo, in questa strana dimensione parallela le differenze somatiche sono quasi inesistenti.” Osservò a sua volta Chen, che aveva bene impressi nella sua mente i volti dei duellanti che aveva sfidato: era un bel numero e tutti provenienti da quella città, nonostante alcuni di essi sembrassero decisamente europei. La sua comoda casetta a Jiayuguan talvolta le mancava e nonostante si fosse stabilita ad Heartland City già da tempo ancora non si sentiva del tutto pienamente parte di quella realtà, anzi: talvolta si sentiva come una sorta di dea distante che guardava il mondo attorno a sé senza esserne sfiorata, come se tutto quell’ insieme di palazzi non fosse davvero tangibile, ma una sorta di illusione creata da un qualche demiurgo del quale non sapeva classificare il comportamento.
Era malefico o semplicemente neutro, disinteressato?
Questa cosa le dava alquanto fastidio: a casa sua si era sempre sentita in armonia con tutto ciò che aveva attorno, perché invece adesso non ci riusciva?
Promise a sé stessa che sarebbe riuscita ad ambientarsi per bene, poi ritornò a seguire i discorsi degli amici: nel frattempo era entrato nella stanza anche un elegantissimo Stephan in camicia bianca, giacca nera, pantalone in tinta che sembrava essere uscito da una sartoria di prim’ ordine appena due secondi prima e scarpe di vernice.
Il nero della sua tenuta creava un bel contrasto con la sua pelle pallida e i capelli biondo paglia; se avesse indossato anche un papillon avrebbe potuto benissimo sembrare un piccolo cameriere. Inoltre quell’ outfit si confaceva davvero moltissimo ai suoi modi signorili e sempre cortesi, talvolta persino un po’ antiquati, che adottava anche tra amici: con Yumiko, ai suoi tempi, era stato un vero e proprio angelo custode, di quelli a cui i cattolici rivolgevano talvolta le loro preghiere.
Quest’ ultimo stava facendo notare agli altri che in quella misteriosa famiglia sembrava non esserci un capofamiglia, per cui la questione dell’eredità probabilmente non era nemmeno da porsi.
“Ma andiamo!” ribatté Paula poco convinta. “Ci sarà pure qualcuno che dirige le loro operazioni, no? Sono pur sempre Cacciatori di Numeri!”
“Magari è il giovane con la divisa blu, il ventenne…”
intervenne Isaia, calmo ma deciso.
Agli sguardi straniti dei compagni, si affrettò a spiegare: “È plausibilissimo, credo. Five, supponendo che sia davvero questo il suo nome, ha appena vent’ anni. Ad un primo colpo d’ occhio gliene daremmo almeno dieci in più, lo so, ma sta di fatto che ha raggiunto la maggiore età, quindi potrebbe occuparsi lui di tutto dal momento che gli altri tre componenti hanno rispettivamente diciassette, quindici, tredici e nove o dieci anni.”
“In effetti…”
concordò titubante Matilde.
“Boh, anche ammettendo che sia lui, quella famiglia in generale mi puzza di poco di buono. Poi quel tipo ha anche uno sguardo che non mi piace. Sembra privo d’ anima. Vedrete che è un mostro senza cuore e una volta cuccatosi tutti i soldi butterà gli altri fuori di casa.”
Impossibile fermare la ragazza barcellonese quando partiva per la tangente con le proprie teorie: anche se normalmente era logorroica e comunque alquanto irruenta, quando si fermava a pensare partoriva le idee più strambe e contorte, spesso basandosi solo su una semplice immagine. La sua testardaggine non aiutava, per cui anche se qualcuno avesse provato a dissuaderla lei sarebbe rimasta cocciutamente sulla sua posizione fino a quando, in qualche modo, il diretto interessato non avesse confermato o smontato la sua teoria.
“Non ti sembra di esagerare un po’?” ridacchiò Muhammad facendo capolino dalla porta. Evidentemente era andato a cambiarsi poco prima, perché aveva indosso una felpa rosso acceso con tanto di cappuccio, un jeans decisamene troppo a zampa d’ elefante e delle sneakers un po’ troppo vecchiotte di un rosso sbiadito. Faceva una figura alquanto miserella rispetto agli altri due amici, ma quantomeno non aveva più quel ridicolo costume addosso. Inoltre quei vestiti sembravano riflettere al meglio la sua personalità, per cui lui stesso si sentiva meglio dopo averli indossati.
“Cosa ti diranno alla sartoria teatrale?” ribatté la spagnola.
“Oh, proprio niente.”
“Direi… Quel tight era davvero orribile. Secondo me non l’ha mai indossato nessuno.”

