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Autore: FRAMAR    29/07/2016    28 recensioni
Storia d'amore tra Federico, quinto anno di Liceo, che finalmente cerca e trova in Andrea, ultimo anno di Università, l'amore della sua vita, perlomeno credeva.
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico, Universitario
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Tu sei bello da morire.



 
Il telefono squillò, mentre io, Federico, stavo arrovellandomi come un dannato su una traduzione dal greco che proprio non si lasciava prendere da nessun  verso. Alzai la testa dal libro e  incontrai la faccia schifata di zia Gianna che annunciava: “E’ quella balzana che dice che è urgente”.

Marisa! Mi precipitai al telefono con la velocità di un razzo: “Ciao! Oh non che non disturbi, stavo solo studiando… Come dici? Sabato?... Oh si, sì, sì, certo, grazie…”

Ero troppo eccitato per continuare la traduzione: la farò stasera, decisi. Mi sdraiai sul letto a pancia sotto e col dito cominciai a seguire distrattamente i disegni della tappezzeria con una girandola di pensieri in testa: ero  così, non riuscivo mai a pensare a una cosa per volta, a volte mi pareva perfino di vedere uscire il fumo dalla testa. Adesso nella girandola passavano  la faccia di Marisa con gli occhi da gatto e i capelli rossi, la sua aria strafottente, il suo gregge di filarini, la zia Gianna che torceva il naso: “ti devi aspettare solo guai da quella testa balzana: Troppi soldi e niente freni…”, e poi un’altra Marisa, con gli occhi lontani e vuoti. “Da piccola stavo  per ore seduta nel letto ad ascoltare mio padre e mia madre che urlavano e si insultavano nella stanza vicina… Quando si sono separati avevano paura si crearmi il trauma: ormai mi facevano solo ridere”. Era stata l’ultima volta che Marisa mi aveva parlato di sé, ma da allora avevo capito quello che c’era sotto quella corazza disincantata e a che prezzo Marisa  se l’era costruita.  Da quel momento era nata quella nostra strana amicizia senza troppe parole: Marisa veniva quasi tutti i giorni da me a studiare, chiacchierava con noi, accettava  senza prendersela  per le lune della zia Gianna e non parlava mai della sua vita. E adesso mi aveva invitato a una festa proprio nel giardino della sua villa: lanterne cinesi, musica e champagne… oh, fate che sabato  arrivi presto.

Sabato arrivò tra colorati momenti di euforia (“Sarò bellissimo, ballerò come pochi, sarò l’anima della festa”) e nerissimi magoni (“Sarò imbranato, nessuno mi guarderà, è meglio che non ci vada e ciao!”); il vestito nuovo appeso alla gruccia era di volta in volta promessa di celestiali delizie e minaccia di abissali figuracce.

Quando alle nove spinsi il cancello, il giardino  mi venne incontro coi cespugli di rose selvatiche e le lanterne di carta che oscillavano leggere nella notte.  Subito la mani dispotica di Marisa si impadronì della mia, incominciando il carosello delle presentazioni. Io mi odiavo per quella ridicola tremarella che sentivo nelle gambe ed ero certo di non aver captato né un nome, né un viso, quando di colpo misi a fuoco una faccia (una faccia magra con un sorriso un po’ di traverso) e sentii benissimo anche il nome.

“Questi è Andrea”. Aveva i capelli rossi. Mi venne subito in mente la zia Gianna “guardati dai rossi che son marci fino all’osso…”, ma, confusamente, qualcosa dentro di me mi avvertì che era già tardi. In quel momento avrei dato chissà che cosa per essere bellissimo ed elegantissimo, per diventare almeno per dieci minuti incantevole.

“Su non stare così impalato”, disse Marisa dietro di me. “Non ti mangia mica: è mio fratello”.

In quel momento qualcuno cominciò a mettere della musica. Nessuno di noi parlava. Marisa fu la prima a riscuotersi: sospirò brevemente, poi mi spinse con decisione verso il ragazzo, dicendo con un sorriso smagliante.

