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Autore: Atanvarne    05/08/2016    3 recensioni
"Finn. Maya. Dante. Wells. Anya. Charlotte.
Erano morti per colpa sua. Abitanti dell’Arca, di Mount Weather, Terrestri, nessun popolo aveva fatto eccezione, nessuno. Ognuno aveva subito delle perdite, tutte per causa sua. Aveva ucciso delle persone, altre erano morte per averla ostacolata. Aveva fatto tutto il possibile per salvare i suoi amici, quelli che ora la odiavano, quelli da cui stava cercando di scappare. Aveva sacrificato delle vite importanti per salvarne altre, ma non aveva più senso, ormai. Vecchi, bambini. Non poteva permettere che succedesse ancora[...]"
La storia ha inizio nell'istante successivo a quello della fine della seconda stagione e segue dapprima i percorsi paralleli di due personaggi. L'evolversi delle vicende porterà le loro strade a riunirsi, ma le cose rimarranno immutate? Oppure nulla sarà come Clarke ricordava?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Anthem for Doomed Youth
Chapter I - Anthem for Doomed Youth
"What passing-bells for these who die as cattle?
Only the monstrous anger of the guns.
Only the stuttering rifles' rapid rattle
Can patter out their hasty orisons.
No mockeries now for them; no prayers nor bells;
Nor any voice of mourning save the choirs, –
The shrill, demented choirs of wailing shells;
And bugles calling for them from sad shires.
What candles may be held to speed them all?
Not in the hands of boys but in their eyes
Shall shine the holy glimmers of goodbyes.
The pallor of girls' brows shall be their pall;
Their flowers the tenderness of patient minds,
And each slow dusk a drawing-down of blinds."

