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Autore: FigliadiDurin    01/08/2016    1 recensioni
XVI secolo, la galea Incubo dei mari navigava nei pressi delle coste inglesi pronta per il rientro in patria. La giovane rematrice Eloisa guardava la realtà con ansia e timore: da ormai settimane il suo sonno era disturbato da spaventosi incubi e l’unica cosa che ricordava al risveglio erano i magnetici occhi gialli.
Storia partecipante al contest "Apocalisse: Vivere o Morire" indetto da ManuFury sul forum di Efp
Genere: Horror, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Ghiaccio
«Non ha pensato che sparando avrebbe indirizzato quelle creature verso di noi» gridò la rematrice in faccia all’ufficiale ogni sua perplessità. Con Alvaro a bordo, la seconda barca si era velocemente distanziata dalla grande galea.
«Il cervello del capitano li terrà per un po’ di tempo occupati» ribadì l’uomo fermando Eloisa per il braccio: la presa le fece male, ma non protestò, «sai anche tu che il capitano non meritava di morire come quelle bestie»
No, non lo meritava e questo la ragazza lo sapeva bene.
Nella barca c’era silenzio, nella fuga non avevano portato nessuna torcia e le nuvole scure nascondevano ogni stella. I sopravvissuti avanzavano verso il nulla nel buio più pesto. Sentivano i pezzi della galea che affondavano nell’oceano, cercavano perfino di sforzarsi le orecchie per poter sentire i rumori della cena a base del capitano Alfieri, ma niente.
«Remate con più vigore, quelle creature ci raggiungeranno presto» ordinò Eloisa non prestando particolare attenzione al resto. Cercava di disegnare nella sua mente un piano per la battaglia, ma ogni mossa risultava fallimentare, inutile e poco sensata.
Il rumore delle loro risate, degli ordini e dei remi avevano spinto i morti viventi ad avvicinarsi alla galea; il rumore dello sparo aveva attirato la creatura verso di loro e Charles era stato massacrato a causa del tonfo che aveva provocato cadendo. Tutti quegli eventi avevano qualcosa in comune ed Eloisa, fortunatamente, non tardò a scoprirlo.
«Smettete di remare» sibilò la ragazza ormai in piedi, mentre stringeva nel braccio sinistro la bottiglia vuota e si massaggiava le tempie con la destra. La prospettiva della vittoria era vacillante: un momento era chiara e possibile, il momento dopo era improbabile.
«Cosa? Dovremmo salvarci o velocizzare la nostra morte?» Jack, che non aveva riacquistato nemmeno un minimo del coraggio o spavalderia che aveva prima, in quell’istante era un peso più che un utile compagno.
«Fate come dice lei» disse Alvaro appoggiando ancora una volta la ragazza, come se avesse capito cosa le passava per la testa.
La prima barca ormai era lontana o forse non era ancora partita ma Eloisa non lo riuscì a capire. Per quanto i loro occhi si fossero abituati al buio, scorgere qualche forma sembrava impossibile. Decisero di stare i più vicini possibili, come per accettarsi che ogni singolo compagno salvato era ancora vivo lì con loro. I remi furono buttati a mare lentamente, facendo attenzione a non fare schizzi. Chi batteva i denti per il freddo o la paura smise di farlo, chi aveva la necessità di ascoltare delucidazioni su quella mossa si morse la lingua.
Eloisa sentì il bisogno, però, di calmare l’equipaggio. Se pensava ai modi poco cavallereschi con cui fino a poche ore prima l’avevano trattata la scelta migliore sarebbe stata darli subito in pasto a quelle creature, ma la rematrice si sentiva in colpa. Non era riuscita a capire l’identità delle bestie dagli occhi gialli, non era riuscita a trovare un modo per combatterli, né era stata un comandante responsabile per gli uomini che restavano. Aveva fallito. Aveva trasportato nella morte anche degli uomini innocenti, che il destino aveva voluto dipendessero da lei.
«Fate silenzio» sussurrò debolmente, «queste creature percepiscono il rumore, non aprite la bocca per favore. Io penso di averlo capito, finalmente. Ogni volta che abbiamo provocato frastuono, abbiamo indirizzato quei mostri sempre più vicino a noi; anche nei miei sogni, loro mi inseguivano perché io non smettevo di urlare. Dobbiamo solo rimanere in silenzio: appena si accorgeranno che nella galea non c’è più nulla si disperderanno in mare alla ricerca della prossima preda e dobbiamo sperare che questa sia molto lontana da noi.»
«Il capitano prima di morire mi ha detto che i morti sono come cani, ci fiutano; si accorgeranno di noi.»
«Ufficiale, il capitano non sapeva molto circa queste creature, adesso ne sono sicura. Basta discutere però, dobbiamo fare silenzio.»