“Su Federico, fai vedere ad Andrea come sei bravo a ballare”.  In effetti me la cavavo abbastanza bene: era stata proprio Marisa a insegnarmelo, quando chiusi nella stanza avremmo dovuto studiare, “su dai, in, due, tre… muovi quelle gambe, bravo così…Adesso ti insegno ben bene poi il compito me lo fai tu…”. Avevo imparato, ma adesso mi sentivo le gambe  di ovatta ed ero disperatamente convinto che non sarei stato capace di muovere un passo. Andrea mi sorrise, poi mi mise leggermente il braccio intorno alla vita e incominciammo a girare, mentre io mi ripetevo disperatamente col pensiero “un-due-tre, un-due-tre”. Cercando di tenere il tempo. A poco a poco però la dolcezza della musica mi sciolse le gambe, la mano sulla spalla di Andrea, non tremavo più: c’erano solo due ragazzi che ancora non ci conoscevamo e giravamo, giravamo, tra le lanterne cinesi, i sogni, la giovinezza e la fiaba. Lui mi guardava assorto e per un breve attimo, mi parve di essere bellissimo e affascinante.

“E così tu sei Federico” disse ad un tratto lui: “Le poche volte che ci vediamo, Marisa parla sempre di te. Pare che tu la sopporti: è un caso unico”. Il sorriso strafottente ricordava molto quello di Marisa, la Marisa dei momenti antipatici, quando la corazza era più che mai impenetrabile.

Subito si sentì pieno di rabbia, non sentiva neanche più la musica: neanche questo aveva capito, niente di Marisa e si che era suo fratello.
“Io non la sopporto”, dissi sostenuto, “io le voglio bene. Chiaro?”.

“Cos’è una filippica?” , domandò lui con un sorriso di traverso. “Perché fa così?”

Gli occhi di Andrea diventarono di colpo dolci:

“Scusami, a volte mi prenderei a schiaffi da solo. Anche io le voglio molto bene”.  Adesso  il suo sorriso era buono e un po’ triste. Io potei vedere per un attimo anche dietro di lui quell’infanzia buia e disperata, sentii qualcosa che gli si agitava dentro e che non era né pietà, né simpatia o comprensione, ma già qualcosa di diverso che mi riempiva come una calda ondata e mi faceva vagamente paura.
La musica finì e Andrea mi prese decisamente per un braccio: “Vieni, ti faccio vedere il giardino”.

La luce delle lanterne colorava lievemente i sentieri di ghiaia e le siepi: Mi sentivo come dentro un incantesimo e senza sapere perché mi trovai a parlare con lui come se lo avessi sempre conosciuto: mi vennero fuori la scuola, Marisa, la zia Gianna, le paure e i sogni e tutto quanto e Andrea ascoltava come se fossero cose straordinarie.

“Sei buffo ragazzo”, disse ad un tratto, passandomi la mano aperta sulla faccia. “La mia storia è molto più squallida”.

Anche lui parlò e quella storia, così uguale a quella di Marisa venne fuori e restò sospesa nella magia delle luci colorate: l’adolescenza vuota, la solitudine (Quando ero solo la sera, immaginavo sempre che mia madre fosse nell’altra stanza e che bastasse chiamare”), l’incapacità di trovare uno scopo qualunque, prima le ragazze prese e lasciate, gli studi di archeologia trascinati e mai conclusi… Era la stessa storia di Marisa, solo che in quel vecchio giardino vestito a festa sembrava molto più  vicina e crudele. Io avevo la gola chiusa: pensavo alla sua infanzia calda e protetta, ai suoi genitori. Alla zia Gianna e non c’era niente che potessi dirgli per consolarlo. Dopo un momento riuscii a mormorare.

“Io non ho mai provato, ma mi sembra di capire… La zia Gianna dice sempre che bisogna reagire perché le cose non sono mai brutte come sembrano…”.

