Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Beauty    01/08/2016    1 recensioni
Storia liberamente ispirata al mistero di Anastasia Romanov (e al film del 1956 che ne ha tratto ispirazione) e alla commedia "Pygmalion" di George Bernard Shaw.
Londra, 1874. Nel quartiere altolocato di Myfair, durante una nottata piovosa, un duca e la sua famiglia, insieme a tutta la servitù, vengono uccisi da una mano che sembra destinata a rimanere sconosciuta. Ma fra i corpi straziati, uno è scomparso: quello della duchessina Victoria Kingsley, di soli sette anni.
Quindici anni dopo, Anna Brown è una ragazza che conduce un'esistenza di stenti nel quartiere malfamato di Whitechapel. Cresciuta in orfanotrofio, non sa chi siano i suoi genitori. Volgare, poco raffinata, ha un carattere testardo che spesso le si rivolta contro. Il suo sogno è quello di diventare cameriera in una casa aristocratica e avere così una vita migliore.
Etienne Hargreaves è appena tornato dalla Virginia a Londra dopo dieci anni di assenza, dieci anni in cui ha combattuto contro le scelte sbagliate che lo hanno allontanato dalla sua famiglia. Ha bisogno di soldi, e ne ha bisogno alla svelta.
E quale modo migliore di fare soldi facili se non spacciare una sconosciuta qualunque per la duchessa scomparsa quindici anni prima?
Genere: Commedia, Drammatico, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: L'Ottocento, Età vittoriana/Inghilterra
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Capitolo I
 
Whitechapel's Sad Lullaby
Quindici anni dopo
 
 
 
There are moments that the words don't reach
There is a grace too powerful to name
We push away what we can never understand
We push away the unimaginable”
 
[It's quiet uptown, dal musical Hamilton]
 
 
 
Londra, 3 settembre 1889

 

               I primi raggi di sole si stagliavano all'orizzonte, tingendo i tetti delle palazzine di St. Katherine Dock di un'aura rosastra che tuttavia faticava a emergere a causa della coltre di nubi che sovrastava Londra. La notte precedente aveva piovuto a dirotto, e le strade e i marciapiedi che costeggiavano i docks erano più sudici a causa dell'amalgama dell'acqua piovana con la spazzatura, i residui di alghe e le carcasse di pesce abbandonate agli angoli.
I docks erano già svegli sebbene fossero solo le cinque del mattino. Le acque del Tamigi erano scure a causa dell'acquazzone, ma la corrente scorreva tranquilla, e alcuni pescatori e marinai stavano iniziando a sciogliere i nodi che tenevano ancorate le loro barche al porto. Uno di loro bestemmiò sonoramente a causa di un nodo più ostico degli altri, salvo poi aprirsi in un ghigno quando sollevò lo sguardo e incrociò la figura che stava passando di fronte a lui in quel momento.
Si portò due dita callose e sporche fra le labbra, e fischiò.
Anna Brown volse istintivamente lo sguardo nella direzione da cui era provenuto quel suono acuto, smettendo di camminare. Inarcò un sopracciglio.
- Cosa?- borbottò, accigliata.
Il marinaio ghignò. Era un uomo di mezza età, tozzo e dalle spalle ricurve, con due grosse basette grigie che gli ricoprivano le guance, gli occhi infossati e acquosi e una fila di denti nerastri. Anna era lontana da lui di un paio di metri, ma sin da lì le giungeva il puzzo di tabacco che il marinaio emanava. Il naso rubizzo rivelava un'eccessiva familiarità con il rum.
Se avesse avuto un penny, Anna sarebbe stata pronta a scommetterlo sul fatto che quell'uomo si sarebbe ritrovato in una bara nel giro di cinque anni per essersi fottuto il fegato.
- Quanto vuoi?- il marinaio ammiccò.
- Vaffanculo!- la ragazza si strinse nel cappotto e riprese a camminare, a passo più spedito di prima. Il marinaio rise.
- Ehi, solo un pompino! Ho cinque sterline con me, bastano?
- Va' all'Inferno, testa di cazzo!
L'uomo fece un'altra risata sguaiata, a cui si unirono altri tre o quattro suoi compari. Tutti cominciarono a urlarle dietro offrendo una cifra che andava dalle cinque alle dieci sterline per un lavoro di bocca. Anna serrò le mascelle e digrignò i denti; sentì che il collo e le orecchie le stavano andando a fuoco. Accelerò ulteriormente il passo fino a che non udì più il vociare del gruppo alle sue spalle, e solo allora si decise a riprendere un'andatura normale.
Decise di allontanarsi dalla riva del Tamigi; proseguì per un altro paio di metri, quindi svoltò a destra, in un viottolo che dava sempre sul fiume, ma privo di barche e più illuminato.
Soffiava un vento gelido e umido, di quelli che ti penetrano nelle ossa fino a farti dolere le membra per i reumatismi. Aveva cessato di piovere solo da un paio d'ore quando era uscita di casa, ma sebbene il mattino promettesse bene, presto il cielo era stato ricoperto da uno strato di nuvole color del ferro. Anna pensò che entro mezzogiorno sarebbe scoppiato un altro temporale.
Una folata di aria le fece appiattire l'orlo della gonna contro i polpacci magri. Anna rabbrividì e si sistemò il colletto del cappotto in modo da coprire la gola. Mise le mani intirizzite e arrossate in tasca.
L'estate stava terminando e presto l'autunno sarebbe giunto a bussare alle porte di Whitechapel; Anna si appuntò mentalmente di mettere da parte qualche penny per comprarsi un paio di guanti di lana, e magari un paio di calze che non fossero bucherellate.
Sospirò. Si stava pentendo di aver speso quegli ultimi due pennies che le erano rimasti in tasca per pagare il biglietto dell'omnibus.
La pioggia cadeva su Londra quasi ogni giorno, ma quell'anno la bella stagione si era rivelata mite e le rare giornate in cui il cielo piangeva, cadeva una pioggerellina talmente fine e leggera che Anna non aveva mai avuto problemi a percorrere il tragitto che separava il suo appartamento in Christ Church dai docks di St. Katherine Dock a piedi. Ma già nei giorni appena successivi all'Assunzione della Vergine Maria il maltempo aveva ricominciato a prendere il sopravvento sul clima soleggiato, e l'omnibus era stata la scelta obbligata per molti, se non volevano ammalarsi.
L'inverno precedente, Anna aveva preso una brutta influenza che le aveva impedito di lavorare per giorni; aveva avuto la febbre alta ma, come ripeteva sempre la signora Reeve, lei aveva la pellaccia dura come quella di un coccodrillo. Anna non aveva mai visto un coccodrillo né toccato la sua pelle – ed era certa che neanche la signora Reeve ne sapesse poi molto in materia –, ma la direttrice del St. Mary aveva ragione: lei aveva la pelle dura.
Anche quando all'orfanotrofio era scoppiata l'epidemia di tifo, lei era stata una delle poche bambine che non si erano ammalate. Alcune ragazzine – fra cui anche la sua vicina di sedia alle lezioni di cucito, una bimbetta rachitica e mezza gobba di nome Berenice – erano morte di tubercolosi prima di compiere nove anni. Lei, invece, aveva sempre potuto vantare degli ottimi polmoni; doveva ammettere di non avere molta resistenza – quando correva o camminava troppo velocemente era costretta a fermarsi dopo poco per riprendere fiato, e a fine giornata si sentiva sempre un po' stanca e talvolta lievemente stordita –, ma era raro che si ammalasse o si buscasse un raffreddore.
Ma un'influenza non era roba da prendere sottogamba, soprattutto perché ti teneva inchiodata al letto per giorni: l'infreddatura che aveva preso l'inverno precedente le era costato il suo posto da cameriera al The Ten Bells, che era uno schifo di pub che dopo quella brutta faccenda dello Squartatore non avrebbe potuto fare altro che degradare sempre di più, ma la paga era superiore a quella che prendeva come operaia, e poi era appena sotto casa sua.
Non c'era stato verso di convincere il padrone del locale a essere comprensivo; la loro ultima conversazione, prima che la cacciasse definitivamente dal pub, era stata così accesa e carica di strilli e urla e insulti rivolti alle rispettive madri che Anna ancora si stupiva del proprio autocontrollo: era riuscita a non rompergli il grugno.
“Lavoro qui da due anni e mezzo, e questa è la prima volta che mi prendo una settimana per malattia, faccia di merda!”
“Vuol dire che da oggi in avanti avrai tutto il tempo del mondo per startene a letto, troia!”
E così era finita.
Anna in un certo senso capiva il padrone del The Ten Bells: nessuno voleva una ragazza malata. Ma lei non era quasi mai malata, e ora che aveva imparato la lezione preferiva perdere qualche penny in più per tenersi stretto un lavoro.
Anche se questo significava sbattere la porta in faccia al padrone di casa ogni sera.
Così, quella mattina aveva speso ben due pennies per prendere l'omnibus: la corsa delle quattro del mattino era scontata a metà prezzo, per questo si era potuta permettere quel viaggio. Inutile dirlo, era stato uno strazio come al solito: Christ Church distava da St. Katherine Dock di una buona mezz'ora in omnibus, e per tutto il tragitto Anna era rimasta incastrata fra ubriachi di ritorno da una notte di baldoria, massaie che andavano a vendere frutta e verdura al mercato e qualche altro operaio come lei; per un attimo le era anche parso d'intravedere quella gran baldracca di Sally Jenkins seduta su una delle panche poco più in là, ma per fortuna di entrambe era solo una ragazza che le somigliava.
Anna fece una smorfia: quei due pennies erano gli ultimi che le erano rimasti in tasca. Se il caporeparto non avesse dato lo stipendio alle operaie, quel giorno, sarebbe veramente stata fottuta.
Proseguì a passo spedito, insinuandosi fra le persone che stavano cominciando ad affollare il mercato del pesce, fino a giungere all'area delle fabbriche.
Whitechapel era famosa per le puttane e le bettole, non certo per le fabbriche. I quartieri industriali si trovavano in una zona più centrale dell'East End, e i pochi stabilimenti erano ammassati vicino ai docks. I fumi delle ciminiere impestavano l'aria rendendola irrespirabile, le acque del Tamigi erano pregne degli scarichi delle fabbriche e i magazzini sfilavano muro contro muro in file squadrate.
La strada si allargava abbastanza da permettere il passaggio delle carrozze e dei carri nella zona industriale, anche se raramente ne passava qualcuna. Vedere una carrozza a Whitechapel era come mangiare una bistecca per due giorni filati: praticamente impossibile.
Anna ebbe la certezza di essere arrivata ancora prima d'intravedere la fabbrica: la fila delle operaie iniziava già quasi al confine con le ultime bancarelle del mercato del pesce, una folla di cuffiette bianche e nere. Anna si sistemò la propria, assicurandone i lacci sotto il mento. Raggiunse il gruppo delle donne, e si accodò a una di loro, Batsheva Hills, una delle più anziane: Anna andava abbastanza d'accordo con due delle sue figlie, Cecily e Lucy, anche se non poteva dire di aver legato veramente con qualcuno, là dentro.
Lavorava alla fabbrica di stivali da sei mesi, e non aveva avuto molta alternativa: era da otto settimane che era stata cacciata dal The Ten Bells, e nessuna delle governanti delle casa dei quartieri alti a cui aveva bussato aveva voluto assumerla come cameriera, né come sguattera – troppo vecchia e senza esperienza, dicevano tutte; qualcuna storceva il naso e aggiungeva che era decisamente troppo sudicia anche solo per mettere un piede in casa.
In fabbrica, invece, c'era sempre bisogno di manodopera, e lei era troppo in arretrato con l'affitto e piena di debiti per potersi permettere di rifiutare.
Non c'era bisogno di dire che facesse tutto schifo, dagli orari di lavoro, alla paga – quando avevano la fortuna di riceverla –, alle altre disgraziate che lavoravano là dentro con lei.
Quasi a darle ragione, alle sue spalle qualcuno soffocò un risolino. Anna si voltò: Sally Jenkins stava bisbigliando qualcosa all'orecchio di una comare.
Anna non fece in tempo a rimbrottarla e chiederle che cazzo avesse da ridere alle sue spalle, perché un rumore di ruote sull'asfalto distrasse tutte le operaie. Il vociare sommesso delle donne si affievolì a mano a mano che lo scricchiolio del legno si avvicinava a loro, e tutte ammutolirono quando videro che non era un semplice carretto che si stava avvicinando.
Per molte di loro, quella era la prima volta in assoluto che vedevano una carrozza privata, e forse sarebbe stata anche l'ultima.
Anna ne aveva vista una solo una volta, quando aveva otto anni: la signorina Lambert, che ogni sera faceva il giro dei dormitori per controllare che tutte le ragazze fossero nei loro letti, e che la domenica mattina leggeva sempre passi della Bibbia tratti dal Vangelo di Matteo, si era sposata, e il reverendo Carruthers, suo marito, era venuto a prelevarla al St. Mary a bordo di una spyder che aveva certamente conosciuto giorni migliori, ma che all'epoca aveva catturato l'attenzione di tutte le ospiti dell'istituto.
Le bambine più piccole avevano salutato la signorina Lambert dalle finestre dell'edificio, agitando le mani e augurando tanta felicità alla novella sposa, come aveva raccomandato di fare la signora Reeve, ma nel momento in cui la scalcinata spyder aveva fatto il suo ingresso nel cortile, le voci e i gridolini delle bambine si erano chetate di colpo. Anna stessa ricordava di aver esaminato quella carrozza con i palmi e il naso premuti contro i vetri della finestra, e che una delle ragazze più grandi, Penny Jackson, aveva detto che quella strana cosa era quanto di più bello avesse mai visto.
Anna si era sentita un po' sconcertata da quell'affermazione, ed era stato a quel punto che si era accorta che qualcosa non quadrava: tutte le altre manifestavano una vera e propria meraviglia di fronte a quella carrozza, come se avessero assistito in persona alla scena di Gesù Cristo che resuscitava Lazzaro. Più tardi, a cena, era capitata in mezzo a un gruppetto che non aveva fatto altro che chiedersi come fosse fatto l'interno della spyder e come sarebbe stato bello farci un giro.
Ed era stato a quel punto che era successo di nuovo.
Anna aveva smesso di mangiare e aveva iniziato a immaginare il tocco del velluto dei sedili sotto le sue dita, il lieve sobbalzare dell'abitacolo e una brezza primaverile che entrava dal finestrino.
A interrompere il suo sogno ad occhi aperti ci avevano pensato la signora Reeve e la sua bacchetta di legno di ciliegio.
Molte delle operaie avevano l'espressione trasognata di chi era nato nella miseria e si sarebbe venduto la madre per trascorrere una sola giornata nell'alta società. Anna cercò di controllare i propri muscoli facciali per non assumere la loro stessa aria ebete.
La carrozza era un Clarence di colore blu scuro, con piccoli intarsi dorati all'altezza delle giunture della portiera, intorno alle ruote e agli angoli dell'abitacolo. Alcuni nastri assicurati alle maniglie e al tettuccio erano caratteristici di un lutto. Lo stesso cocchiere, seduto a cassetta, indossava una divisa da lavoro nera con un nastro dello stesso colore annodato intorno all'avambraccio destro, e i due bai che trainavano il Clarence recavano bardature e pennacchi neri.
Le tendine della carrozza erano accostate in modo che nessuno potesse sbirciare all'interno dai finestrini.
Alcune operaie si fecero il segno della croce. Anna si sarebbe aspettata che il Clarence – qualsiasi cosa ci facesse una carrozza del genere in un quartiere come Whitechapel – tirasse dritto e si lasciasse la folla delle donne alle spalle, ma così non fu. Vide il cocchiere tirare le briglie e i cavalli nitrire infastiditi mentre rallentavano proprio in prossimità della fabbrica.
Sally Jenkins si portò le mani al volto e spalancò la bocca quando il Clarence si fermò proprio di fronte a lei. Anna sperò con tutto il cuore che chiunque si trovasse al suo interno spalancasse la portiera così all'improvviso e così forte da sbatterla in faccia a quella puttana e romperle il naso, ma il proprietario aveva altre idee – purtroppo.
Le tendine del finestrino vennero scostate, rivelando chi vi si celava dietro.
Un giovane uomo sui trentacinque anni si portò una mano al cilindro in segno di saluto, mentre accennava a un sorriso di cortesia. Anch'egli era palesemente vestito a lutto, con il completo e il cappello neri, ugualmente ai guanti. Anna non era capitata abbastanza vicina alla carrozza come era accaduto a Sally, ma dalla posizione in cui si trovava riusciva chiaramente a osservare i tratti dell'uomo: non poteva avere meno di trentacinque anni, ma a un'occhiata meno attenta e magari in abiti più allegri sarebbe potuto passare per molto più giovane; aveva un volto pulito e gentile, dai tratti armoniosi e morbidi, un volto decisamente affascinante, soprattutto se paragonato a quelli paonazzi, bruciati dal sole e pustolosi degli uomini che s'incrociavano a ogni angolo di Whitechapel. Il cilindro ne nascondeva i capelli, ma era comunque possibile intravedere delle basette color castano chiaro.
Quando il suo sorriso si fece più ampio e aperto, Anna poté dire con certezza che si trattava di un uomo veramente molto bello.
- Domando perdono, signore - esordì, un po' timidamente.- Temo che ci siamo persi. Qualcuna di voi sarebbe così cortese da indicarci...- anche se era lontana, Anna poté vedere che le guance del giovanotto erano diventate del colore di un pomodoro maturo.- ...l'indirizzo della casa di piacere della signora Crawley?
Si levarono alcune risatine di scherno senza che nessuno si preoccupasse di nascondere l'ilarità. Anna sollevò un angolo della bocca in un sorrisino sghembo: non sapeva se essere più divertita al pensiero che in un giorno che doveva essere palesemente dedicato alla morte di una persona quel giovanotto avesse voglia di andare a prostitute, o che avesse voglia di farlo a neanche le sei del mattino.
Le risate continuarono per un'altra manciata di secondi, e il rossore sul volto del giovane signore si fece più evidente. Abbozzò un sorriso tirato e imbarazzato, e ripeté gentilmente la richiesta. Dopo un po', Anna fu certa che stesse per fare un cenno al cocchiere perché proseguisse, ma una delle operaie, Frances Campbell, prese a gesticolare e a strillare indicazioni. Altre tre o quattro si unirono a lei, e in capo a un paio di minuti il giovane dovette aver chiaro tutto il percorso, perché si profuse in ringraziamenti, ordinò al cocchiere di ripartire e tirò di nuovo le tendine.
Qualcuna delle operaie fischiò e gridò oscenità in direzione della carrozza, ma dopo che essa si fu districata dalla folla di donne riprese ad avanzare speditamente, e in poco tempo scomparve dietro alla fila di palazzine.
L'ilarità e il vociare non si estinsero subito, ma sconcerie e commenti poco casti proseguirono fino a che il caporeparto non aprì i battenti della fabbrica, e le operaie iniziarono a sciamare all'interno della costruzione.
Anna si unì silenziosamente allo sciame di api, e per tutta la giornata non pensò più né al Clarence né al giovane uomo.
 
