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Autore: Biboh_Biebs    05/08/2016    0 recensioni
"Sorridi sempre… anche se sarà un sorriso triste, perchè più triste di un sorriso triste c’è la tristezza di non saper sorridere."
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Altri, Calum Hood, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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KESH A35


Capitolo primo.

 



 

Durante l'esperienze che la vita mi aveva fornito ero riuscita a diventare quello che cercavo di evitare ogni giorno della mia vita. Cambiare era stato così facile, ma rifarlo fu impossibile. Ero finita persino a pensare che era la mia volontà a non volerlo fare, con l'aiuto della mia cocciutaggine e pigrizia. Ero diventata l'opposto del mio ideale, quel genere di persone che evitavo per strada, perché dall'apparenza portatori di guai.

Forse ero diventata così solo per piacere alla mia cotta storica, Jordan Stone, che non era affatto il mio ideale, ma mi piaceva un sacco, facendolo sembrare così insolito.

In famiglia nessuno apprezzava quel che ero, oltre a mia sorella Kattie -soprannome dato a causa di uno stupido gioco, che poi le era rimasto a vita. Kattie aveva solamente otto anni, bambina ingenua e sempre alla ricerca di nuovi giochi. Quella che la caratterizzava dagli altri componenti della famiglia -o meglio, rendeva diversa ai miei occhi- era che pian piano diventava una me in mignatura, e la cosa non mi piaceva. Era una bambina solare lei, io una nuvola nera. Erano numerose le volte in cui mia madre mi rimproverava obbligandomi di parlare a Kattie, dicendole che non ero un esempio da seguire. Ma, come me, lei non stava a sentire nessuno.

Passando a mia mamma, bhè, lei era la solita madre severa con un grande odio verso gli adolescenti d'oggi, e mio padre era anche peggio. Di fratelli ne avevo qattro, cinque più me. Kattie, Gordon, Lucas e Fletcher.

Gordon di anni ne aveva ventuno. Abitava nella grande capitale Irlandese, dove a fargli compagnia c'era nostro nonno.

Lucas e Fletcher erano due adorabili gemelli di solo quattro anni, rossi di capelli e dolci d'anima. Più che fratelli, loro, erano i mie fratellastri. Mia madre si era sposata due volte, e dal secondo matrimonio erano nati i due piccoli tempistelli della famiglia. Poteva anche sembrare una normale famiglia, ma si sapeva che ogni famiglia ha una propria caratteristica, e che nessuno sapeva cosa fosse una famiglia normale.

Avevo un lavoro part-time in un negozio di dischi antichi, di cui nome li rappresentava, Long playing. Erano molte le persone che venivano a farci visita, avendo un corridoio, all'interno del negozio, dove vantavamo di pezzi unici e rari. Ero fiera di lavorare in un negozio così, perché lo definivo bello. Ma non era quello che i miei amici dicevano, loro pensavano che era snob e polveroso. Gli avrei tanto voluto dire che tutta quella polvere che ricopriva l'interno del negozio valeva più di loro. Tutto lì dentro aveva avuto la sua storia, ed era così bello poterci stare a contatto.

Era l'undici Novembre il giorno in cui tutto finì, o meglio dire che fu un inizio. Ero nel corridoio della segreteria della mia scuola seduta per terra di fronte alla porta della presidenza in attesa di Jordan. Eravamo seduti sul muretto della scuola a fumare quando si era avvicinato a noi un consulente scolastico, dicendo al ragazzo che doveva seguirlo in presidenza. Jordan aveva subito chiesto il motivo, minacciando che se non gli fosse stato dato non sarebbe andato. Ma quando il consulente lo sentì, gli disse solamente che se non lo avrebbe seguito sarebbe stato espulso senza neanche riuscire ad impedire ciò.

Aveva subito portato il mio sguardo su Jordan, chiedendogli con occhi curiosi cosa avesse fatto, ma lui ne sapeva meno di me. Preoccupata com'ero lo seguii, ma anche per portargli sostegno e per essere un possibile testimone, nel caso ce ne fosse stato bisogno. Era dentro a quella stanza minimo da venti minuti, ed ero rimasta lì anche se le lezioni erano iniziate venti minuti prima. Quando la porta si aprì, mi alzai con uno scatto per poi rimanere delusa dalla faccia di Jordan. Gli andai subito vicino per confermare quel che speravo fosse solo un'alluccinazione. Non lo avevo mai visto con gli occhi gonfi di lacrime e il labbro tremante, e la mia preoccupazione salì ancora di più quando vidi uscire dietro di lui un agente della polizia. Portai le mie braccia dietro al suo collo abbracciandolo, non ricevendo risposta.