Andrea mi guardò con gli occhi fuori, come se stessi arrivando da molto lontano, poi di colpo sorrise, si chinò e mi baciò.
“La zia Gina è una gran donna”, disse piano.

Rimasi fermo, con gli occhi chiusi: “Sono proprio io, io Federico…”,  mi sentivo grande, onnipotente, invulnerabile, capace di sconfiggere tutto quel buio e quei ricordi.

“Oh, siete qui?”, Marisa si materializzò come per prodigio lì accanto a noi, con gli occhi da gatto e le luci colorate alle spalle, sembrava un personaggio delle fiabe: una fata o una strega? “Vi siete imboscati eh?”, lanciò un breve sguardo  perplesso alla faccia estatica di Federico. “Non dirmi che sei già caduto preda del tenebroso fascino di Andrea: Non sai che le vittime non si contano? Circola un detto su di lui : “Andrea? Stacci lontano, fanne tesoro…”.

La voce era insieme seria e beffarda e le dissi che se era uno scherzo non faceva ridere per niente.

“Sta zitta Marisa”, Andrea sembrava seccato.

“Oh, ma io sto scherzando, non si vede?”. Rispose lei  che con ironico candore, poi lo prese decisamente per un braccio: “Vieni, stai trascurando gli ospiti”.

Lui la seguì riluttante, ma dopo due passi si girò a guardare me: “Se posso torno subito. Altrimenti ti aspetto domani all’uscita della scuola”.

Vissi i giorni che seguirono come in trance: ci furono corse per la città, film mezzo guardati e mezzo no,  gelati allegramenti demoliti in cremeria, la faccia della zia Gina sempre più schifata (“Non sai a che botta vai incontro, sono tutti quanti balzani quelli”. La faccia dubbiosa di Marisa ”Stai attento Federico, Andrea è come me  , non ti ci buttare a pesce”). La faccia di Andrea dolce e vicina “(“Ti amo Federico, sei la prima cosa vera che io abbia incontrato,”) e la stessa faccia vuota  e lontana (“Non ci riuscirò mai a combinare niente di buono nella vita. Sarebbe meglio che me ne andassi, non voglio attaccarti i miei tarli”) e la felicità, la paura e l’amore. Durò otto giorni, fino a quella sera.

Avevo aspettato, aspettato… Dieci minuti, venti minuti, mezz’ora… Perché non viene?.. Adesso vado, no, aspetto ancora un po’… fate che venga… adesso lo chiamo al cellulare… Aveva risposto Marisa, con una voce strana.

“Andrea è partito”.

“Come partito? Quando ritorna?”

“Non ritorna, almeno per ora. No aspetta Federico… lasciami spiegare…”

Mi ero sentito invadere di colpo di una rabbia fredda e lucida: non provavo niente altro.

“Cosa mi vuoi spiegare? Che era stufo del ragazzetto di provincia? Che è stata una piacevole parentesi e che ora ha sentito il richiamo della foresta? Non spiegare niente, lo so da me…”

“Non fare così…” la voce di Marisa adesso era triste e supplichevole, ma io non ascoltavo niente altro che quel gelo che avevo dentro:
“Avevi ragione: Andrea stacci lontano. Solo che io le cose le capisco sempre un po’ in ritardo, comunque fa niente, ciao”.

“Non stare male, per piacere Federico… “, disse piano Marisa, ed io ti staccai la telefonata. Cominciai a correre verso casa, sempre con quel gelo che mi martellava dentro e che soffocava a poco a poco tutto:  la festa di Marisa e i giorni che erano seguiti, i giri per la città, i baci, la magia, l’incanto, l’amore (gli avevo donato anche la mia verginità): chiuso, sepolto, fine. Andassero a ramengo  tutti quanti,  coi loro problemi, le loro infanzie tristi, i loro tarli. Da quella nebbia gelida emerse per un attimo la faccia di Marisa (Quando si sono separati pensavano di crearmi un trauma: ormai  mi facevano solo ridere”), poi quella di Andrea “… Immaginavo sempre che mia madre fosse  nell’altra stanza e che bastasse chiamare…”), ma adesso io ne avevo abbastanza di fare il buon pastore.