***
 
Matthew Finch provò un istintivo sollievo nel momento in cui accostò le tendine della carrozza e il signor Wellington, il cocchiere, spronò i bai. Tirò un lungo sospiro e si abbandonò contro il sedile foderato di velluto marrone. Sentì che il rossore sulle sue guance non era ancora diminuito; provò a respirare a fondo con descrizione e si portò due dita all'altezza del colletto, allentando un poco il nodo Ascot della cravatta che Juliet quella mattina si era tanto data la pena di annodare.
Rivolse un sorriso discreto alla persona seduta di fronte a lui.
- Credo che finalmente ci siamo - disse, indeciso sul tono da utilizzare: la buona notizia avrebbe voluto un timbro allegro e gioviale, ma le circostanze e soprattutto il perché fossero persi nei meandri dell'East End e chi stessero cercando avrebbero reso qualsiasi accenno di ilarità offensivo e un tantino ridicolo.- Non è lontano da qui. Sono certo che fra meno di dieci minuti saremo a destinazione.
La donna seduta di fronte a lui annuì, ma Matthew la sentì sospirare impercettibilmente.
Non ritenne opportuno aggiungere altro – anche perché che cosa ci sarebbe stato da dire? – e si limitò a osservarla di sottecchi.
La signora Griselda Hargreaves era abbigliata come la sua condizione di vedova dettava: il lungo abito dalla gonna ampia era molto semplice, dal momento che recava solo alcuni sobri nastri cuciti appena sopra l'orlo, le maniche lunghe e a sbuffo e il corsetto fasciante erano tinti di nero come il resto del vestito. La vedova Hargreaves indossava un cappellino nero dal quale scendeva un lungo velo di pizzo dello stesso colore, che oltre a coprirle il viso quasi si confondeva con la chioma naturalmente corvina della donna, per quell'occasione fermata in un'acconciatura alta e priva di ornamenti. I guanti di seta le coprivano le mani esili che si attorcigliavano intorno a un fazzoletto di seta.
- Vi ringrazio per essere venuto, signor Finch - mormorò, a voce così bassa che Matthew stentò a comprenderla.- Non sto parlando del funerale - precisò un attimo dopo, guardandolo negli occhi.- Non solo di quello, perlomeno.
Matthew si perse un attimo nello sguardo di Griselda: la vedova Hargreaves aveva degli occhi scuri e penetranti, tanto che a volte sembravano scandagliarti l'anima. Erano uguali a quelli dei suoi tre figli, anche se soltanto il primogenito ne possedeva la stessa intensità. Matthew si stupì di quanto risultassero forti e decisi nonostante la perdita che aveva appena subito: Griselda aveva le occhiaie di chi ha sparso molte lacrime prima di riuscire a riacquistare un briciolo di contegno e compostezza, ma i suoi occhi ora erano tornati a essere asciutti e determinati come li aveva sempre conosciuti.
Le sorrise.
- Dovere. Non mi permetterei mai di lasciare che una signora non accompagnata si avventuri in questi quartieri di quart'ordine. Nel mio lavoro sento in continuazione di nefandezze di ogni genere avvenute soprattutto qui a Whitechapel. Vi basti pensare a ciò che è accaduto nell'estate dell'anno scorso.
- In effetti, devo ammettere che essere in vostra compagnia mi fa sentire più tranquilla - la signora Hargreaves si sistemò una piega della gonna.- Ma non è solo per questo. Sin da quando era bambino, voi siete sempre stata l'unica persona la cui opinione Etienne considerasse importante.
- Sono lusingato, signora Hargreaves, ma se così fosse a quest'ora vostro figlio sarebbe un onesto curato di campagna come gli ho sempre consigliato - Matthew accennò una risatina, e Griselda sorrise alla battuta. Quel debole accenno di serenità fu in grado di alleggerire il cuore del giovane uomo; sì, aveva parlato per scherzo...ma in alcuni momenti – ad esempio quello corrente – desiderava davvero che il suo amico venisse colto da un impeto di follia e prendesse i voti chiudendosi per sempre in una canonica e smettendola di procurare crepacuori alla madre.
Matthew Finch si era più volte trovato a riprendere Etienne per il suo comportamento. Non c'era bisogno di dire che lui non l'aveva ascoltato, anzi, più di una volta Matthew si era sentito mandare calorosamente all'Inferno; non era tanto lo stile di vita di Etienne che lo innervosiva – anche lui aveva commesso i suoi errori e, come recitava la Sacra Bibbia, chi è senza colpa scagli la prima pietra –, quanto piuttosto il fatto che i colpi di testa del figlio preoccupassero in maniera smisurata la madre.
Matthew aveva perduto i genitori all'età di undici anni, e sebbene il suo tutore si fosse rivelato un uomo onesto e affettuoso, e il signore e la signora Finch non avessero mancato di lasciare una generosa eredità all'unico figlio, questi aveva sempre riversato l'affetto che si rivolge a una madre sulla signora Hargreaves.
Il nome da nubile di Griselda era mademoiselle Griselda Elodie Marie Antoinette Louise Thérèse De Barbarac. Sebbene parlasse inglese con la stessa cura e fluenza di una maestra di dizione, di tanto in tanto nella sua voce trasparivano ancora residui dell'accento francese che era stata abituata a parlaare sino all'età di sedici anni.
La famiglia dell'ora vedova Hargreaves aveva avuto la sua brava dose di sventure: il bisnonno della donna era scampato con la moglie e i figli poco più che infanti alla ghigliottina all'epoca del Terrore di Robespierre, ma si era visto sequestrare tutti i suoi beni. Fuggiti da Parigi, i De Barbarac avevano gradualmente ricostruito il loro patrimonio, tanto che monsieur De Barbarac, il padre di Griselda, nel 1850, poteva vantarsi di essere un ricco bottaio di provincia.
Un anno dopo, le sorti della famiglia De Barbarac vennero ribaltate nuovamente, non a causa della politica, bensì del vizio che il capofamiglia aveva per il Bourdeaux e il gioco d'azzardo. Nessuno si era mai accorto di nulla, o se qualcuno se n'era accorto non aveva fatto nulla per fermarlo fino a che non era stato troppo tardi.
Era il 1851, Griselda aveva sedici anni e in quel periodo aveva intrapreso il suo primo viaggio a Londra, con la scusa della Grande Esposizione. Stando a quanto Matthew aveva potuto comprendere, era ospite di una lontana e anziana zia e parlava un inglese stentatissimo, quando aveva ricevuto una lettera dalla Francia che la informava che il padre si era suicidato per debiti, e che il suo intero patrimonio era andato perduto.
Il resto della storia apparteneva a un angolo remoto del cuore della donna, un angolo a cui forse solo il defunto marito aveva avuto accesso, perché tre mesi dopo, in tutta fretta e senza più parenti in vita né dote, Griselda aveva sposato il colonnello Hargreaves.
E ora, a distanza di quarant'anni, eccola lì, vestita a lutto, a seppellire l'ennesima persona cara.
Non parlarono per tutto il resto del breve tragitto. Matthew ancora una volta si sentì sollevato, quando trovarono il posto. Il cocchiere accostò, e scese per aprire la portiera ai signori.
Matthew si aggiustò velocemente la cravatta e il cilindro.
- Vado io - annunciò alla signora Hargreaves.- Non c'è bisogno che veniate anche voi. Vedrete che farò in un attimo.
Griselda gli rivolse un sorriso grato. Era chiaro come il sole che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di evitare di entrare in quel posto.
- Siete certo che si trovi qui, signor Finch?- gli aveva posto la medesima domanda per tre volte quella mattina. Matthew le regalò uno sguardo rassicurante.
- Conosco Etienne. Non può essere in altro luogo.
- Almeno questa volta non si tratta di una fumeria...- mormorò Griselda.
Matthew scese dalla carrozza.
La casa di piacere della signora Crowley appariva già dall'esterno decisamente diversa dal tipo di bordelli che si potevano trovare in media a Whitechapel, segno che Etienne non aveva smentito né la propria intelligenza né i propri gusti.
L'edificio era di mattoni rossi, e il fatto che si trovasse leggeremente lontano dalla zona industriale aveva fatto sì che le sue pareti non si annerissero a causa del fumo delle ciminiere. Alte finestre ricoprivano la facciata frontale, anche se vedere oltre di esse era impossibile a causa delle pesanti tende rosse che impedivano la vista. Una scalinata in marmo bianco dava accesso alla porta dello stesso colore, sovrastata da delle finte colonne infisse nel muro che scimmiottavano lo stile neoclassico.
Matthew sapeva che non avrebbe dovuto essere imbarazzato. Era pur sempre un uomo, e quando lui ed Etienne erano studenti a Oxford spesso si erano lasciati trascinare nelle case di piacere della città da studenti più vecchi. Se doveva essere sincero, Matthew aveva posto la parola fine alle sue visite nei postriboli quando si era fidanzato; ma questo non giustificava il suo senso di vergogna.
Quattro anni prima, quando ancora lavorava per il Pall Mall Gazette, aveva aiutato il signor W. T. Stead a raccogliere informazioni per scrivere il suo articolo Maiden Tribute of Modern Babylon, e ciò che aveva visto nella casa di piacere della signora Jeffries sarebbe dovuto bastargli per tutta la vita ed essere sufficiente a non farlo sentire più a disagio di fronte a nulla. E il postribolo della signora Crawley aveva l'aria di essere di gran lunga meno perverso rispetto a quello della signora Jeffries.
Ma si sentì avvampare di nuovo non appena gli venne aperta la porta e fu fatto entrare nell'atrio.
Tre donnine incipriate gli svolazzarono intorno per due minuti buoni, prima che Matthew avesse l'onore di incontrare la padrona di casa. Erano ragazze giovani, la cui età spaziava dai venti ai ventotto anni, con addosso trucco pesante e marcato, i capelli fermati in acconciature tanto elaborate quanto disordinate, e vestiti succinti dalle ampie scollature. Due di loro portavano le gonne così sollevate da lasciare vedere chiaramente le caviglie e i polpacci fasciati da calze trasparenti e giarrettiere, e tutte e tre emanavano un profumo così inebriante e forte da stordirlo. Una delle ragazze gli avvolse le braccia intorno al collo, e le altre due continuarono a strusciarsi contro di lui chiedendogli se cercasse compagnia ed elencando ognuna le proprie migliori qualità.
Matthew rimase rigido e paonazzo in volto per tutto il tempo, cercando di pronunciare di tanto in tanto qualche gentile parola di rifiuto.
Alla fine, le sue preghiere vennero esaudite, e fece il suo ingresso nella stanza quella che identificò come la proprietaria del bordello, la signora Crawley.
- Buongiorno, milord - Matthew stava per replicare che non era un lord, ma se ne stette zitto; sospettava che fosse il modo in cui là dentro si rivolgevano a qualunque cliente.- Posso aiutarvi in qualche modo? Di solito non riceviamo ospiti così presto la mattina, ma sono certa che troverò qualche ragazza che sia presentabile e corrisponda ai vostri desideri.
La signora Crawley era una donna che superava di poco la quarantina, agghindata in un abito rosso e con una piuma fra i capelli, certamente una ex prostituta che sapeva come trattare con i clienti. Matthew scivolò discretamente via dalle attenzioni delle tre ragazze che gli cinguettavano attorno, e fece un inchino impacciato.
- A dire il vero, signora, non sono venuto qui per...ehm...- non terminò la frase, preferendo passare oltre; nello sguardo della tenutaria passò una fugace ombra di disappunto.- Sto cercando un mio amico, e sono abbastanza certo di trovarlo qui. Si chiama Etienne Hargreaves.
- Oh, sì! Il signor Hargreaves, sì, è venuto qui la sera scorsa.
- E si trova ancora qui?
- Naturalmente. Posso portarvi da lui. Siete certo di non volervi unire al signor Hargreaves per un'ora o due? Sono sicura che sia lui sia le mie ragazze apprezzerebbero.
- Grazie dell'offerta, signora, ma è piuttosto urgente che io riporti a casa il mio amico.
Un'altra ombra di disappunto attraversò lo sguardo della signora Crawley, ma per sommo gaudio di Matthew non insistette ulteriormente. Lo invitò a seguirla, e lo condusse al piano di sopra.
I colori dominanti della casa di piacere erano il rosso e l'oro, e tutto era intriso di un'opulenza così ostentata da risultare volgare. Vasi di porcellana, monili, stoffe pregiate, erano ammassate in modo talmente casuale e manifesto che creavano un'accozzaglia indistinta di oggetti volti a fornire al luogo un falso senso di raffinatezza.
Il bordello della signora Crawley era frequentato da uomini dell'alta società che cercavano una breve via di fuga da una moglie rigida come un pezzo di legno, e che non volevano rischiare di prendere la gonorrea o la sifilide dalle prostitute di strada. Matthew ringraziò silenziosamente per la mancanza di anelli, catene e gatti a nove code.
La signora Crawley lo condusse di fronte a una porta scarlatta, all'interno della quale provenivano risatine femminili appena soffocate. La tenutaria bussò un paio di volte, ma non ebbe risposta.
Lo guardò come a scusarsi.
- Temo che il vostro amico sia impegnato. Forse potreste riprovare fra...
- Perdonatemi, signora, ma non posso proprio attendere - Matthew afferrò la maniglia della porta e la tirò verso il basso, quindi entrò senza fare troppi complimenti.
La stanza era grande, arredata come una camera matrimoniale: al centro di essa vi era un letto a baldacchino dalle tende rosse, dalle lenzuola completamente sfatte e abbandonate sul pavimento, insieme ad alcuni cuscini. Su un divano posto sul lato sinistro della camera era distesa una prostituta addormentata, completamente in biancheria intima e con il seno scoperto. Matthew distolse lo sguardo. Un'altra ragazza sonnecchiava sul tappeto persiano, grazie al cielo coperta da un lenzuolo, mentre sul letto c'erano tre persone: un'ennesima meretrice addormentata e con il trucco sbavato, e un'altra prostituta, intenta a intrattenere un giovane uomo.
Matthew non fu mai grato come in quel momento di essere arrivato appena prima dell'inevitabile. Se fosse entrato nella camera qualche minuto più tardi, si sarebbe trovato di fronte a una situazione che definire imbarazzante sarebbe stato un insulto all'imbarazzo stesso.
L'uomo indossava i pantaloni e aveva la camicia slacciata sul petto; dal modo in cui teneva la testa abbandonata contro il cuscino Matthew capì che doveva soffrire di una colossale emicrania dovuta al troppo vino. Eppure, era ancora abbastanza lucido da tenere le mani sulla schiena della prostituta che gli stava a cavalcioni e a lasciare che lei lo baciasse in un modo che Matthew non immaginava neanche di fare con Juliet.
- Hargreaves - chiamò, e la voce gli uscì più strascicata di quel che avrebbe voluto.- Hargreaves!
Il giovane uomo disteso sul letto ci impiegò diversi secondi prima di accorgersi che qualcuno lo stava chiamando. Mugolò qualcosa, e solo quando Matthew lo chiamò per la terza volta si decise ad abbandonare le labbra della prostituta e a guardarlo. Aveva lo sguardo lievemente perso nel vuoto, come se la vista fosse stata appannata.
La prostituta si tirò a sedere sul suo grembo, indispettita.
- Che c'è?- biascicò con la voce impastata.
Matthew pensò che stavolta doveva averci dato proprio dentro.
- Hargreaves - ripeté.- Hargreaves, dobbiamo andare. Il funerale è fra due ore...
- Cosa...come...il funerale?
- Il funerale, Hargreaves. Siete venuto dalla Virginia apposta per quello.
Etienne Hargreaves ci mise qualche secondo per rispondere, probabilmente aveva bisogno di elaborare quanto aveva appena sentito. Poi, si tirò su a sedere con la lentezza di chi aveva sulle spalle un macigno.
O aveva bevuto troppo la notte precedente.
- Ah, sì, giusto...il funerale, sì...- fece cenno alla prostituta di scendere dal suo grembo; quella ubbidì, un po' di malavoglia, e si accovacciò accanto a lui sul materasso.
- Vostra madre è furiosa, Hargreaves, meglio che vi sbrighiate...
- Ho capito, Finch! Non mi serve una stramaledetta bambinaia, potete pure considerarvi sollevato dall'incarico...- Etienne sbuffò, cercando di rimettersi in posizione semieretta.- Anzi, sapete che vi dico? Siete licenziato! Tornatevene pure al circo Barnum...
Matthew avrebbe voluto dare alla situazione la serietà che meritava, invece si ritrovò a sghignazzare alla battuta dell'amico. A volte gli sembrava di essere tornato indietro di quindici anni, quando lui ed Etienne condividevano la stanza del dormitorio di Oxford e non trascorreva sera in cui uno non dovesse correre a recuperare l'altro che si era ubriacato in qualche bettola. Matthew aveva preso poche sbronze in vita sua, e in quelle poche riusciva a malapena a capire cosa gli stesse succedendo intorno; Etienne invece aveva una certa familiarità con il whiskey e lo sherry, ma in compenso reggeva molto meglio di lui gli alcolici e conservava sempre una certa lucidità, almeno quel che bastava per mandarlo al diavolo ogni volta che lo riteneva opportuno.
Matthew si era sentito ripetere talmente tante volte frasi come “Toglietevi di torno, Finch!”, “Capisco che mi abbiate preso per una bella ragazza, ma starmi così attaccato mi pare eccessivo, vecchia ciabatta che non siete altro” oppure “Ne ho le tasche piene di voi e del vostro moralismo, andate a regalare le vostre perle di saggezza a qualche altro asino” che ormai non ci faceva neanche più caso.
La prostituta mugolò qualcosa in disapprovazione, ed Etienne per tutta risposta le si gettò addosso e la baciò sulle labbra.
- Tornerai a trovarmi, vero?- miagolò la donna.
- Certo che sì, detesto lasciare le conversazioni interessanti a metà...- Etienne ghignò.
- Hargreaves!
- Ho capito, dannazione!- Etienne si mise seduto sul letto, probabilmente con l'intenzione di scaricargli addosso una serie d'insulti; invece, si chinò in avanti e si prese la testa fra le mani. Si lasciò sfuggire un gemito soffocato.- Al diavolo quel fottuto bourbon...!- raschiò.
Matthew comprese che non si sarebbe mai tirato su da quel letto da solo – non tanto per mancanza di forze quanto di volontà. Lo raggiunse e gli scrollò con forza una spalla.
- Amico mio, se non vi date una sistemata immediatamente e non mi seguite fino alla carrozza, vostra madre non ve lo perdonerà mai...
- Siete venuti a prendermi in carrozza? Quale onore!- Etienne ghignò di nuovo.
- Hargreaves, vi prego...
- Va bene, va bene...
Matthew si tirò indietro di qualche passo.
Etienne si alzò dal materasso come se sulle spalle portasse un peso immane. Gli ci volle un bel po' prima di riuscire a reggersi sulle proprie gambe, e ancora di più per mettersi in posizione eretta. Continuava a passarsi una mano sul volto e a lamentarsi del mal di testa.
Matthew gli scoccò un'occhiata rassegnata: la camicia aperta sul petto era stroppicciata ed emanava puzzo di sherry e del profumo dolciastro tipico delle meretrici, i capelli neri – già folti e mossi – erano scompigliati e appiattiti tutti su un lato della faccia, in modo tale da rendere ancora più visibile la cicatrice che Etienne aveva marchiata sulla guancia sinistra.
- Ditemi che avete una giacca nera...- sospirò Matthew.
- Cosa? Io...sì, ce l'ho...deve essere...
- Qui!- Matthew recuperò la giacca dal tappeto. La meretrice che poco prima stava a cavalcioni del suo amico ora era seduta sul bordo del materasso, le guance gonfie in un'ostentata espressione di noia.
- Chi è morto?- domandò.
Etienne s'infilò la giacca e cercò di lisciarsi la camicia alla bell'e meglio. Matthew provò ad aggiustargli la cravatta, ma lui per primo era un disastro con quel genere di nodi.
- Siete impresentabile...- lo rimbrottò.
- Quando mai è stato il contrario?
- Muovetevi!- Matthew girò i tacchi e uscì dalla stanza a passo svelto.- E se fossi al vostro posto, spererei che nessuno si accorga di dove siete stato...
Etienne lo seguì barcollando un po'. Raggiunse la porta della stanza e si girò a guardare alle sue spalle: la prostituta gli lanciò un bacio a stampo. Etienne ricambiò facendole l'occhiolino, per poi sparire dietro la soglia.
Quando finalmente uscirono dalla casa di piacere della signora Crawley, inseguiti dai saluti melensi della tenutaria, non era ancora riuscito a rimettersi del tutto, e la sua lucidità mentale faticava a tornare. Matthew dovette dargli uno spintone perché riuscisse a montare in carrozza.
Etienne si lasciò cadere pesantemente sul sedile, di fatto ritrovandosi semisdraiato. Matthew lo seguì, quindi chiuse la portiera e ordinò a gran voce al cocchiere di condurli a destinazione, al numero 12 di Regent Street, Kensington.
Fu solo quando la carrozza prese a muoversi che Etienne, ancora semisdraiato sul sedile accanto all'amico Finch, sembrò accorgersi di una terza presenza all'interno dell'abitacolo.
- Buongiorno, madre...- biascicò con un sorrisino ebete, lievemente beffardo.- Sono sinceramente sorpreso che anche voi abbiate partecipato a questa missione di recupero...
- Taci, disgraziato - sibilò la vedova Hargreaves.- Mi vergogno di te...
- Non è una novità.
- Come hai potuto? Proprio oggi...
Matthew vide che gli occhi di Griselda si stavano gonfiando di lacrime, e pensò che fosse il caso di intervenire. Si sporse in avanti per stringere la mano della donna.
- Adesso è qui...- scoccò un'occhiata significativa a Etienne.- Sono certo che non voleva mancare di rispetto al signor Hargreaves...
- Sappiamo tutti che le vostre certezze finiscono inesorabilmente in merda, Finch.
Matthew finse di non aver sentito. Griselda non si mostrò scandalizzata da quella risposta, ma si tamponò gli occhi con il fazzoletto.
- Quando sei arrivato?
Etienne si sistemò meglio sul sedile, e non rispose.
- Ti ho fatto una domanda!
- Ieri mattina.
- E perché non sei venuto subito da noi?!- Griselda appariva veramente ferita.- Avresti almeno potuto farcelo sapere. Se non volevi parlare con me, potevi spedire un biglietto ad Amelia, o avvisare uno dei valletti.
- E a che scopo, se tanto ci saremmo rivisti tutti oggi per questa gradevole riunione di famiglia?- Etienne non sembrava neanche rendersi conto di dove stavano andando e di quanto il suo comportamento avesse ferito la madre. Griselda mormorò a bassa voce una preghiera, dopodiché volse lo sguardo verso il finestrino della carrozza e si rifiutò di scambiare un'altra parola con il figlio per tutta la durata del tragitto.
Matthew tentò di lanciare a Etienne sguardi di rimprovero, ma lui li ignorò delibaratamente.
Giunsero a Kensington che erano circa le otto del mattino, e fu allora che Etienne Hargreaves sembrò riacquistare un briciolo di interesse per la faccenda, o almeno di lucidità.
Si sedette propriamente sul sedile, e scostò le tendine.
Kensington era come se la ricordava, salvo per alcuni dettagli. Dal momento che era mattino presto non c'era quasi nessuno per le strade, ed Etienne poté esaminare a proprio piacimento la sfilata di abitazioni che gli si presentava di fronte. Erano tutte ville appartenenti a persone che un tempo conosceva bene, ma ora riusciva a ricordare solo pochi volti legati a quei luoghi. Gli vennero in mente alcuni nomi di persone con cui era stato in confidenza, e dovette trattenersi dal chiedere loro notizie alla madre o a Finch.
Finch, che da parte sua aveva messo su un atteggiamento da donnetta isterica e si era accodato al comportamento di Griselda, con il sempre classico e immortale atteggiamento da ignoriamo-deliberatamente-Etienne.
Stava cominciando a pentirsi di aver lasciato la Virginia.
E alla fine, arrivarono al numero 12 di Regent Street.
Etienne stentò a riconoscere la casa in cui era nato e cresciuto, listata a lutto. La villa a due piani in stile neogotico dalle pareti bianche, circondata dal giardino in cui lui, Amelia e Gabrielle giocavano da bambini, era ora decorata con nastri neri annodati a ogni finestra, e una ghirlanda del medesimo, funereo colore campeggiava imperiosa sulla porta d'ingresso principale.
Il cocchiere guidò il Clarence all'interno del giardino. Gli stallieri si affrettarono a prendere in custodia la carrozza e i cavalli, mentre un paggio si occupò di aprire la portiera e un altro di aiutare la signora Hargreaves a smontare dalla vettura. Finch balzò giù, subito seguito da Etienne.
Qualcuno dei domestici si azzardò a bofonchiare un impacciato “ben tornato, signorino”, ma la maggior parte di essi finse di non vederlo. Griselda precedette sia lui sia Finch al momento di entrare. Etienne riconobbe a stento l'atrio – non c'era da stupirsi che dopo dieci anni molte cose fossero cambiate –, ma non ebbe il tempo di osservarlo ulteriormente, perché lui e Finch seguirono Griselda in direzione della camera ardente.
Naturalmente la prima cosa che attirò la sua attenzione fu la bara di legno lucido sistemata a poca distanza dalla parete, circondata da gigli e crisantemi, ma non vi si avvicinò subito.
Nella camera, oltre a loro c'erano due donne. Etienne vide una di loro alzarsi e venirgli incontro, e sentì una morsa stringergli il petto.
 