A Matilde quell’ affermazione sembrò decisamente fuori luogo, visto e considerato che sua cugina non badava certo all’ eleganza, anzi, non aveva molto buon gusto nel vestire (secondo il suo modesto parere). Il classico bue che dà del cornuto all’ asino, insomma. “Però è sempre divertente sentirti speculare.” Continuò il sudafricano, sedendosi sul comodino affianco al letto di Tomoya e cominciando a dondolare energicamente le gambe.
“Continua. Ammesso che sia vero quanto dici, che fine faranno gli altri quattro?”
“È una sfida?”
ridacchiò lei.
 Il ghigno sulla faccia del ragazzo tradiva completamente il suo divertimento, nonostante avesse provato a mascherarlo con degli occhi serissimi.
“Così mi inviti a nozze, bello mio. Io penso che il secondo finirà a fare il militare e, detto tra parentesi, con quella faccia da sbruffone pieno di sé che ha meriterebbe come minimo di perdere un braccio, mentre gli altri tre diventeranno rispettivamente un ottimo ecclesiastico, un chierichetto disilluso avviato al sacerdozio e una suora insoddisfatta.”
“Come la Monaca di Monza?”
ridacchiò Matilde facendo ondeggiare il caschetto di capelli rossi. “Che brutta fine.”
Stephan alzò un sopracciglio: “Ma la futura suora di cui stiamo parlando è la nostra amica. Non credo sia carino ipotizzare per lei un futuro così poco roseo…”
Un deciso bussare alla porta della stanza interruppe le loro congetture: era John Snake, anch’ esso elegantissimo nel suo completo gessato grigio, cravatta in tinta e mocassini. Aveva con sé l’immancabile ventiquattrore straripante documenti e un sorriso gentile sul volto stanco, ma i suoi occhi scintillavano ancora di vitalità e sembrava voler abbracciare tutti i suoi piccoli amici.
Dietro di lui c’era Tomoya che, in mancanza di abiti adatti per l’occasione, aveva deciso di ripiegare sulla sua divisa da Number Hunter.
Era molto diversa da quella che indossava il suo collega Kaito e persino da quelle degli Arclight: era infatti costituita da una maglia bianca e larga, le cui maniche avevano un’apertura a triangolo ed erano bordate di nero. Al di sotto di esse spuntava un altro paio di maniche, lunghe e nere come il colletto, a sua volta bordato di bianco e stretto da un nastrino di un colore indefinito tra il magenta e il viola.
Sugli omeri poggiava una mantellina viola dalla forma trapezoidale, dai contorni neri.
I pantaloni erano a loro volta completamente neri, eccezion fatta per i motivi a losanga, anch’ essi viola, che ne attraversavano, sui lati delle gambe, tutta la lunghezza. I calzini candidi presentavano lo stesso motivo dei calzoni, mentre le scarpe che aveva ai piedi erano le classiche calzature basse di cuoio che gli studenti della Heartland Academy indossavano sei giorni su sette.
“Bene, ragazzi” esordì l’uomo sorridendo. “Il ristorante dista circa venti chilometri, per cui copriremo buona parte del tragitto in monorotaia. Avete con voi i soldi?”
L’ uditorio assentì ubbidiente, ma fu opportunamente messo in guardia dal loro previdente mentore: “State attenti al vostro comportamento sui mezzi pubblici: in Giappone, sapete, le norme della convivenza civile sono molto diverse che da noi. In particolare, su treni e autobus è vietato persino leggere. Se davvero non volete passare questi venti minuti a guardare le mosche, potreste ascoltare musica, rigorosamente con gli auricolari, oppure dormire.”
“Ammesso che riusciate a trovare posto.”
Rincarò la dose Tomoya. “Il che è quasi impossibile, visto e considerato che qui pare sempre che sia l’ora di punta.”
“In questo non è che sia tanto diverso da quanto accade in Italia, eh.”
Fece notare Matilde con un sorriso a dir poco tirato.
Non era propriamente una veterana di treni e metropolitane, ma tutte le volte in cui s’ era ritrovata a viaggiare sui mezzi pubblici si era sempre ritrovata pressata tra adulti nervosi e studenti universitari, più o meno noncuranti di tutto quel caos, che cercavano con evidenti difficoltà di sfogliare le pagine dei loro bravi quaderni per ripetere nozioni di anatomia, i casi d’ incidenza di strane malattie genetiche o la concezione delle divinità nelle tragedie di questo o quel tragediografo greco.
Paula era una specialista delle corse mattutine per prendere l’ autobus e grossomodo s’ aspettava qualcosa di simile anche in quel futuro ipertecnologico; a Isaia quell’ annuncio non fece né caldo né freddo, abituato com’ era a destreggiarsi tra la folla di pendolari della metropolitana di Los Angeles; mentre Chen sospirò rassegnata, rimpiangendo di non poter usufruire di una bicicletta: da quanto aveva visto non era esattamente popolare come mezzo di trasporto, al contrario di quanto accadeva a casa sua.