A casa avevo cercato di guadagnare la mia stanza senza salutare nessuno, ma la zia Gianna era come al solito sbucata dal nulla e mi aveva guardato storto: figurarsi nulla sfugge ai generali.

“Cosa hai?, aveva domandato sgarbatamente.

“Niente, perché?”, avevo risposto altrettanto sgarbatamente.. La zia mi aveva scrutato più attentamente. I vecchi occhi erano buoni e tristi adesso: “Ti è arrivata la botta eh?”, e di colpo io avevo sentito tutto quel gelo pungermi dentro. E mi ero ritrovato con la faccia piena di lacrime a gridare che sì, la botta era arrivata e che aveva avuto ragione con tutti i suoi mugugni, era contenta adesso?

“No non sono contenta”. Avrebbe dato qualsiasi cosa perché io non soffrissi in quel modo cattivo e disperato, ma non poteva far niente, nonostante il bene che mi voleva. Poteva solo star li a guardarmi piangere, a cercarsi parole dentro che non trovava e a sentirsi un  vecchio generale inutile: “Non fare così, niente è mai brutto come sembra”. Mormorò dopo un attimo, ma io avevo già chiuso la porta della camera.

Tutto continuò come prima in superficie: casa, scuola, studio. Marisa veniva ogni giorno, aveva anche cercato di dirmi qualcosa, ma di fronte alla mia faccia chiusa aveva rinunciato con un breve sospiro di impotenza. Poi erano venuti gli ultimi giorni di scuola, la maturità, le notti sui libri, lo scoraggiamento e la speranza, poi ancora la promozione, le vacanze, l’università e quella cosa seppellita in qualche posto dentro di me, che di tanto in tanto riaffiorava, crudele e dolce e mai dimenticata.

Un pomeriggio, mentre uscivamo da lezione, Marisa senza guardarmi in faccia, mi disse.

“Andrea è tornato”. La nebbia fitta sfumava i contorni delle cose e io avevo sentito tornare da lontano quel vecchio incantesimo, ma mi ero affrettato a ricacciarlo via.

“Vorrebbe vederti”. Ah sì? Ma guarda… uno va e viene, poi fa un fischio e lo stupido corre: stava fresco.

“Perché?”, domandai nero. “E’ rimasto a corto di conquiste? O i suoi tarli cercano compagnia?”

“Io non so niente. E’ arrivato ieri sera come un matto e mi ha detto che ti aspetta alle sette in cremeria. Io l’ambasciata l’ho fatta, adesso veditela  un po’ tu”.

Non dicemmo più niente per tutta la strada, ma nella mia testa i pensieri erano diventati la solita girandola. Mi immaginavo l’incontro: lui che cercava di abbindolarmi di nuovo, io bello freddo e lontano… ora ti sistemo io,  Casanova dei miei stivali. Così quando Marisa, prima di salutarmi, mi domandò con una strana voce spaventata “Ci vai?” alzai la testa e dissi bellicosamente: “Certo che ci vado”.

Passai le ore che seguirono in frenetici preparativi: bagno coi sali profumati e vestito bene. La zia Gianna mi guardava tra lo schifato e il compassionevole, ma io non ci badai, i generali disapprovano sempre tutto. Quando fui pronto tutto effervescente e profumato mi avvicinai con passo fermo verso la porta.

“Esco”, annuncio in modo mondano.

“Salutami i tarli”, rispose la zia Gianna dal salotto.