***
 
C'era solo una cosa peggiore dell'avere fame alle otto del mattino.
Ed era avere fame alle otto del mattino e sapere che per pranzo non avresti avuto nulla da mettere nello stomaco.
Anna si portò una mano all'altezza dell'addome quando lo sentì gorgogliare. Accarezzò l'idea di chiedere a Lucy Hills se per caso non avesse un pezzetto di formaggio da sbocconcellare, con la promessa di ricambiare il favore appena possibile, ma poi lasciò perdere. Andava d'accordo con Lucy ma non erano così in confidenza perché lei si potesse permettere di avanzare una richiesta simile.
Strinse i denti e si costrinse a ignorare il gorgoglio. L'ultima cosa che aveva mangiato era stata la zuppa di pane e piselli che aveva avuto per cena la sera prima. Tentò di tirarsi su di morale pensando che quello era giorno di paga.
Le labbra le si incurvarono in un sorrisino compiaciuto pensando a che cosa avrebbe potuto fare con quei soldi: certo, almeno qualche penny sarebbe andato al padrone di casa per tenerlo buono dopo i due mesi di affitto in arretrato, ma con un po' di fortuna, una volta saldato il debito con il droghiere, sarebbe riuscita a comprarsi non solo un paio di guanti per l'inverno ma anche a mettere da parte qualcosa.
- Signorina Brown!
Anna si riscosse e sollevò lo sguardo dallo stivale a cui stava lavorando. Non si era accorta di avere il caporeparto a pochi centimetri da lei.
Il signor Pitman era un uomo che non doveva avere più di trentacinque anni, ma ne dimostrava almeno dieci in più. Aveva una calvizie incipiente, e i suoi capelli castano-rossicci erano concentrati tutti sulle tempie e sulle basette incolte. Le guance erano piene e cascanti, il naso perennemente arrossato e il ventre così prominente che le operaie ormai scommettevano su quanto ci avrebbero messo i bottoni del panciotto a saltare via. Indossava sempre abiti di sartoria rattoppati e lerci, forse nella convinzione di apparire raffinato ed elegante, ma abbinava stoffe e colori talmente male che il risultato finale era ridicolo e ilare.
- Signorina Brown, a cosa state pensando, invece di lavorare?- la zaffata pestilenziale l'investì in pieno; Anna dovette trattenersi dal fare una smorfia disgustata: si chiese da quanto tempo fosse andato a male il gin che il signor Pitman si era scolato.
- A niente, signore.
- Vi devo ricordare che siete qui per guadagnarvi da vivere, e non per perdere tempo?
- Chiedo scusa, signore. Non succederà più.
- Rimettetevi al lavoro.
Anna si mise a piantare i chiodi nella suola dello stivale con più vigore di prima, e si azzardò a sbirciare altrove solo quando fu certa che Pitman si fosse allontanato. Lo vide portarsi le mani dietro la schiena e marciare lentamente per la stanza, aggirandosi fra i tavoli ingombri di cuoio, chiodi e modelli di stivali non terminati dove le altre operaie della fabbrica stavano lavorando. Sei mesi di lavoro in quel reparto erano stati sufficienti ad Anna per comprendere fino in fondo il comportamento di Pitman: il caporeparto fingeva di esaminare scrupolosamente il lavoro delle operaie, controllava con studiata solerzia che tutto filasse liscio...quando invece il suo aggirarsi come una faina fra le tavolate era solo un modo sicuro per riuscire a guardare e palpare il culo di tutte loro.
I primi tempi, Anna era stata più volte costretta a ritrarsi o a fingere un prurito alla caviglia per sfuggire al tocco indesiderato del caporeparto. Poi, quando aveva saputo che lei non era nelle grazie della sua puttana personale, l'aveva lasciata in pace, ma la sostanza non cambiava di molto.
Il peggio era che tutte loro sapevano – non passava giorno senza che qualcuna all'uscita della fabbrica raccontasse qualche aneddoto riguardante la mano morta di Pitman –, ma nessuna poteva fare nulla. Pitman era il caporeparto, e di conseguenza era lui ad avere il coltello dalla parte del manico. Era praticamente il capo, là dentro, dal momento che il reale proprietario della fabbrica non si faceva mai vedere, oppure se ne stava sempre chiuso nel suo ufficio, lontano dalle operaie.
Pitman poteva licenziare chiunque a proprio piacimento, e trovarsi senza lavoro a Whitechapel e per di più in pieno inverno era qualcosa che non si augurava neanche al propro peggior nemico. Anna ricordava una madre di famiglia, Kelly Anderson, che un giorno si era ribellata alle molestie del caporeparto gridando che suo marito sarebbe venuto di persona ad aprirlo in due come una mela, se non avesse tenuto le sue luride mani a posto.
Il risultato era stato che il giorno dopo Kelly era stata licenziata in tronco, e nessuno, nemmeno suo marito, aveva protestato né si era più fatto vivo.
Il fatto che questo la tenesse lontana dalle molestie di Pitman era l'unica cosa positiva che Anna trovava nell'essere stata presa di mira da Sally Jenkins.
Lucy, accanto a lei, le diede una lieve gomitata.
- Non metterti contro quello stronzo - le bisbigliò.
- Non lo faccio, infatti - sussurrò Anna di rimando.
- Sì, invece. Pensa a lavorare, invece di sognare ad occhi aperti.
- Sto lavorando.
- E dovresti anche cercare di andare d'accordo con la Jenkins.
- Piuttosto mi lascio annegare nel fiume.
- Non ti resterà molta scelta, se Pitman ti caccia.
- Non leccherò i piedi a quella troia...!- ringhiò Anna, più forte di quel che avrebbe voluto.
Pitman picchiò due o tre volte il proprio bastone contro il pavimento.
- Insomma, silenzio!- abbaiò nella loro direzione.
Entrambe si affrettarono a fissare di nuovo gli occhi sul proprio lavoro. Per un po' nel grande stanzone non si udirono altro che il rumore dei chiodi piantati nel cuoio e alcuni sommessi bisbigli delle operaie.
Lucy sbuffò.
- Non ne posso più, ho bisogno di sedermi...
- Hai provato a metterti a novanta nello studio di Pitman?- Anna inarcò un sopracciglio e ammiccò in direzione di Sally Jenkins. Lucy emise un sonoro sbruffo per soffocare la risata, e si affrettò a fingere di tossire e a premersi il grembiule contro la bocca quando Pitman si girò nella loro direzione.
Durò solo un attimo, prima che tornasse a rivolgere l'attenzione al suo fondoschiena preferito in assoluto.
Anna non aveva nulla contro le prostitute, anche se il suo continuo appellare Sally Jenkins “una puttana” poteva indurre a pensare il contrario. Di meretrici ne aveva conosciute diverse, e la maggior parte di loro le faceva una pena infinita. Whitechapel pullulava di quelle che i ricchi e i preti si ostinavano a chiamare “sventurate”, era difficile riuscire a svoltare l'angolo senza trovarsene di fronte almeno tre. Molte non avevano neanche una casa, e per dormire s'infilavano clandestinamente in qualche interno di carrozza.
Ad Anna quelle donne facevano pena perché sapeva che se avessero avuto altra scelta, non si sarebbero prostituite. Quelle che battevano i marciapiedi difficilmente lo facevano per vocazione. Così come non lo facevano per vocazione persone come la signora Norton, una donna aristocratica che viveva due appartamenti più in là del suo, il cui marito era scappato lasciandola piena di debiti che lei era costretta a ripagare aprendo le gambe ai marinai che riceveva in casa tutti i giorni. E non era la sola: Whitechapel era pieno di ragazze che si erano lasciate ingannare da qualche libertino ed erano finite in miseria, oppure persone come Alice Leonard, una sarta vedova con tre figli che viveva a Spitalfields e che pagava l'affitto andando a letto con il padrone di casa. La stessa Lucy qualche mattino si presentava in fabbrica scarmigliata e con le occhiaie di chi ha passato la notte in bianco; Batsheva girava la testa dall'altra parte e non diceva nulla.
Anna non se la sentiva di giudicarla, né lei né nessun'altra che si faceva pagare per andare a letto con degli sconosciuti per arrivare al mese successivo. Quelle che invece non le facevano pena neppure per sbaglio erano donnacce come Sally Jenkins.
Sally aveva forse un anno o due in meno di lei, e non era sposata. Il primo giorno di lavoro alla fabbrica, Lucy aveva sussurrato all'orecchio di Anna di non infastidire troppo quella ragazzetta alta e smilza che lavorava due tavoli più in là rispetto al loro.
- E perché? Morde?
- E' la compagna di Pitman.
Sulle prime, Anna non aveva fatto caso alle sfumature di quella frase. In seguito, avrebbe compreso perché Lucy aveva usato la parola “compagna”, invece di “fidanzata” o “promessa sposa”. Sally all'anulare destro non portava nessun anello di fidanzamento e, per dirla in modo brutale, con Pitman ci andava a letto.
La perplessità di Anna rispetto a questo fatto era dovuta all'aspetto del caporeparto e ai suoi modi da viscido porco comparati con la bellezza angelica di Sally Jenkins. Non si poteva negare che fosse una bella giovane, di altezza media, con capelli color del grano maturo e occhi azzurri come il cielo; aveva dei lineamenti un po' affilati, ma comunque eleganti, tanto che un paio di volte Anna si era chiesta se non si trattasse di qualche marchesina caduta in disgrazia. L'unica pecca erano i denti, storti e un po' anneriti, ma d'altra parte nessuno che vivesse a Whitechapel aveva un sorriso perfetto.
A farla breve, Sally Jenkins era bella e il caporeparto era come una cagna perennemente in calore. Sally Jenkins voleva dei favori, e Pitman aveva un carattere talmente debole che per un paio di gambe spalancate si sarebbe fatto mettere guinzaglio e museruola.
Se si fosse trattato solo di questo, Anna se ne sarebbe fregata. Se a Sally Jenkins il lardoso caporeparto non faceva schifo e le piaceva farsi sbattere per ore sulla scrivania del suo studio, fosse anche stato per ottenere qualcosa – il fatto che Sally fosse l'unica a non essere obbligata a portare la cuffietta sul lavoro, che a fine mese ricevesse sempre qualche penny in più aggiunto alla paga, e che indossasse vestiti migliori di tutte le altre –, a lei non interessava.
Quello che non tollerava, era che Sally utilizzasse le proprie parti intime e l'ascendente che esse avevano su Pitman per colpire alle spalle le altre operaie.
Tutte alla fabbrica avevano paura di lei, perché infastidirla anche per sbaglio poteva costarti il posto di lavoro. C'era già stata più di una vittima della rabbia e delle ripicche di Sally Jenkins: aveva fatto licenziare due operaie colpevoli di non volerle dare metà del proprio pane con olio a pranzo, un'altra per aver risposto in modo ironico a una sua richiesta assurda, e un'altra ancora perché non le piaceva il suo accento scozzese. E in generale, se stavi antipatica a Sally, potevi star certa che non avresti avuto vita facile alla fabbrica: Pitman rispondeva a ogni suo schiocco di dita, ed era in grado di rendere l'esistenza impossibile a chiunque non fosse nelle grazie della sua mistress di basso borgo.
Anna faceva parte di questa categoria.
Non avrebbe saputo dire se Sally l'avesse presa a noia solo perché non le piaceva la sua faccia, o se avesse fatto effettivamente qualcosa per offenderla. La realtà dei fatti, comunque, cambiava poco.
Sally e Pitman facevano di tutto per farla incazzare. La prima si limitava ai dispetti: sgambetti, commenti pungenti e insulti – più o meno velati e indiretti –, chiodi e pezzi di cuoio spariti nel nulla; il secondo non la smetteva riprenderla in continuazione – e grazie a Dio teneva le mani al suo posto per non irritare la compagna –, ma Anna avrebbe anche potuto sopportare, se solo non le avesse trattenuto lo stipendio.
Ricevere la paga regolarmente alla fine del mese era un lusso che le operaie non potevano sempre permettersi. Pitman, tuttavia, era capace di trattenerle la paga anche per quindici giorni filati, e quando finalmente Anna riusciva a mettere le mani su quel denaro, c'era sempre qualche centesimo mancante.
- Probabilmente Pitman se li beve tutti insieme a Sally - sosteneva Lucy.
Tutte le operaie le ripetevano ogni volta che avrebbe dovuto chiedere scusa a Sally – il fatto che non avesse compiuto nulla per cui dovesse scusarsi era del tutto irrilevante –, e di provare a ingraziarsela, ma Anna si era sempre rifiutata. Non voleva abbassare la testa di fronte alle prepotenze e ai capricci di una puttana. Cercava sempre di evitare lo scontro diretto – sospettava che il vero obiettivo di Sally fosse quello di farla incazzare talmente tanto da farle perdere le staffe e farla licenziare –, ma rispondeva a tono a ogni provocazione.