***

Dai resti della galea qualcuno o qualcosa si era tuffato nello sporco oceano. Si ammassavano in quel punto di mare, stiracchiandosi lentamente, sbattendo le mani e i piedi ossuti per cercare di nuotare. Così come quando avevano attaccato la galea, alcuni morti affondarono a causa del peso dei vestiti bagnati. Altri rimasero aggrappati ad altri compagni, affondando le dita nello spazio tra le costole, in un fratricidio disperato.
Nuotavano lentamente ma si avvicinavano ed Eloisa non lo sapeva.
I loro occhi riflessi sul mare erano magnetici e spaventosi. Se ci fosse stata la luna ad illuminarli, le iridi avrebbero preso una sfumatura biancastra, così come diceva la rematrice, trasformando l’acqua del mare in un pozzo dove si riflette la luna bianca.
Era inquietante, ma degno di studi ed osservazioni il fatto che quando attraversavano l’acqua non provocavano nemmeno il più debole sciabordio. Si muovevano goffamente, minacciando sempre di affogare. Le creature non avevano bisogno di respirare, il loro viso non stava a contatto con l’acqua; nei più giovani rimaneva sempre quel sottile strato di sporco che quasi si legava indissolubilmente alla pelle. Nemmeno nella parte con cui erano sommersi l’acqua riuscì a levare via il marcio dalle loro ossa, ma era l’abisso blu che si colorava di un nero più scuro al loro passaggio.
Eloisa e i compagni non si erano mossi dalla loro postazione: la barca non si era spostava nonostante le folate di vento fossero davvero intense ma l’equipaggio non se ne accorse, estraniato e perso in qualche mondo lontano.

«Sono qui!» urlò disperata la rematrice saltò all’insù e in quell’istante il cuore le andò in frantumi.
Tutto accadde nello stesso modo. La piccola barca fu presa nella stessa maniera con cui era stata attaccata l’Incubo dei mari, segno che nessuno aveva imparato dal passato.
«Aiuto, aiuto, non voglio morire» pregò il grasso Jack agitandosi come un bambino prima che un morto vivente gli stringesse il collo con l’avambraccio fino a farlo soffocare.
< «Vi chiedo perdono. Scusate, è tutta colpa mia. Ho sbagliato, io non… » Eloisa era in preda al panico, strinse la bottiglia ma quella volta vide gli occhi gialli riflessi e urlò un’altra volta. Indietreggiò ma fu fermata dal bordo della barca, per istinto infranse la bottiglia nel legno frantumando così la sua salvezza. Si tagliò il polso e alcune schegge di vetro le perforarono la pelle della mano ma non ci badò più di tanto perché quell’essere era ormai ad un palmo di distanza da lei.
Puntò il collo della bottiglia rotta in avanti, come per difendersi, credendo che quel miserabile oggetto avrebbe fatto la differenza.
Affondò la bottiglia nel ventre della creatura ma il vetro tagliente della bottiglia non incontrò nulla se non i vestiti consunti del morto. Un proiettile attraversò la testa della creatura fuoriuscendo dall’altra parte: il tiro di Alvaro era stato preciso. Così come il capitano aveva detto, la bestia si era accasciata a terra stordita ma non era affatto morta. Eloisa caricò con tutta la forza che aveva, nessuno scrupolo, nessun timore: la bottiglia andò a frantumarsi nel collo dell’essere staccandogli la testa di netto in due parti. La creatura era stecchita.
La rematrice aveva finalmente capito. Troppo tardi però.
Recuperò quello che rimaneva della bottiglia, sentì il suo sangue caldo e qualcosa di freddo scenderle lungo le dita. Non percepì più gli spari di Alvaro così come il caos si stava affievolendo e le urla diminuivano.
Avevano perso.
Ancora una volta puntò la bottiglia rotta davanti, tenendola con due mani come se fosse una spada ma questo non servì a trasformarla in un’arma vera.
Ripeté lo stesso gesto di prima, ma quella volta il vetro fu distrutto nell’impatto con il collo gracile della bestia.
«Eloisa…» qualcuno urlò il suo nome, forse il piccolo Robert ma non lo capì.
Vide i suoi occhi azzurri riflessi negli occhi gialli del morto vivente e poi basta. Le unghie taglienti le graffirono la fronte strappandole la carne, scesero lungo gli occhi perforandoli, lungo il naso e la bocca. Passarono sul collo dove sgorgò un fiume di sangue e sul petto affondando le dita marce in profondità, tra le costole, fino al cuore.
La creatura le fu sopra banchettando con il suo corpo, strappando voracemente i capelli mori fino a farsi strada tra le ossa del cranio. Allontanò ogni altro compagno dal suo bottino. Continuò a scavare, a strappare, a mordere fino a quando non trovò il suo tesoro.






Salve, sono sempre Francesca ed eccoci alla fine di questa piccola avventura. Ho cercato di essere puntuale negli aggiornamenti ed è stato soddisfacente. Come avevo già anticipato non vado molto fiera di questa storia ma per me è stata una sfida e sono molto felice di averla portata a termine comunque. Mi piace superare i miei limiti!
Vi chiedo scusa per gli errori e se il finale della storia vi possa aver deluso, non era mia intenzione.
Spero di poter migliorare per rincontraci nella prossima storia, perché no?
Un abbraccio Francesca
   
 
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