Per la strada l’effervescenza cominciò man mano a sfumare e quando spinsi la porta a vetri della cremeria si era ridotta a quattro misere bollicine che mi ballavano davanti agli occhi: nonostante questo lo vidi subito, seduto nel vecchio angolo in fondo al locale. La faccia era la stessa, magra e col sorriso di traverso, solo più tirata e stanca. “Anche questa fa parte della messinscena”, pensò la mia parte battagliera, ma  l’altra parte si sentiva le gambe molli e il fiato mozzo. Raccogliendo gli ultimi brandelli del mio personaggio fatale, gli sedetti davanti disinvolto e gli sparai in faccia un sorriso da pubblicità di dentifricio: “Come va?”, domandai sentendomi il re degli stupidi.

Lui non parlò: giocherellava col portacenere e non mi guardava. Allora sentii spezzarsi qualcosa dentro  e mi venne su un groviglio di dolore, di furore e di lacrime: “Potresti anche parlare!”, esplosi  furibondo. Sono venuto apposta per vedere la commedia. Su avanti fammi vedere il ragazzo infelice e bisognoso di aiuto: lo spettacolo è stato perfetto e merita un bis. Ma io non sono più cretino come allora, sai. Se pensi di impegolarmi di nuovo per otto giorni e poi lasciarmi un anno, mentre tu te ne vai chissà dove con tutti i tuoi amori”.  E dopo un po’ il gelo si era sciolto: le cose sepolte tornavano a dolere tutte insieme, e io avevo le lacrime che mi scorrevano per la faccia. Andrea inghiottì a fatica e poi mi guardò: “Ho dato tutti gli esami”, disse piano. “Mi manca solo la tesi”, lo fissai io impietrito.

“Perché non me lo hai detto?”, riuscii a mormorare dopo un po’.

“Gridavi troppo forte”, rispose lui con una parvenza di sorriso sulla faccia magra.

“Volevo dire, perché non me lo hai fatto sapere in tutto questo tempo… io ho pensato delle cose orribili su di te…”.

“Non potevo. Vedi Federico, lo so che è una cosa difficile da spiegare, ma in quella settimana dopo la festa, quando stavo con te e mi sentivo vivo ed era la prima volta, io pensavo che non ero mai riuscito a far niente di buono nella mia vita, avevo passato il tempo a crogiolarmi coi miei tarli e a fare il ragazzo sbagliato. E allora ho capito che non potevo andare avanti così: dovevo fare qualcosa e farlo da solo, soltanto dopo avrei potuto cercarti e dirti che ero un uomo e non un pagliaccio. Così sono andato via da qui, ho studiato come un dannato, ho steso professori e assistenti. Non sono migliorato molto dentro, ma questo sono riuscito a farlo, anche se ti ho fatto star male, si ho rischiato di perderti. Ti ho perso Federico?”

Io adesso piangevo piano sul gelo cattivo di quel lungo periodo, sulle parole che mi aveva detto, su quel ragazzo malato dentro che aveva mosso i suoi primi doloroso passi per diventare un uomo. Piangevo e facevo no con la testa. No non mi aveva perso e forse anche io, senza che lo sapessi, quel lungo buio periodo era servito per diventare uomo.

“Marisa lo sapeva?”, chiesi dopo un po’, finendo di soffiarmi il naso.

“Gliel’ho detto ieri sera. Forse aveva capito che c’era qualcosa di diverso, ma non ci sperava molto neanche lei. Deve avermi creduto in giro per il mondo a fare il bel tenebroso con i miei amori e con i miei tarli”.

“Andrea, stacci lontano”, mormorai teneramente. Le luci fredde del bar riflettevano il vecchio incantesimo, il gelo cattivo dei giorni in cui eravamo stati lontani, insieme con l’amore, la fatica e gli sbagli della nostra strada futura. La faccia magra e nota era dolce e vicinissima adesso: “Era ora di cambiare solfa, prova un po’ a dire: Andrea, dammi un bacio…”







Basta, con questo racconto concludo, si parte per le vancaze. Ci sentiamo fra un mese.

Buone vacanze a tutti.

 
 
 
 

 

   
 
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