Anna continuò a lavorare allo stivale fino a che non fu completo. Il suo gemello era sistemato poco distante sul tavolo; li prese entrambi e abbandonò la sua postazione per depositarli nel cesto posto dall'altra parte dello stanzone.
Quando il percorso la obbligò a passare accanto al tavolo di Sally Jenkins, sentì qualcosa sbarrarsi di fronte a lei e colpirle le gambe. Perse l'equilibrio, finendo a terra.
Tutte le operaie presenti nello stanzone, o almeno quelle che si trovavano nel raggio di qualche metro, smisero di lavorare per girarsi a guardarla.
Anna grugnì, portandosi una mano al fianco. Aveva sbattuto violentemente l'osso dell'anca, e ora le faceva un male dannato. Si mise in ginocchio sul pavimento, e volse uno sguardo furioso alle sue spalle.
Sally Jenkins non si stava neanche preoccupando di nascondere il suo sorriso marcio.
- Stronza...- ringhiò Anna.
- Sei inciampata da sola.
- Un corno! Mi hai fatto lo sgambetto.
Sally e altre due operaie sue amiche sghignazzarono. Anna sbuffò, massaggiandosi l'anca. Raccattò gli stivali, ma prima che potesse rimettersi in piedi le gambe grassocce di Pitman le si pararono davanti.
- Signorina Brown, che state combinando, si può sapere?!
- Chiedetelo alla signorina Jenkins. E' lei che mi ha fatto cadere - sputò fuori Anna, senza pensare.
- Come ti permetti, sgualdrinella da quattro soldi!- berciò Sally.- Signor Pitman, non potete lasciare che mi parli così! Io non ho fatto niente!
- Mi hai fatto lo sgambetto, stronza!- Anna si rialzò in piedi in fretta, nonostante il dolore all'anca.- Ti hanno visto tutte.
- Non è colpa mia se non sai stare in piedi. Trova un'altra scusa, non incolpare me.
- Ma vai a battere i marciapiedi...- Anna bofonchiò quell'augurio e raccolse gli stivali con tutta l'intenzione di chiudere lì l'intera vicenda, ma aveva fatto male i suoi conti. Appena le voltò le spalle, Sally afferrò lo stivale a cui stava lavorando e glielo tirò dritto contro una scapola.
Anna si lasciò scappare un acuto “ahi!”; uno dei chiodi mal piantati nella suola le forò la stoffa del vestito. Sally ghignò. Per tutta risposta, Anna si girò e le lanciò a sua volta uno degli stivali che teneva in mano, il quale andò a colpire Sally in pieno volto.
Non le diede il tempo di reagire e le volò addosso.
Anna afferrò i capelli di Sally e li tirò fino a strapparne alcuni che le rimasero fra le dita; l'altra ragazza prese a strillare come un'aquila, e le tirò a sua volta i capelli. La cuffietta bianca di Anna le scivolò all'indietro sul capo, e alcune ciocche scure le scivolarono dalla crocchia che si era fatta quella mattina.
Sally le strattonò con forza la manica dell'abito, fino a lacerarne le cuciture e ad aprire uno strappo all'altezza della spalla; le conficcò le unghie nella carne del braccio e strinse talmente tanto da strapparle un urlo di dolore. Anna aumentò la presa ai capelli di Sally e le colpì una tempia con un pugno.
Pitman era rimasto inebetito a quel primo scoppio di violenza. Boccheggiò per qualche istante come uno scorfano fuori dall'acqua, gli occhietti acquosi che dardeggiavano da Anna a Sally e poi da Sally ad Anna. Tutte le operaie avevano smesso di lavorare e si erano radunate in cerchio per assistere alla scena. Qualcuna di loro si limitava a guardare, mentre altre si dividevano in due categorie, chi fischiava, rideva e incitava alle botte, facendo il tifo per l'una o per l'altra, e chi invece implorava di smetterla e spronava Pitman affinché intervenisse.
Il caporeparto sembrò essersi risvegliato da un sonno profondo.
- Brown! Brown, smettetela immediatamente!- ululò.
Anna neanche lo sentì, troppo impegnata a liberarsi dalla stretta di Sally. Le sferrò un calcio al polpaccio, e l'altra perse l'equilibrio, ma nella caduta trascinò con sé anche l'avversaria. Anna si ritrovò a cavalcioni sul corpo di Sally Jenkins, distesa supina con le spalle e il dorso piantati contro il pavimento. Sally gridò – un vero e proprio grido di battaglia – e le graffiò una guancia; Anna rispose con un sonoro schiaffo, e si accanì sulla faccia dell'avversaria.
- Brown, ho detto di smetterla!
Anna ignorò Pitman, ma Sally dovette aver compreso che il suo amante era dalla sua parte. Iniziò a uggiolare e a chiedere aiuto, al che alcune operaie decisero d'intervenire di persona. Anna si sentì afferrare le braccia e circondare la vita, e venne tirata su di peso dal corpo di Sally. Digrignò i denti, cercando di dare un'altro schiaffo a Sally, ma era ormai troppo lontana.
- Calmati!- la voce di Lucy le giunse molto vicina.- Anna, calmati!- implorò di nuovo.
Di fronte a lei, Sally Jenkins si era tirata a sedere sul pavimento e teneva il viso nascosto fra le mani, singhiozzando drammaticamente.
- I capelli!- guaì.- Mi ha strappato i capelli!
Alcune operaie s'inginocchiarono accanto a lei e presero a consolarla, accarezzandole le spalle. Sally mostrò la manica del vestito su cui era presente uno strappo.
- Guardate che cosa mi ha fatto! Strega!- gridò prima di nascondere nuovamente il volto fra le mani. Nessuno sembrò accorgersi della manica strappata di Anna, del fatto che la sua cuffia fosse scivolata via, che sulla sua faccia c'era l'impronta delle unghie di Sally e che era stata la Jenkins a cominciare.
Sally aveva il volto deformato dalla smorfia del pianto, ma dai suoi occhi non scendeva una sola lacrima; eppure, le operaie che le stavano intorno continuavano a cercare di consolarla. Anna sentì che Lucy le stava dicendo qualcos'altro, ma non riuscì a mettere a fuoco le parole. Sentiva il cuore batterle nella cassa toracica così forte da impedirle di respirare senza provare dolore, anche se forse gran colpa aveva il pugno che Sally le aveva sferrato nello stomaco.
Inspirò ed espirò fino a che non riuscì a tranquillizzarsi, e a quel punto anche il dolore diminuì. Non riuscì tuttavia a tornare a ragionare a mente lucida che il signor Pitman le si parò di fronte.
- Signorina Brown, venite con me nel mio ufficio. E' un ordine - aggiunse, vedendo l'espressione stranita di Anna. Le operaie che l'avevano trattenuta si allontanarono da lei; l'unica che le rimase vicino abbastanza da poterle parlare fu Lucy, la quale tuttavia la guardava con un misto di compassione disapprovazione.
Anna si sistemò la cuffietta, dalla quale sfuggivano alcune ciocche di capelli, e si lisciò la gonna dell'abito.
Lucy si torceva le dita delle mani.
- Perché lo hai fatto?- sillabò, senza che dalle sue labbra uscisse alcun suono.
Anna non disse nulla.
- Signorina Brown! Sbrigatevi!- ringhiò Pitman.
- E lei?- Anna guardò con disgusto Sally, ancora accovacciata sul pavimento e intenta a proseguire la sua messinscena.
- Signorina Brown, vi avviso che sto per perdere la pazienza. Venite nel mio ufficio, ho detto!
- Anche Sally le ha messo le mani addosso - intervenne Lucy.- Ha cominciato lei, come minimo dovreste richiamare entrambe...
- Signorina Hills, un'altra parola e saranno guai seri anche per voi. Signorina Brown, muovetevi.
Lucy si zittì e indietreggiò di un passo, e per un attimo ad Anna sembrò quasi che volesse raggomitolarsi su se stessa e nascondersi. Le rivolse uno sguardo che avrebbe voluto essere di gratitudine, quindi fece quel che le era stato ordinato.
L'ufficio del caporeparto si trovava al secondo piano della fabbrica, e per accedervi bastava percorrere una breve scalinata che dallo stanzone dove lavoravano le operaie conduceva direttamente a un pianerottolo e a una porta. Pitman la precedette, e quando furono all'interno le ordinò di chiudere il battente.
Anna sapeva già che cosa il caporeparto le avrebbe comunicato, ma non per questo aveva intenzione di rassegnarsi al suo destino.
Pitman si sedette alla scrivania ingombra di scartoffie e di sigari consumati; essa costituiva l'unico pezzo di arredamento insieme alla poltrona consunta su cui il caporeparto aveva sistemato il suo grosso fondoschiena, ma la stanza strabordava di cartacce, bottiglie di gin vuote e altre porcherie.
Pitman tentò di darsi un'aria di contegno che lo rese ancora più ridicolo.
- Siete licenziata.
- Coglione.
- Cosa?
- Siete un coglione!- Anna si avvicinò alla scrivania, prese la prima cosa che le capitò a tiro – un portasigari vuoto – e lo tirò addosso a Pitman. Il caporeparto si scansò prima di venire colpito, e la guardò come si guardava un'internata in un manicomio.- Licenziata?! Perché mi sono difesa? Quella vacca mi ha tirato uno stivale e tu mi licenzi, bastardo?
- In questa fabbrica la violenza non è tollerata, signorina Brown!- balbettò Pitman, nel disperato tentativo di riacquistare un minimo di autorevolezza.- Conoscete le regole. Non avreste dovuto...
- Non avrei dovuto fare cosa? E quella baldracca le regole le conosce?! Perché io sono stata licenziata e lei no?
- Non spetta a voi decidere i provvedimenti disciplinari per i quali...
- Ti ci puoi pulire il culo con i tuoi provvedimenti disciplinari! Solo perché la Jenkins ti fa annusare un po' di fica tu ti cali le brache, pezzo di merda rotto in culo che non sei altro...
- Signorina Brown, ora calmatevi...
- Col cazzo che mi calmo!
Anna aggirò la scrivania in modo da ritrovarsi faccia a faccia con Pitman. Afferrò un lembo della giacca del caporeparto e lo strattonò.
- E va bene, tu e la tua troia avete vinto, stronzo, ma non credere che me ne andrò da questo posto merdoso senza niente in tasca - ringhiò.- Oggi è giorno di paga. Dammi quello che mi spetta, prima che ti strappi le palle.
Pitman assunse un'espressione fintamente scandalizzata, prima di liberarsi dalla stretta della ragazza. Aprì un cassetto della scrivania e vi frugò dentro fino a estrarre una mazzetta di denaro, e la porse ad Anna. Lei la prese con malagrazia, ma non si mosse dalla sua posizione: contò il denaro per tre volte.
- Mi prendi anche per il culo?- sbottò, guardando Pitman in cagnesco.- Ne manca almeno la metà.
- Questo è tutto ciò che vi devo, signorina Brown - il caporeparto sembrava aver riacquistato un po' di contegno.- Ora, vi pregherei di lasciare questa stanza e la fabbrica.
- Eh no, bastardo. Voglio i miei soldi...
- Vi ripeto che questo è tutto, signorina Brown.
Dal modo in cui lo disse, Anna comprese che Pitman non avrebbe sganciato un solo penny in più, e che lei non ci poteva fare nulla. Se avesse avuto meno il sangue alla testa probabilmente si sarebbe rassegnata; invece, provò a tornare all'attacco.
- Ho detto che non mi schiodo da qui senza i miei soldi. Qui mancano...
- Per l'ultima volta, signorina Brown, vi ripeto che questo è tutto!
Pitman si alzò in piedi. La sua stazza era almeno due volte quella di Anna ed era più alto di lei di tutta la testa. La ragazza vacillò solo momentaneamente, ma poi s'impose di non cedere.
- Voglio i miei soldi - ripeté.
- Non avrete altro se non quanto vi ho già consegnato.
- Non credere che me ne vada senza quel denaro, pezzo di merda...
- In tal caso sarò costretto ad accompagnarvi personalmente alla porta...- Pitman fece per afferrarla per un braccio, ma Anna sgusciò via, allontanandosi da lui; gli ci vollero altri due o tentativi prima che riuscisse a bloccarla per un lembo della manica.
La spinse malamente verso la porta.
- Fuori da qui, e non fatevi più vedere...
- Non senza quei soldi!- Anna gli diede un calcio alla caviglia, ma non fu abbastanza forte da fermare Pitman; il caporeparto contorse la bocca in una smorfia di dolore, ma non mollò la presa.
- Un'altra opposizione e chiamerò i bobbies, siete avvisata!- abbaiò.
A quella minaccia, Anna non replicò. Ponderò velocemente la situazione: Pitman sarà anche stato un grandissimo figlio di buona donna e un inetto, ma quando prometteva qualcosa manteneva sempre la parola. Era il caporeparto, ovvero cento gradini al di sopra di lei. Se avesse chiamato gli sbirri, sarebbe stata lei a rimetterci e a passare dei guai.
Il pensiero di essere stata sconfitta le fece salire ancora di più il sangue alla testa. Si liberò dalla presa di Pitman, ma non aveva intenzione di andarsene in quel modo. Concentrò tutta la saliva che poté nella bocca e sputò in faccia al caporeparto.
Pitman rimase basito, e tirò fuori dalla tasca del panciotto un fazzoletto.
Anna afferrò la maniglia della porta e la spalancò.
- Spero che la tua puttana ti passi la sifilide e che tutti e due moriate annegati nella vostra stessa merda, bastardo!- sibilò, e uscì.
Ancor prima che Pitman terminasse di asciugarsi il volto, Anna aveva già sbattuto la porta dell'ufficio e si era avviata a passo sostenuto verso l'uscita della fabbrica.