La comitiva, alquanto strana agli occhi dei passanti insonnoliti, si avviò verso la stazione sotto un cielo già scuro e tetro, dalle grosse nuvole che coprivano luna e stelle, nonostante mancassero circa dieci minuti alle otto di sera.
Il vento freddo che spirava alquanto violentemente da nord- ovest, inoltre, sembrava penetrare sotto la pelle dei poveri ragazzi raggelando loro le ossa. La sensazione generale era quella di aggirarsi senza meta sotto una strana volta nera come l’inchiostro, senza indicazioni, né mappe o bussole per potersi orientare e senza avere la possibilità di predire dove si potesse arrivare. A rallegrare le strade, però, c’ erano le insegne luminose di svariati negozi e vari maxischermi installati sui muri dei palazzi, che trasmettevano notiziari o i video musicali dei brani di tendenza.
In quel momento, proprio su quegli schermi, una ragazzina piccola e snella dagli occhi scintillanti, avvolta in un abitino rosso da lolita, compì una piccola giravolta e, facendo l’occhiolino, si aggregò a due compagne sullo sfondo e insieme a loro terminò una canzone dal ritmo un po’ troppo vivace.
“«Happy Go Lucky!» delle Three Little Souls.Commentò Tomoya, disgustato.
“Cos’ ha che non va?” chiese Matilde, che camminava a braccetto con Stephan.
“A parte il ritmo, il testo è decisamente troppo frivolo.” Argomentò il tibetano. “E poi ha il titolo più abusato di sempre. Inoltre quando senti una canzone praticamente ovunque, ventiquattr’ ore su ventiquattro, è normale che ti venga la nausea.”
“Non è così male, dai!”
intervenne allegramente Paula, per poi commentare tra sé e sé che Tomoya stava davvero diventando troppo orso. Riferì sottovoce il suo pensiero a Muhammad, che cominciò a ridacchiare senza ritegno.
Nel frattempo sugli schermi una donna ancora giovane, dai capelli rossi e una voce un po’ aspra, cantava in prima persona la passione e la fedeltà di una ragazza che, perso il suo promesso sposo, si lasciava decapitare da un nemico ubriaco che si era innamorato di lei a prima vista e aveva cercato di insediarla.[2]
Quando Stephan lesse il nome della cantante, tale Bernadette Chevalier, e vide che anche il brano successivo era interpretato da un gruppo francofono, rimase sinceramente sorpreso: non si aspettava che in Giappone trasmettessero con tale frequenza canzoni straniere, soprattutto francesi. Anzi, aveva supposto che, oltre ai vari gruppi e cantautori asiatici, le uniche canzoni estere che venivano fatte passare per radio o sui canali televisivi fossero principalmente inglesi o americane.
“Non è così. In questo periodo, in particolare, c’è stato un boom d’ ascolti proprio per le canzoni francesi. La più gettonata, almeno per quanto riguarda i miei compagni, è La ligue des morts di Alain Rachét. Alle ragazze, oltre a Isabelle, piace moltissimo anche Sur les pontes de Guyenne.” Spiegò ancora Tomoya.
“Ah sì?” Stephan era divertito da questa situazione, ma nel profondo del suo animo sprizzò anche una scintilla di fierezza: sua madre, Anaïs Lamarque, era infatti parigina e portava i figli in patria tutte le volte che le era possibile farlo. Il ragazzo, insieme alla sorella Victoria, aveva visitato la capitale francese almeno sei o sette volte e non aveva tardato a considerarla una seconda casa.
Sin da piccino, inoltre, aveva amato la lingua francese, e poteva vantarsi di conoscerla bene quasi quanto la madre, al contrario di quanto era accaduto per l’olandese. “Hai mai provato a far sentire loro Eblouie par la nuit o Port Coton[3]? Probabilmente andrebbero in sollucchero.”
“Non ci ho mai pensato. Quello non è esattamente il mio genere di musica, preferisco il New Age.”
“E soprattutto non ha tempo di pensare alle altre ragazze.”
ghignettò Chen. “Nel suo cuore è già stata scolpita l’immagine di una sola di esse e, prima che possa essere sostituita, i fiumi scorreranno al contrario.”
Il diretto interessato sospirò seccato, suscitando una certa dose di empatia in Matilde ed Isaia, entrambi ragazzi dall’ animo semplice e romantico, a cui l’amore di Tomoya per la sua ragazza piaceva molto: entrambi lo sentivano come innocente, ingenuo, ancora in boccio ma allo stesso tempo autentico, di quelli spesso descritti in tante poesie, quelli in cui dominano la fedeltà e l’ abnegazione per l’ altro.
Gli amori cristallini, in cui gli amanti ricevevano e donavano all’ amato non solo tutto ciò che avevano di meglio, ma anche tanti momenti non esattamente facili da vivere sempre con assoluta dedizione nel voler aiutare l’ altro.