"Cosa hai fatto, Jordan?" chiesi allontanandomi, era inutile abbracciarlo se lui non aveva intenzione di ricambiare. Non ricevetti risposta, solo uno sguardo di disperazione.

"Jordan, per favore, rispondimi" ritentai, ma fu inutile perché per la seconda volta non rispose. Portai lo sguardo sull'agente notando che aveva iniziato a parlare con il preside.

"Vanda" sentii parlare il ragazzo davanti a me, e mi misi immediatamente sull'attenti. "Vanda, Kesh A35" disse solo prima che le grandi mani dell'agente lo afferrassero con violenza.

"Vanda, Kesh A35. Calum" urlò, ed io ero più confusa che mai. Corsi verso di lui, afferrando il braccio dell'agente.

"Aspetti, aspetti" dissi, non volevo che portassero Jordan lontano da me, io ci tenevo a lui, era diventato essenziale. Mi sentii strattonare da dietro impedendomi di raggiungerlo, e lui non faceva nulla per permetterlo.

"Signorina, si calmi" disse una voce maschile alle mie spalle. Mille domande iniziarono ad aumentare nella mia mente. Mi girai verso l'uomo, notando che era il preside.

"Dove lo stanno portando?" chiesi con occhi sgranati, ancora incredula della situazione. Ma come potevo non esserlo? Conoscevo Jordan, sapevo che lui non era un bravo ragazzo, ma non aveva mai fatto nulla che lo portasse all'arresto. Lui era attento, perché la situazione che stavamo vivendo la cercava di evitare. Sapevo in cuor mio che lui non aveva fatto nulla, ma il suo sguardo, i suoi occhi spenti e il sorriso sfacciato assente mi stava facendo dubitare.

"È stato arrestato, signorina" mi rispose con un sorriso sfacciato, come se non aspettasse altro che accadesse. Lo guardai incredula, e probabilmente con un espressione come se mi avesse appena detto che era morto. Le sensazioni erano quelle alla fine, perché non sapevo se avrei potuto vederlo da lì a qualche anno, non sapevo neanche cosa avesse fatto, giusto per darmi un'idea, un motivo, di quanto fosse grave quello che aveva fatto. Ma nessuno era intenzionato a spiegarmi, anche vedendo il mio stato. Nessuno che fosse venuto vicino a me e, per compassione, me lo avesse detto.

Quando mi allontanai dal preside uscii in fretta dalla segreteria. Se quella era l'ultima volta che lo avrei visto, non volevo ricordarlo quasi in lacrime. Lo vidi in lontananza, stretto dalle mani dell'agente, pronto a tenerlo in una probabile fuga. Fu tutto più confuso quando si girò verso me e mi mostrò un sorriso, facendomi chiedere come facesse a sorridere in una situazione così. Quel sorriso non lo seppi interpretare, perché era tutto e niente. Era un misto di sorrisi. Era uno di quelli che lasciava alle ragazza per strada quando le trovava attraenti, oppure quelli di quando mi diceva di aver preso una C+, o altro ancora quelli prima di pestare qualcuno. Aggiustai la tracolla e camminai verso la mia classe, anche se la mia volontà avrebbe seguito un'altra direzione. Dovevo applicare una forza particolare per impedire ai miei piedi di tornare indietro o di stare semplicemente calma.

I miei passi emettevano un modesto suono, che rieccheggiava per il corridoio silenzioso e inquietante di quella scuola, che suo scopo era di istruire i studenti alla bella meglio, ma fallendo con alcuni di noi. Era la classica scuola da snob, ricchi e viziati. E un po me ne vergognavo a farne parte, perché io non ero nè ricca nè viziata, solo problematica. E mia madre ci teneva al mio andamento, ma io la rendevo felice solo per metà. Perché seppur avendo buoni voti, la mia condotta era pessima.

Quando arrivai dinanzi alla mia classe feci un lungo sospiro, non sentendomi proprio in forma nel rimanere lì per la prossima ora e quella dopo, avrei potuto dare di matto. Le mie nocche batterono sul legno antico della porta, che fu aperta dalla professoressa di storia, che il suo sguardo severo mi invogliava a scappare via, che una strigliata me l'avrebbe fatta.