***
 
Durante il viaggio in nave dalla Virginia a Londra, Etienne Hargreaves aveva cercato d'ignorare il pensiero di come sarebbe stato accolto dalla sua famiglia. Impresa abbastanza semplice, dal momento che non gliene importava poi molto e in ogni caso sapeva che la loro fede cristiana non era sufficientemente radicata per dargli un benvenuto degno da figliol prodigo.
Rimase dunque abbastanza sorpreso quando sua sorella Amelia si alzò dalla sedia e lo salutò con un abbraccio.
Era un abbraccio abbastanza distante, per la verità, e conteneva tutte le formalità che la situazione imponeva. Se poi si considerava che Etienne non aveva mai conosciuto una persona meno espansiva di Amelia, quell'abbraccio doveva esserle costato un grande sforzo.
Durò solo pochi secondi, e sua sorella non permise che un'altra parte del corpo toccasse quello del fratello; non lo guardò neppure negli occhi.
- Come stai?- gli chiese a bassa voce.
Etienne non rispose subito, distratto dal coro di voci che intonava un canto sacro, proveniente dalla stanza a fianco. La funzione doveva essere appena cominciata, e si chiese quante persone fossero convenute al funerale.
- E tu?- chiese di rimando, eludendo la domanda.
- Come è opportuno sentirsi in queste situazioni.
La risposta di Amelia era stata secca e scortese, ed Etienne non faticò a scorgere l'ombra di rimprovero che conteneva. Era chiaro che lo stesse accusando di non mostrare abbastanza cordoglio.
Sua sorella si allontanò da lui, tornando a prendere posto sulla seggiola accanto alla madre: così, lei, Griselda e l'altra donna sembravano tre bambole di vetro, tutte vestite uguali e sedute nella stessa posa.
Sua sorella Amelia vestiva in modo meno vistoso della madre: i capelli erano raccolti, il vestito nero semplice e accollato, i guanti scuri, ma il velo che le ricopriva il capo le lasciava scoperto il volto. Etienne vide che era pallida e che gli occhi erano cerchiati di rosso, e concluse che doveva aver vegliato la salma per tutta notte.
Un maggiordomo offrì a Finch una sedia, ed egli la accettò, ben lieto di smettere di rimanere in piedi a fare la figura del baccalà. Prima, tuttavia, strinse le mani sia alla vedova Hargreaves sia alle due signorine.
- Condoglianze. Vi sono vicino nel vostro dolore - aggiunse.- Colgo l'occasione per porgervi le scuse di Juliet. Abbiamo entrambi ricevuto il biglietto d'invito, ma non ha potuto partecipare e mi ha pregato di farvi le condoglianze al suo posto.
- Beh, Finch, direi che non è un problema per noi - mormorò Etienne, avvicinandosi alla bara.- L'unico che potrebbe offendersi è lui, ma visto che è morto direi che il problema non si presenta.
- Etienne, per favore - sibilò Amelia, guardandolo di traverso.
Griselda chiuse gli occhi, da cui sgorgarono due lacrime silenziose. La ragazza seduta accanto a lei scoppiò a piangere. Etienne se ne avvide a malapena, intento a guardare il volto senza vita del colonnello John Hargreaves.
Nonostante il modo in cui era morto, il volto sembrava in pace, sereno, come se stesse semplicemente dormendo. I capelli grigi gli circondavano la faccia su cui s'intravedevano delle rughe profonde, sebbene il colonnello avesse solo sessantatré anni. Era stato vestito con la divisa ufficiale dei membri del Metropolitan Police Service, con le medaglie e i guanti che indossava sempre nelle occasioni importanti. Gli avevano composto le mani in modo che le tenesse giunte in grembo, e la bara in cui giaceva era circondata di fiori.
Etienne rimase a osservare suo padre per qualche altro istante, poi andò a sedersi.
Il funerale procedette senza intoppi per le due ore successive.
Nella lettera che gli aveva annunciato la morte di John, Amelia gli aveva anche scritto che la loro madre aveva predisposto affinché il funerale si svolgesse in casa, in via privata, e che aveva inviato i biglietti di partecipazione solo a poche persone. Etienne si chiese come avesse fatto a scegliere fra tutti coloro che avevano lavorato con suo padre a Scotland Yard.
La messa si tenne nella stanza affianco a quella della camera ardente, in modo che tutti i familiari del colonnello potessero ascoltare la funzione senza che le loro manifestazioni di dolore disturbassero i partecipanti. Etienne, a dire il vero, non vide manifestazioni di sofferenza così scandalose da dover essere nascoste.
Matthew pregò a fior di labbra per tutto il tempo; Griselda pianse in silenzio, mentre Amelia di tanto in tanto si portava il fazzoletto agli occhi per asciugarsi qualche lacrima. L'unica che sembrava non riuscire a contenersi era la terza donna nella stanza.
Etienne di tanto in tanto non riusciva a impedirsi di scoccare qualche occhiata a sua sorella Gabrielle. Non l'avrebbe detto a nessuno, nemmeno a Finch, ma si sentiva a disagio nel rivederla così cresciuta.
Gabrielle aveva nove anni quando Etienne era partito per la Virginia, e non si erano mai incontrati nei dieci anni successivi. Fino a che aveva avuto dodici o tredici anni, ogni Natale Gabrielle chiedeva ad Amelia di allegare alle sue lettere una cartolina in cui gli augurava una felice festa e aggiungeva informazioni banali, come ad esempio il fatto che avesse ricevuto una bambolina di cera o che avesse perso un dente da latte. Poi aveva smesso di punto in bianco, e dal momento che Amelia non gli aveva mai inviato suoi ritratti, ora Etienne si trovava del tutto impreparato di fronte a quella Gabrielle diciannovenne. A osservarla bene, riusciva ancora a ricondurre l'immagine di sua sorella adolescente con la bambina che aveva salutato in quella che Amelia chiamava melodrammaticamente l'ultima notte. Gabrielle Hargreaves era l'unica ad avere i capelli acconciati in dei boccoli che le ricadevano sulle spalle, boccoli castani appena più chiari rispetto a quelli di Amelia.
Chiunque li conoscesse, non mancava mai di far notare al colonnello Hargreaves e gentil signora quanto i loro tre figli si somigliassero come delle gocce d'acqua. Etienne non si era mai trovato d'accordo. Amelia portava i capelli lunghi fino alla vita, color castano scuro e talmente fini e lisci da rendere difficoltosa qualsiasi tipo di acconciatura. Quand'era una debuttante, sua sorella si lamentava spesso di non riuscire a sistemarli in modo che le forcine durassero per un'intera serata senza disfarsi miseramente alla prima giravolta.
Crescendo gliene era importato sempre meno, tanto che ora non si faceva scrupolo a uscire con la capigliatura in disordine, se non aveva avuto tempo di sistemarsi. O se era in vena di battaglie personali contro la società.
Prima che assumesse questo atteggiamento ribelle, Amelia era in assoluto la preferita di Griselda, la sua beniamina: la signora Hargreaves non la smetteva mai di lodare la vita sottile della sua secondogenita, la sua figura alta e slanciata, le mani dalle dita lunghe e flessuose come fuscelli, l'incarnato pallido e i tratti...ecco, questo era l'esatto punto in cui si fermava. Amelia era bella – almeno, Etienne l'aveva sempre considerata bella –, ma i suoi lineamenti non avevano nulla della dolcezza e della paffutezza che era tanto apprezzata dal ton nelle altre signorine di buona famiglia. Anzi, se non fosse stato per la pelle chiara, Amelia sarebbe tranquillamente potuta essere scambiata per una zingara: aveva labbra carnose che la sua mania di utilizzare il rossetto rosso faceva apparire ancora più grandi e aggressive, il naso dritto e gli occhi di una leggera forma allungata, a mandorla, di un castano così scuro che era sì tipico della famiglia Hargreaves, ma che su di lei ricordava le donne indiane o le selvagge che un tempo abitavano le colonie.
Amelia era consapevole di tutto ciò e ne aveva fatto un mezzo per accrescere la sua impopolarità fra le classi abbienti: se era vero che ad alcuni uomini dell'aristocrazia o dell'alta borghesia potevano piacere dei tratti esotici in una donna, ciò non voleva dire che fossero disposti a tollerare determinati lineamenti in una personalità che non fosse docile e ubbidiente.
E così, quando era stato chiaro che non sarebbe stata Amelia a onorare la famiglia con un matrimonio di gran classe, le speranze di Griselda si erano spostate sulla più giovane delle due figlie femmine, Gabrielle. Che i progetti matrimoniali – che si sarebbero dovuti avverare sul brevissimo termine e possibilmente con minimo tre nipotini nel giro di cinque anni – di sua madre fossero andati in porto, Etienne non lo sapeva. Da quel che aveva capito, la sua sorellina era solo alla sua prima Stagione. Nelle sue lettere, Amelia aveva sprecato soltanto poche parole per comunicargli il debutto di Gabrielle.
 
“La nostra sorellina ha compiuto diciotto anni il maggio scorso, e quest'anno ha debuttato. Ha avuto un discreto successo, da quel che ho capito. Certo, è graziosa e papà le ha fornito una buona dote. Staremo a vedere. La mamma sembra essersi scordata che Gabrielle è mezza francese, il che non gioca a suo favore, dato che qui in Inghilterra nessuno sembra ancora aver superato quel piccolo incidente con quel bontempone di Napoleone.”
 