Il resto della passeggiata trascorse in un imbarazzato silenzio, così come il breve viaggio in monorotaia, che si svolse in una calma iperbolica, per non dire religiosa: in particolare Tomoya, distaccatosi da tutto il resto della compagnia, fissò tristemente il cielo niente affatto stellato, illuminato solo da pacchianissime insegne luminose al neon.
Le sue belle iridi azzurre avevano perso l’ espressività di una volta e, quando non fissavano pensose o scintillavano infastidite o irate, non facevano altro che fissare le cose senza vederle per davvero, perse in tutt’ altri pensieri, svuotate, senz’ anima.
Solo le anime a lui affini riuscivano a capire cosa fosse nascosto dietro a quel ghiaccio e, quando il ragazzo le fissava distrattamente, loro sostenevano il suo sguardo accennando talvolta un sorriso: tra le tante c’era una bella ragazza alta, dai lunghissimi capelli corvini quasi sempre racchiusi in uno strettissimo chignon (con la sola eccezione di sei ciocche, probabilmente méchate dati i colori marrone, azzurro e blu oltremare, che le ricadevano davanti alle orecchie) e la pelle color della luna. La vedeva spesso in monorotaia, avvolta nella divisa rossa dell’altra scuola media importante della città, con un classico greco o latino sottobraccio e l’aria tristemente assorta di chi pensa ai propri piccoli guai. Anche lei non pensava al mondo esterno e, nonostante il portamento ostentasse una certa fierezza, si era racchiusa a riccio in sé stessa, per evitare di ferire o ferirsi.
Come aveva fatto anche lui. Certe cose che cerchiamo di non far trasparire vengono ugualmente a galla senza che ce ne accorgiamo, ormai lo sapeva.
La prima volta in cui s’ erano visti lei aveva il naso affondato nell’ Orestea di Eschilo, un bel librone dalla copertina in cuoio fulvo, in traduzione giapponese con il testo originale a fronte come si usa fare anche in Italia.
Quando aveva alzato la testa s’ era ritrovata di fronte lo sguardo di lui inumidito per la nostalgia e lei, mossa da chissà quale sentimento benevolo, gli aveva sorriso dolcemente e lo aveva salutato. Peccato, però, che dovesse scendere alla fermata successiva.
Da allora si erano rivisti varie volte, ma non avevano avuto occasione di diventare amici… e probabilmente neppure la voglia.
Forse perché erano anime fin troppo simili, troppo rinchiuse nel loro guscio e troppo occupate a pensare a loro stesse e alle loro priorità per aprirsi ai compagni di sventura.
Proprio a quella ragazza misteriosa stava pensando il ragazzo, quando gli amici lo fecero tornare alla realtà con l’avviso del loro arrivo.








Angolo dell' Autrice.
Whoa, sono tornata. L' avevo pure detto (In "
The stranger and the silver garden") che presto avrei aggiornato anche questa storia, anche se come potete vedere è stato un "presto" mooolto relativo.
Che dire di questo capitolo?
Innanzitutto, se vi siete già dispiaciuti per l' assenza degli Arclight, ho cattive notizie per voi: seguiremo i ragazzi di Slash:// per un bel po' di capitoli, ma vi prometto che ci sarà un capitolo extra con i nostri numerati-complessati preferiti. U.U
Scusatemi inoltre per la brevità (i capitoli precedenti erano più lunghi), ma ho preferito dividere l' unico grande capitolo che sto scrivendo da... settembre scorso (yuppi) in due, per non compicarvi/mi la vita.
(La mia scrittura ultimamente ha sfondato i limiti del "ciceroniano", sappiatelo. D:)
Spero di aver reso bene il carattere di questi bimbi e.. mboh, se vi ricordate ancora della mia esistenza sappiate che ogni parere sarà bene accetto, ma se volete entrare nelle mie grazie venite con me ad offrire ecatombi al povero Ludo Ariosto che sta ancora bestemmiando lassù nel cielo del Sole(?).
 (È da novembre che sono in fissa con il genere cavalleresco, venite a soccorrermi.)
See ya!
-ONO
PS: Ricordate i fiorellini citati nello scorso capitolo? E ricordate che avevo annunciato che avrebbero fatto parte di una storia? 
No?
Vabe', nel caso vogliate ficcanasare, ve la linko qui: "
Fifteen Flowers on the Wall".


 

[1] "La vita non è altro che un'ombra che cammina, un povero attore che si pavoneggia e si dimena nella sua ora sul palcoscenico, e poi non se ne sente più nulla..." [William Shakespeare, Macbeth, Atto V, scena V]
[2] Riferimento alla morte di Isabella, principessa di Galizia, nell’ Orlando Furioso di Ludovico Ariosto.
[3] Entrambe canzoni dell’artista francese ZAZ.
   
 
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