"Signorina Murray, sa che tra quindici minuti suonerà la campanella e che poteva benissimo risparmiarci delle sua presenza?" mi chiese con un filo di voce sarcastica. I miei occhi andarono a finire sull'orologio dietro alle spalle della mia insegnante, e notai che, effettivamente ero in un maestoso ritardo. Quanto tempo avevo aspettato Jordan?

"Mi scusi, non accadrà più" sussurrai abbassando il capo. "Si sente bene, signorina?" mi chiese togliendosi gli occhiali e con voce leggermente preoccupata. "Ha un viso pallido" aggiunse. "In realtà non molto" dissi in un sussurro, e quella fu la prima volta che non mentii. Perché erano numerose le volte in cui dovevo far finta di star male per andare a fumare con Jordan, perché in ritardo.

"Ti firmo il permesso per andare in infermeria" disse tornando alla cattedra. Mi girai verso i miei compagni e vidi che mi guardavano tutti, nessuno escluso. Senza farmi vedere dall'insegnante, alzai la mano, assieme al dito medio, dedicato solo a loro. Molti sgranarono gli occhi, altri mi lanciarono occhiatacce.

Quando il permesso fu tra le mie mani, a passo più che lento, camminai verso l'infermeria, che non distava molto. Avrei approfittato per dormire e capire un po cosa significasse Kash A35-Calum, che sembrava la cosa più difficile che una persona mi avesse mai detto. Non avevo idea di cosa o chi fosse, Jordan non aveva mai nominato quelle parole prima di quel giorno, e mi chiedevo se ne avrei dovuto parlare anche con gli altri. Dieci minuti più tardi, stesa sul letto nascosta dalla tendina, afferrai il mio cellulare, sperando che la carica reggesse. La notte precedente ero rimasta ad ascoltare la musica, esaurendo quasi tutta la carica che disponeva. Imprecai mentalmente quando vidi che lo schermo era nero, avvertendomi che era letteralmente morto. Sbuffai pesantemente e posai il cellulare dentro alla borsa. L'infermiera forniva di un MacBook che avrei potuto usare, se avessi chiesto e se, ovviamente, mi avesse dato il consenso. Scesi dal letto e tirai via la tendina, notando l'infermiera al Macbook, che sentendo il fruscio della tendina, portò lo sguardo su di me.

"Ti serve qualcosa cara?" mi chiese con quel tono di voce che erano costrette ad usare, per apparire dolci e carine. "Potrei usare il vostro Macbook?" chiesi facendo gli occhi dolci, che era sempre l'arma imbattibile di tutti, ma di certo non la mia.

"Temo di no" disse dura, come se le avessi chiesto di usare una delle sue cose più personali. "La prego" la supplicai. Dovevo sapere assolutamente cosa volesse dire Jordan con quelle parole, e non riuscivo ad aspettare fino al rientro a casa.

"Le ho detto di no" disse dura. Dove era finito quel tono dolce? Sbuffando coprii il mio corpo con la tendina impedendole di vedermi e mi stesi sul lettino a far nulla. Non potendo usare il MacBook decisi si fare altro. Ma poi il mio pensiero ritornò sulle parole di Jordan. Oltre a Kash A35 aveva citato altro, un nome, o almeno è quello che credevo potesse essere. Mi misi a sedere sul letto e riaprii la tendina, che aveva dei motivi che ricordavano quelli del bagno di casa mia. L'infermiera mi lanciò un sorriso, lo stesso di tutte le volte che la vedevo.

"Dimmi pure, cara" E quel tono non voleva proprio toglierlo, non rendendosi conto che era così dannatamente fastidioso. "Secondo lei, Calum è un nome?" chiesi. Ci pensò sopra prima di sorridermi. "Si, è un nome" annuì. "E in questa scuola c'è qualcuno che ha questo nome?" chiesi alzandomi dal letto e avvicinandomi a lei. "Oh certo" si aggiustò gli occhiali e iniziò a pigiare dei tasti, probabilmente stava scrivendo qualcosa.

"Calum Lee della quinta As" disse dandomi una veloce occhiata. "Calum Lee, grazie" dissi in modo frettoloso. Afferrai la mia tracolla e corsi fuori dall'infermeria. I miei scarponi emettevano un forte suono che riecchegiava per il corridoio vuoto. Svoltai a destra e iniziai a salire le scale, con il fiato corto e tante domande da fare a Calum Lee.

  
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