Etienne aveva dei seri dubbi che dopo più di cinquant'anni le ascendenze francesi della sua famiglia rappresentassero ancora un problema, ma era anche vero che nelle bigotte sale da ballo non si poteva mai sapere. Ciò che era certo era che, accento parigino a parte, Gabrielle aveva le carte in regola per attirare l'attenzione di un uomo. Era più bassa di Amelia, e più paffuta, ma sebbene il suo vitino non fosse quello di una vespa, Gabrielle era comunque molto carina. Aveva un viso ovale e paffuto, con le guance piene che, ne era sicuro, se non fosse stata affranta dal dolore sarebbero anche state rosee, gli occhi scuri degli Hargreaves grandi e dolci, i lineamenti morbidi e delicati, le labbra sottili.
Etienne aveva cercato di abituarsi a quel volto ripetendosi mentalmente che sì, era sua sorella Gabrielle, ma aveva dovuto smettere di guardarla quando si era accorto che lei ricambiava i suoi sguardi con fare accusatorio e risentito.
Il funerale procedette tranquillamente fino alla fine. Al momento di trasportare il feretro sino alla carrozza che l'avrebbe condotto al cimitero, Etienne scoprì di essere uno dei portatori, e che il biglietto che Amelia sosteneva di aver allegato alla sua lettera era andato perduto. Ne seguì un diverbio in cui sua madre lo accusò di aver gettato deliberatamente il biglietto nella speranza che loro si fossero organizzati con qualcun altro, e che non aveva alcun rispetto per suo padre neanche ora che non c'era più. Etienne non si sprecò a difendersi. Amelia lo implorò di far finta di nulla e di unirsi agli altri portatori come se nulla fosse, ma si presentò un altro problema: Etienne non indossava i guanti, e quando Griselda sussurrò al valletto di suo marito di recarsi con discrezione al piano di sopra per recuperarne un paio, l'uomo non fu in grado di trovarne di neri che non fossero di capretto.
La vedova Hargreaves era stata sul punto di avere una crisi isterica, al che Matthew era intervenuto, sfilandosi i propri guanti e porgendoli ad Etienne affinché li indossasse.
Gabrielle era rimasta seduta a singhiozzare per tutto il tempo.
La bara contentente le spoglie del colonnello Hargreaves venne chiusa per sempre e issata sulle spalle di suo figlio e di altri tre portatori – lontani cugini.
Sistemarono il feretro sulla carrozza funebre e lo seguirono sino al cimitero. Gabrielle non smise di piangere per tutto il tempo dell'interrazione, e così anche sua madre. Amelia si limitò a tenere gli occhi bassi fino a che tutto non fu terminato.
Fu Gabrielle a occuparsi di distribuire a ciascun partecipante il proprio arval bread; Griselda ne aveva ordinati una serie fatti con burro, farina e poco zucchero, rotondi, sui quali era stata impressa la forma di una croce e avvolti in della carta bianca.
Etienne rimase in disparte per tutto il tempo in cui si compì la sfilata degli invitati al funerale, tutti che ricevevano l'arval bread dalle mani di sua sorella minore e si profondevano in condoglianze. Li osservò in silenzio, le braccia incrociate al petto e le spalle appoggiate alla parete dietro di lui: riusciva a riconoscere gli agenti di Scotland Yard perché tutti avevano indossato la loro divisa ufficiale, ma la maggior parte delle altre persone gli era sconosciuta. Riuscì a individuare solo qualche vecchio amico di famiglia e una coppia di vicini di casa.
Si accorse che Amelia lo aveva raggiunto solo quando sentì la sua voce.
- Finch mi ha detto che sei arrivato ieri mattina. Perché non sei venuto subito qui?- il trucco di sua sorella era appena sbavato, e il suo incarnato più pallido del solito. Amelia si portò una sigaretta alle labbra e l'accese; tirò una boccata, poi estrasse una seconda sigaretta dal taschino della gonna e la offrì a Etienne.
Suo fratello si sporse in avanti in modo da far toccare la punta della sigaretta con la fiammella dell'accendino che Amelia gli porgeva.
- Avevo un impegno.
- Con quale delle tue puttane? Potevi almeno risparmiarti la capatina al bordello, in un giorno come questo.
- Che io fossi arrivato ieri mattina oppure oggi non avrebbe fatto differenza. Deduco che la notizia non sia ancora stata divulgata. Sento solo parole di cordoglio, nessun bisbiglio...
Amelia non rispose, ma dal suo silenzio e dalla velocità con cui consumò la sigaretta, Etienne comprese che non solo aveva compreso ciò di cui stava parlando, ma che la sua risposta era affermativa.
- Solo noi e il tenente colonnello Cranmer lo sappiamo. E naturalmente gli inquirenti di Scotland Yard che si stanno occupando del caso, ma hanno garantito alla mamma il silenzio totale sulla faccenda.
- Rimarrà per sempre un tragico incidente, vero?
- E non sarai tu a smentirlo!- ringhiò Amelia, guardandolo di traverso.- Etienne, non voglio litigare con te. Ma non parlarne con nessuno, nemmeno con la mamma e con Gabrielle.
- Non me ne verrebbe nulla in tasca.
Rimasero in silenzio per dieci minuti filati, entrambi nascosti in un angolo della stanza a guardare i partecipanti sfilare via e uscire dalla dimora per tornare alle proprie case. Etienne ebbe il tempo di fumare interamente la sua sigaretta, e parlò solo per chiederne un'altra ad Amelia.
- Finch lo sa?- chiese a un certo punto, dopo aver tirato una boccata.
Il fumo della sigaretta gli sfuggì dalle labbra come un fantasma silenzioso.
- Lo sospetta. Qualunque imbecille capirebbe che non è stato un incidente.
Un uomo si staccò dal gruppo di partecipanti rimasti a fare le condoglianze alla vedova, e si avvicinò a loro. Indossava una divisa di Scotland Yard. Fece un inchino a entrambi e porse le sue condoglianze.
- Sono James Cranmer, tenente colonnello - si presentò, rivolto a Etienne.- Lavoravo con vostro padre, signor Hargreaves.
Etienne non rispose. Vide che Amelia si stava accendendo un'altra sigaretta, e la smorfia che fece il tenente colonnello rivelò la sua disapprovazione.
Inconsapevolmente, aveva appena reso sua sorella la più felice fra le donne.
- Ti avevo parlato di lui - disse Amelia.- E' lui che ha trovato papà.
- Dovrei essere felice di questa notizia?- Etienne si mise le mani in tasca.
- Una tragedia, non c'è che dire - proseguì Cranmer, ignorando la poca educazione di quello scambio di battute.- Inaspettato per tutti noi. Vostro padre non era il tipo d'uomo da compiere un simile gesto.
- Eppure l'ha fatto.
Etienne non si stava nemmeno sforzando di essere educato. Non gliene importava nulla, e dal modo in cui Amelia continuava a fumare e a guardarsi intorno con aria annoiata gli fu chiaro che nemmeno a lei interessava fare bella figura di fronte al signor Cranmer.
Il tenente colonnello era un uomo che doveva avere circa dieci anni meno di John Hargreaves; era alto e ben piazzato, con spalle larghe e un volto piacente sebbene non fosse più giovane. I capelli castani cominciavano a ingrigirsi, ma il sorriso oltre i baffetti ben curati era gentile e caloroso.
Un po' fuori luogo in questa situazione, pensò Etienne.
- Naturalmente, signor Hargreaves, come ho già assicurato a vostra madre e alle vostre sorelle, io e i miei colleghi vi garantiamo la totale riservatezza sulla questione.
- Bene. Anche perché se così non fosse, sarebbe spiacevole per tutti ritrovarci di fronte a un giudice con un'accusa di diffamazione fra le mani.
Il sorriso di Cranmer si gelò, ma l'uomo mantenne comunque una parvenza di noncuranza e cordialità tale da permettergli di portare avanti la conversazione ancora per qualche minuto. Si rivolse prevalentemente ad Amelia, la quale rispose con commenti annoiati alle considerazioni del tenente colonnello sul tempo e sulle condizioni delle strade.
Alla fine, Cranmer salutò e se ne andò, ed entrambi poterono tirare il fiato.
Il resto della giornata procedette con la funerea tranquillità tipica di quelle situazioni.
Amelia invitò Finch a trattenersi presso di loro fino all'ora del té, ma dopo di che Matthew porse le sue ultime condoglianze alla vedova Hargreaves e tornò al lavoro, lasciando tutti loro a cuocere nel proprio brodo.
Griselda si rifiutò di cenare e si chiuse nella propria camera da letto, dalla quale per un paio d'ore filate provennero singhiozzi sommessi, che cessarono solo quando la donna si addormentò. Amelia consumò tutte le sigarette che teneva nel suo portasigari, e suo fratello non fece complimenti quando per caso gliene offriva qualcuna.
Etienne aveva pensato di dedicare la giornata al tentativo di riprendere confidenza con la casa paterna; invece, quando Amelia diede ordine al valletto del padre di portare i suoi bagagli nella sua vecchia camera da letto, la sua esplorazione iniziò e terminò lì.
Mandò via le cameriere senza permettere loro di disfare le valigie, si tolse la giacca e la cravatta e slacciò i primi bottoni della camicia, per poi lasciarsi cadere pesantemente sul materasso. Camera sua non era cambiata, per niente: il letto a baldacchino era posizionato nello stesso luogo in cui si trovava dieci anni prima, aveva le stesse tende rosso scuro, c'erano la stessa cassapanca, lo stesso scrittoio e la stessa libreria svuotata. Quella vista gli ricordò di tutti i bagagli che ancora dovevano arrivare dalla Virginia, e sperò che Tom non dimenticasse nulla di quanto gli aveva lasciato scritto.
Ripensò all'ultima conversazione che aveva avuto con il suo segretario. Tom era un negro; Etienne non gli aveva mai chiesto quanti anni avesse, ma era anziano, abbastanza anziano da aver vissuto la schiavitù, aver combattuto la guerra a fianco dei nordisti nel 1860 e aver assistito alla liberazione degli schiavi.
- Mi sono spaccato la schiena in questa piantagione da quando avevo tre anni - ripeteva sempre.- Mai mi sarei aspettato di poter lavorare così vicino al padrone.
Etienne aveva nominato Tom suo segretario dopo essere entrato in possesso di Maryton Acre, e non si era mai pentito della propria scelta. Quando era partito dalla Virginia aveva lasciato tutto in mano a Tom, con la raccomandazione di scrivergli con regolarità per tenerlo aggiornato sui progressi, se ce ne fossero stati.
Era da cinque anni che non ce n'erano.
Rimase disteso sul letto a guardare il soffitto per tutto il pomeriggio. Saltò la cena e chiamò i domestici solo una volta perché gli portassero una bottiglia di porto. Quando l'orologio batté le nove di sera, si era scolato tutto il contenuto della bottiglia e moriva dalla voglia di averne dell'altro, anche se sentiva la testa e le palpebre pesanti.
E imparò una cosa su Gabrielle. Ovvero, che detestava sentirla suonare il pianoforte.
Dopo che tutti se n'erano andati, sua sorella minore si era piazzata nella stanza della musica al piano inferiore e, lasciando la porta aperta, aveva cominciato a suonare. Era andata avanti per quasi sette ore filate, e più di una volta Etienne era stato sul punto di scendere e dirle di concedere a tutti loro la grazia e farla finita.
Non era un esperto di musica, tutt'altro; non sapeva suonare nessuno strumento e non aveva mai apprezzato fino in fondo tutto ciò che avesse a che fare con le note musicali, come gli rimproverava spesso Griselda. La maggior parte delle canzoni che Gabrielle suonava non le conosceva nemmeno, ma poteva comunque trovare un filo conduttore fra tutte quante: erano tutte musiche tristi, nenie strascicate e lamentose, le migliori delle quali suscitavano il pianto.
Quando alle dieci di sera Gabrielle aveva attaccato con la Sonata al chiaro di luna di Beethoven, il mal di testa era stato l'unica cosa che gli aveva impedito di irrompere nella stanza da musica e strangolarla.
Amelia, al piano di sotto, aveva avuto un livello di sopportazione molto inferiore. Era rimasta seduta in salotto a fumare fino alle dieci, fino a che non si era alzata e aveva marciato dritta nella sala da musica.
- Gabrielle...- avrebbe voluto risultare autoritaria, ma la voce le uscì strascicata.- Gabrielle, potresti smetterla? Sono le dieci di sera, la mamma dorme.
- Non si può più neanche suonare?- sua sorella le parlò in tono accusatorio, ma non alzò lo sguardo dai tasti del pianoforte.
- Puoi almeno cambiare repertorio? Questa canzone è una lagna.
- E' romantica, ed è un classico. Sei tu che non hai alcun rispetto per la musica.
- Cambia canzone, per cortesia.
- Ma...
- Senti, puoi continuare a suonare, d'accordo? Solo, suona qualcos'altro.
Senza attendere risposta, Amelia uscì dalla stanza e scomparve oltre la soglia. Gabrielle tirò su con il naso, indispettita, ma decise di accontentare la sorella. Sostituì lo spartito con un altro, e portò le mani ai tasti.
L'aria si riempì delle note del Requiem di Mozart.
La voce di Amelia giunse dal corridoio come un boato.
- Intendevo qualcosa di meno lamentoso!
Gabrielle l'ignorò e proseguì.
Etienne aveva seguito il diverbio dal piano di sopra, e fu quasi sollevato quando le voci delle sue sorelle cessarono. Le tempie gli pulsavano e si sentiva un cerchio intorno alla testa. Si riscosse quando sentì la porta della sua stanza aprirsi con un flebile cigolio, seguito da un sommesso zampettare sul pavimento. Etienne socchiuse gli occhi e sollevò il capo dal cuscino.
Un pitbull dal manto color nocciola cominciò ad aggirarsi per la camera, annusando il pavimento e gli angoli. Etienne lo guardò stranito, e un attimo dopo Amelia fece il suo ingresso nella stanza. Reggeva un giornale arrotolato sotto il braccio.
- Hannibal, cuccia - ordinò.
Il pitbull andò ad accovacciarsi in un angolo della camera. Amelia tirò una boccata della sigaretta che teneva fra le labbra.
- Ti avevo parlato di Hannibal, vero?
- No.
Amelia andò a sedersi sul materasso, vicino a dove si trovavano le gambe di suo fratello. Indossava ancora l'abito nero del funerale, ma si era tolta il velo di pizzo e aveva sciolto i capelli lasciando che le ricadessero sulle spalle.
- Nella mia lettera di Capodanno di tre anni fa te lo avevo accennato.
- Mi avevi scritto che ti eri comprata un animale. Per quel che ne sapevo, poteva anche essere un pappagallo addomesticato.
Col senno di poi, Etienne avrebbe dovuto arrivare a capire che sua sorella non era proprio il tipo da possedere un pappagallino ammaestrato.
Amelia si accovacciò sul materasso, aprì il giornale e cominciò a scorrere le pagine. Il pitbull – Hannibal – se ne rimaneva tranquillo nel suo angolino, ma le orecchie erano dritte sul capo e gli occhi vigili.
- E' molto ubbidiente, e fa un'ottima guardia. Sa anche essere di compagnia, se lo si prende per il verso giusto.
- L'importante è che non scelga di stabilirsi in camera mia in pianta stabile.
Il cane starnutì nella sua direzione.
Amelia fece schioccare la lingua.
- Non gli piaci.
- Sopravviverò.
- No, se lo fai arrabbiare. E avresti anche potuto toglierti gli stivali, prima di metterti a letto.
Etienne alzò gli occhi al cielo, poi li chiuse e li coprì con l'avambraccio. Amelia trovò finalmente la pagina che stava cercando, e cominciò a leggere.
- Hai un'altra sigaretta? Domani me ne comprerò di tasca mia.
Amelia aprì il portasigari e lasciò che suo fratello si servisse a piacimento, prima di porgergli l'accendino. Attese che Etienne tirasse due o tre boccate, prima di parlare.
- Posso fare altro per te?
- Se conosci qualche sgualdrina, falla venire qui. Ho voglia di scopare.
- Lo sai, vero, che se non troviamo una soluzione subito non ti resteranno più neanche i soldi per pagare una prostituta?
- E finalmente si arriva al perché sei qui...- Etienne sbuffò. Si tirò su a sedere con una fatica immane, sentendosi la testa pesante e le membra indolenzite.- Allora, quanto ha lasciato papà?
- Trentamila sterline. Ovviamente è tutto tuo, comprese la casa e la tenuta nel Kent. Mi auguro per te che tu non abbia intenzione di sbatterci fuori tutte e tre, perché in tal caso ti farò strappare i testicoli a morsi da Hannibal - Amelia parlò senza alzare lo sguardo dalla pagina del The Times di quel giorno.
- Davvero credi che ne sarei capace?
- Io no. Ma la mamma e Gabrielle temono questa eventualità, quindi farai meglio a dimostrare loro il contrario, perché se no Hannibal è sempre pronto ad azzannarti. E non fare quella faccia. Sei stato via per dieci anni e non ti sei mai fatto sentire con nessuno tranne che con me. Credo che il beneficio del dubbio debbano avercelo.
Etienne non rispose. Avrebbe voluto sentirsi offeso per quel che Amelia gli aveva appena detto, ma non ne aveva il diritto. Se n'era andato da quella casa dopo l'ultima sera, come a sua sorella piaceva melodrammaticamente chiamare la notte in cui aveva deciso di troncare ogni rapporto con suo padre. In un certo senso, sapeva che si sarebbero rivisti solo quando uno dei due fosse stato cadavere.
Fumò la sigaretta fino in fondo, per poi spegnere il mozzicone contro la superficie del comodino. Hannibal starnutì ancora, infastidito dal fumo.
- Trentamila sterline non sono molte - disse Etienne.- Ci basteranno per tre anni, se tiriamo la cinghia.
- Non arriveremo a tre anni di rendita neanche se vendessimo tutti i mobili - lo rimbrottò Amelia.- Gabrielle ha diciannove anni, è nel pieno del suo debutto in società. La Stagione ricomincerà dopo Pasqua, e fra meno di tre mesi sarà Natale. Hai idea di quante cose le occorreranno? Vestiti, cosmetici, spillatico...
- Il lutto la costringerà in casa per un anno intero. Nel frattempo, avremo tempo di pensare a una soluzione.
- Non puoi negarle di partecipare alla Stagione, Etienne. Ha diciannove anni, dall'anno prossimo sarà già vecchia. E nostra madre conta su di lei per contrarre un buon matrimonio, dopo che né tu né io abbiamo combinato niente.
- Già, forse non avrei dovuto difenderti con nostra madre dopo che rifiutasti la proposta di matrimonio del marchese di Cherry...
Amelia aveva ventotto anni, non era sposata e aveva alle spalle tre proposte di matrimonio rifiutate e una reputazione macchiata per sempre di cui non le poteva fregare di meno. Sua sorella aveva debuttato all'età di diciotto anni come tutte le sue coetanee, ed era stata la stella luminosa delle due Stagioni seguenti a cui aveva partecipato.
Amelia aveva sempre avuto dei modi di fare provocanti e seducenti e la tendenza a dire sempre quello che le passava per la testa, due difetti che tuttavia erano stati bilanciati dal suo fascino e dalla cospicua dote che il colonnello Hargreaves le aveva fornito. A vent'anni aveva ricevuto la sua prima proposta di matrimonio da parte di un certo signor Clark, un giovanotto di buona famiglia che la corteggiava da tempo.
Amelia lo aveva rifiutato in tronco e con anche un po' di malagrazia, infrangendo le speranze di Griselda che invece aveva sperato di veder accasata la sua primogenita il più presto possibile. Ma sua madre aveva ancora per le mani un bocciolo di rosa, e non si era demoralizzata più di tanto.
Paradossalmente, non si era accorta che sua figlia si stava rovinando la reputazione agli occhi del ton.
Amelia aveva da sempre avuto un carattere ribelle, e con il debutto in società la sua insofferenza verso quel mondo non aveva fatto altro che acuirsi. Sua sorella aveva dichiarato di non volerne più sapere di abiti da sartoria a meno che non fosse stata lei stessa a commissionarli, ed erano spesso modelli dai colori sgargianti e dalle scollature generose. Non disdegnava alcolici come il porto e il cognac, partecipava alle conversazioni di politica. Presto aveva cominciato a fare discorsi sulla possibilità di un suffragio femminile, a frequentare gruppi di donne che erano impegnate politicamente, e il passo successivo era stato quello di partecipare alle manifestazioni nelle strade e incatenarsi a lampioni e cancellate. Un paio di volte o tre si era anche fatta arrestare, e se suo padre in fondo era segretamente orgoglioso della testa calda di Amelia, per sua madre lei ormai era diventata motivo di continuo imbarazzo.
Tutti avevano pensato che il colpo al cuore maggiore per Griselda fosse stato il rifiuto della proposta di matrimonio da parte di un ricco marchese. Invece, il peggio doveva ancora venire.
Etienne era già in Virginia da due anni, ed era stato Finch a confessargli tramite una lettera quanto era accaduto, pieno di vergogna per sé stesso.
Una sera, lui e Amelia si erano ubriacati ed erano finiti a letto insieme. Il mattino dopo, Finch si era reso conto di quel che era accaduto, e si era affrettato a chiedere il consenso al colonnello Hargreaves per sposare Amelia. Il consenso era stato ottenuto – non c'era altra via –, ma sua sorella aveva rifiutato la sua terza proposta di matrimonio.
- Non fraintendetemi, Finch, siete stato meraviglioso - pareva gli avesse detto.- Ma non credo di volervi al mio fianco per tutta la vita. Dovrei provarne almeno altri due o tre, per farmi un'idea.
E così era finito tutto. Amelia era stata rovinata per sempre ed etichettata come fallen woman, nessuno si era più sognato di corteggiarla e ai ricevimenti e ai balli la maggior parte delle persone tendeva a starle lontano. Lei, però, si era rifiutata di chiudersi in casa come una reclusa, e aveva continuato a condurre la sua vita di sempre, fatta di alcolici, sigarette, scandali e politica.
Sono proprio contenta di essere andata a letto con il tuo amico, gli aveva scritto una volta. Ora che sono rovinata per sempre, posso fare tutto quello che voglio senza che chiunque mi guardi storto o mi faccia notare quanto sia inappropriato.
Lo guardò di traverso.
- Forse non capisci la situazione. Gabrielle parte già svantaggiata a causa tua e mia. Se si ferma adesso, non solo perderà un anno prezioso ma darà anche adito alle voci.
- Credevo che fosse stata assicurata discrezione sulla cosa...- puntualizzò Etienne.
- Lo sai anche tu che anche se negassimo all'infinito la gente parlerebbe ugualmente. Gabrielle ha dalla sua parte gioventù, bellezza e una buona dote, ma nessuno sposerebbe mai la figlia di un suicida.
Sentire quella parola fu abbastanza strano. Non l'aveva mai sentita pronunciare ad alta voce, e fu in grado di riportarlo alla realtà dei fatti.
Il colonnello Hargreaves era stato trovato riverso a terra in un bagno di sangue, proprio sotto la finestra del suo ufficio al numero 4 di Whitehall, Scotland Yard. Amelia gli aveva scritto che Griselda aveva pregato Cranmer e gli altri colleghi di far sì che tutti pensassero che si fosse trattata di una fatalità, ma era chiaro che si fosse trattato di un suicidio.
John Hargreaves si era tolto la vita.
Etienne aveva avuto modo di interrogarsi sui motivi di quel gesto, durante il viaggio da Maryton Acre a Londra, e non aveva trovato risposte. Forse era impossibile trovarne, in questi casi. Comunque fosse, Amelia aveva ragione: se si fosse saputo che il colonnello Hargreaves si era suicidato, Gabrielle avrebbe perso qualsiasi occasione per trovare un marito.
- Tu non hai idea di quanto sia importante per lei. E' da quando era bambina che sogna di sposarsi, è l'unica cosa che abbia mai desiderato. Se tu non...
- Va bene, e che cosa dovrei fare?- sbottò Etienne.- Mantenervi? Perché non ti dai da fare tu, invece, per trovare un mestiere? O l'unica cosa che sai fare è incatenarti ai cancelli?
Ameli gli tirò il giornale, colpendolo in pieno petto.
- Non sono io che spreco i soldi nelle case di piacere.
- Dal momento che il denaro è mio, posso decidere come utilizzarlo senza rendere conto a nessuno.
- E cosa farai quando il denaro finirà? Non tirare in ballo Maryton perché giuro che...
- Perché non dovrei metterla in mezzo? E' l'unica cosa che ci può salvare - Etienne prese la mano di sua sorella.- Ascolta, è vero, negli ultimi cinque anni non ho combinato niente in Virginia, ma sai anche che cosa è successo. Lo zio ha lasciato che le cose andassero in malora per troppo tempo, era impossibile per me sanarle velocemente. Ma sto imparando. Ho imparato davvero molto. L'anno scorso il raccolto mi ha fruttato duemila sterline...
- Lo sai che è troppo poco.
- Sì, ma quest'anno andrà meglio.
- Come fai a esserne sicuro?- incalzò Amelia.- Etienne, entro l'anno il denaro che ti ha lasciato nostro padre sarà finito. Forse anche prima. Contiamo su di te e, francamente, non hai fatto molto in questi dieci anni per guadagnarti la nostra fiducia...
Etienne le lasciò la mano. Non voleva ammetterlo, ma quella mancanza di fede lo faceva male, forse più della consapevolezza che Amelia aveva ragione.
Avevano bisogno di soldi, e in fretta.
Provò ad aprire il giornale per distrarsi da quel pensiero, per almeno una sera. E fu in quel momento che lo vide.
Scorse attentamente le righe del breve annuncio, leggendo con attenzione ogni parola stampata nella carta. Amelia inarcò le sopracciglia.
- Che ti prende adesso?
- Sveglia uno dei valletti e digli di venire qui. Ho un messaggio che deve recapitare immediatamente a Finch.
- A Finch?
- Lui lavora per il The Times, no?- Etienne si alzò dal letto e si diresse allo scrittoio.
Amelia balzò in piedi, e quel movimento dovette allarmare il pitbull, perché sollevò la testa e drizzò le orecchie.
- Sono quasi le undici. Che cos'hai di così importante da dirgli?
- Fai come ti ho chiesto, per favore. Forse ho trovato la soluzione al nostro problema...
Al piano di sotto, Gabrielle aveva ricominciato a suonare la Sonata al Chiaro di Luna.
Fuori iniziò a piovere.
 
***
 
Il tempo aveva retto fino a sera, del tutto inaspettatamente. Poi, il cielo aveva cominciato a gettare acqua sulle loro teste di poveracci.
Anna giunse al suo appartamento di Christ Church bagnata fradicia. Aveva vagato senza una meta per mezza Whitechapel dopo essere stata licenziata. Di tanto in tanto aveva provato a entrare in qualche drogheria o bottega e a chiedere se avevano bisogno di un'assistente, ma la risposta era sempre stata quella di smammare.
Passò di fronte al The Ten Bells. Una parte di lei, quella bagnata e disperata, le suggerì di provare a entrare e implorare il suo vecchio capo di darle una seconda possibilità, promettendogli che sarebbe andata al lavoro anche con il vaiolo, ma la parte che aveva ancora un briciolo di dignità prevalse. Tirò dritto e salì in gradini che davano accesso alla palazzina dove viveva.
Entrò nell'atrio e si guardò attorno con circospezione. Richiuse la porta cercando di fare il meno rumore possibile, poi si avviò in punta di piedi in direzione delle scale.
- Signorina Brown.
La voce del signor Carruthers, il padrone di casa, giunse alle sue spalle. Anna serrò le palpebre e imprecò fra i denti. Si voltò a guardarlo: un tipo alto e allampanato, sui trent'anni, e con braccia che apparivano abbastanza muscolose nonostante la magrezza.
- Buona sera, signor Carruthers - salutò con una riverenza, fingendo che tutto andasse bene.
- Signorina Brown, spero che abbiate i soldi che mi dovete - tagliò corto l'uomo, andando subito al sodo. Anna, che teneva le mani in tasca, strinse forte la busta paga.
- Il caporeparto ha trattenuto lo stipendio a tutte, questo mese.
- Mi avete detto la stessa cosa il mese scorso. Sono già tre arretrati.
- Lo so, ma non posso farci niente se alla fabbrica non ci pagano.
- Io con i soldi del vostro affitto ci vivo, signorina Brown. Non tollererò un altro ritardo - le ultime parole le giunsero lontane, perché Anna aveva cominciato a salire la scala che conduceva al suo appartamento; sentì la voce irritata di Carruthers raggiungerla.- Vi do tempo una settimana! Avete sentito, signorina Brown? Una settimana, dopodiché dovrete andarvene...
Anna entrò nel suo appartamento e chiuse la porta, appoggiandovisi contro.
Girò la chiave nella serratura e mise il chiavistello. Non le era mai capitato di subire un furto, ma a molte persone di sua conoscenza sì, e a Whitechapel erano fatti all'ordine del giorno.
Si sfilò gli stivali pregni di fango e acqua e li gettò in un angolo. L'appartamento in cui viveva era costituito da una sola stanza, all'incirca due metri per tre. In un angolo era sistemato un letto con un materasso bitorzoluto, un cuscino e una coperta; accanto a esso vi erano un tavolo con una sedia e una credenza, e all'angolo opposto una piccola brace circondata da sassi, e qualche pentola. Sopra il tavolo, incastrato fra il muro e la testiera del letto, c'era uno specchio dal vetro crepato che Anna aveva comprato per pochi scellini da una prostituta che voleva disfarsene. Ai piedi del letto c'era un baule; Anna lo aprì: al suo interno erano ammassati alcuni vestiti, delle calze, una cuffietta, una spazzola con alcuni denti mancanti, del filo interdentale e quello che Anna considerava il suo bene più prezioso – anche se non aveva idea di che cosa fosse, doveva valere parecchio.
Lo prese e lo posò con cura sul letto, come faceva ogni sera.
Si tolse il cappotto e lo gettò sullo schienale della sedia, poi passò a sciogliere i laccetti della cuffietta. Sebbene lo specchio fosse infranto, quando se la tolse poté vedere in che modo disastroso fossero conciati i suoi capelli: afferrò la spazzola e provò a sistemarsi le ciocche bagnate che sfuggivano di qua e di là come serpenti impazziti.
Anna aveva sempre avuto i capelli lisci e molto fini, difficili da acconciare. La moda voleva che le donne portassero le loro chiome lunghissime, il più lunghe possibile, ma lei preferiva tenerli in modo che da sciolti le arrivassero appena oltre le spalle. Non perché così sembrasse più carina, ma perché era minore il rischio di prendersi i pidocchi.
Al St. Mary ti rapavano a zero, se prendevi i pidocchi.
Posò la spazzola e si sfilò il vestito. Gli spifferi freddi che penetravano dall'unica finestra la fecero affrettare a indossare la camicia da notte. Era ancora la sua vecchia camicia di quando ancora viveva all'orfanotrofio, e che negli anni aveva dovuto allungare e allargare in modo che le stesse.
Anche se, ricordò, quella non era la sua unica camicia da notte.
Ne aveva avuta un'altra, in vita sua. Era con una camicia da notte addosso che era arrivata all'orfanotrofio, o almeno, le sembrava che fosse una camicia da notte...
Sospirò, e si sedette sul letto. Si massaggiò la fronte e si stroppicciò gli occhi. Sapeva che non avrebbe dovuto rimuginare su un passato che non esisteva. Avrebbe dovuto mettersi d'impegno per trovare una soluzione a quel pasticcio, e sbrigarsi a trovare un altro lavoro, prima di morire di fame in mezzo a una strada.
Eppure, non poteva farne a meno. Alle parole e al volto di Carruthers si sovrapponevano le immagini della notte in cui era stata portata in orfanotrofio.
Guardò l'oggetto che aveva posato sul materasso, e lo svolse.
Anna aveva sempre pensato che fosse una coperta, una copertina per bambini. Era di lana, lavorata all'uncinetto, e a un angolo erano state ricamate di azzurro dodici lettere.
Anna ne tracciò i contorni con il pollice.
Era in grado di riconoscere ciascuna lettera, ma non di decifrare il significato di quel che era scritto. Forse perché non era capace a leggere bene.
Sospirò di nuovo, quindi si stese supina sul letto, continuando a stringere la copertina fra le dita.
Come spesso le accadeva quando era sola, le tornò alla mente una melodia strana, lenta, un po' triste. Non aveva parole, e dunque non era in grado di canticchiarla, ma era quasi una ninna nanna.
Ascoltò i rumori provenienti dalla strada di fronte al suo appartamento, le grida delle prostitute e degli ubriachi, una musica lontana proveniente da qualche taverna, il vociare dei clienti del The Ten Bells.
Era la ninna nanna di Whitechapel.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Chiedo scusa se in alcuni punti il linguaggio è scurrile e se alcuni personaggi risultano OOC rispetto all'epoca in cui è ambientata la storia. Ha un suo perché, lo capirete nei prossimi capitoli.
Ci tengo a ringraziare chi ha letto, recensito e aggiunto la storia alle seguite. Un grazie particolare va a Claudia per le bellissime immagini che ha fatto e che spero di mostrare anche a voi quando riuscirò a far funzionare come si deve questo HTML che mi da sempre problemi.
La Sonata al Chiaro di Luna sarà una musica importante nel corso della storia. Per chi non la conoscesse, eccola qui.

https://www.youtube.com/watch?v=5-MT5zeY6CU

Un bacio,
Beauty

 
 

 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Beauty