-Wilfred Owen
 
Finn. Maya. Dante. Wells. Anya. Charlotte.
Erano morti per colpa sua. Abitanti dell’Arca, di Mount Weather, Terrestri, nessun popolo aveva fatto eccezione, nessuno. Ognuno aveva subito delle perdite, tutte per causa sua. Aveva ucciso delle persone, altre erano morte per averla ostacolata. Aveva fatto tutto il possibile per salvare i suoi amici, quelli che ora la odiavano, quelli da cui stava cercando di scappare. Aveva sacrificato delle vite importanti per salvarne altre, ma non aveva più senso, ormai. Vecchi, bambini. Non poteva permettere che succedesse ancora.
Finn. Il suo volto la terrorizzava ogni notte. Sognava il suo viso pieno di paura, poco prima di affondare il coltello nel suo cuore, poco prima che lui la ringraziasse per quello che stava facendo.
Grazie, Principessa.
Come aveva potuto? Avrebbe dovuto trovare un modo per salvarlo, così come aveva fatto a Mount Weather, quando aveva scelto di porre fine alla vita di centinaia di persone per permettere ai suoi di vivere. Avrebbe dovuto farlo anche con Finn.
Ora doveva allontanarsi se voleva continuare a vivere con se stessa; non poteva guardare negli occhi tutti quelli a cui aveva portato via qualcuno senza sentirsi colpevole e giudicata.
Continuò a camminare senza voltarsi indietro, accertandosi di non inciampare tra le radici degli alberi secolari che circondavano Camp Jaha.
Non aveva voluto dire addio a nessuno, eccetto Bellamy, l’unico su cui poteva contare e che sapeva non le avrebbe mai impedito di andare per la sua strada, perché se fosse stato in lei le avrebbe chiesto di fare lo stesso. Stavolta era stato forte per entrambi, ma Clarke sapeva che lo avrebbe rivisto ancora, o almeno lo sperava enormemente.
Vivere da sola nei boschi sarebbe stata una sfida per lei: innanzitutto occorreva trovare un posto in cui passare la notte, dal momento che il freddo iniziava a farsi sentire. Con la nebbia acida fuori uso fu molto più semplice avvicinarsi all’unico luogo in cui era sicura di trovare riparo: il bunker, quello in cui aveva condiviso con Finn alcuni dei momenti più belli da quando erano stati mandati sulla Terra come carne da macello, prima che Raven sbucasse dal nulla, e Finn le spezzasse il cuore. Non era convinta di essere pronta a tornare lì, ma era l’unica possibilità che aveva per sopravvivere e non essere trovata. Con passo veloce percorse senza sbagliarsi quella strada, ormai impressa nella sua mente in modo nitido. Dopo circa un’ora di cammino raggiunse lo spiazzo e, spostando il muschio che ricopriva il terreno, aprì una porta e vi si calò all’interno.
Era tutto come lo ricordava: gli scaffali pieni di cianfrusaglie, scatole con giocattoli sotto il tavolo e accanto al divano, il letto disfatto dall’ultima volta in cui vi aveva dormito. Con tutta la forza di volontà che ancora possedeva cercò di ignorare i pensieri che, opprimenti, provavano a farsi spazio nella sua mente, perché forse questo era troppo anche per lei. Trascinandosi, si avvicinò al divano e iniziò a fare ordine e a sistemare le cose che Raven aveva gettato a terra quando, l’ultima volta che erano state lì, cercava componenti che le potessero essere utili per riparare la radio che Bellamy aveva distrutto, e senza cui non erano riusciti a contattare l’Arca. Quanto tempo era passato? Talmente tanto, eppure Clarke ricordava ogni singolo momento di quel giorno: l’imbarazzo provato nel trovarsi da sola con la ragazza della persona che amava, e la consapevolezza di averle fatto del male, sapendo che ormai non poteva farci niente, che i suoi sentimenti verso Finn non sarebbero svaniti in un attimo. Però ce l’aveva fatta, era riuscita a farsi da parte e a permettergli di essere felici insieme, anche se per poco. Ora che tutto era finito e lui non c’era più, doveva andare avanti e smetterla di rincorrere i fantasmi del suo passato. Lexa glielo aveva detto, l’amore era una debolezza e Clarke ne aveva avuto la prova più volte, non poteva permettersi di cedere di nuovo ai sentimenti, e vivere da sola l’avrebbe allontanata da questo pericolo.
Continuò a riordinare per un po’ e dopo aver infilato tutto nelle scatole di cartone sparse per la stanza, le spostò accanto alla libreria per potersi sdraiare sul divano a riposare. Nel sedersi la sua attenzione fu catturata da un piccolo rumore metallico, come una catenella le cui due estremità si scontrano tra loro, così si rialzò in piedi e con uno strano presentimento sollevò il cuscino. Un piccolo oggetto brillava, mezzo seppellito dal bracciolo. Clarke allungò la mano e lo afferrò, mentre il suo petto fu percorso da un senso di vuoto: il ciondolo che Finn le aveva costruito e regalato era tra le sue mani, ancora intatto. Un cervo a due teste, il primo essere vivente che avevano visto appena arrivati sulla Terra, la prima avventura che avevano condiviso insieme. Tutte le barriere che aveva provato ad erigersi intorno fino a quel momento crollarono in un secondo e Clarke si sentì sola come non mai.
Le lacrime le annebbiarono la vista e, sapendo che ormai non poteva fermarle, si disse che quello sarebbe stato il suo ultimo atto di debolezza, dall’indomani avrebbe iniziato una nuova vita. Si concesse di piangere e diede sfogo a tutta la rabbia e alla frustrazione che aveva accumulato. Pianse fino a star male e poi si addormentò.
Finn. Maya. Dante. Wells. Anya. Charlotte.
Quella notte li sognò tutti.
 
 
 
L’atmosfera a Camp Jaha si era fatta pesante: nessuno si era accorto che Clarke se ne fosse andata, e fino a quel momento nemmeno uno di loro si era preoccupato di chiedersi dove potesse essere. Come potevano pretendere di tenere sotto controllo un popolo se si lasciavano sfuggire da sotto il naso una ragazza di diciotto anni? Certo, Clarke era sempre stata brava in questo genere di cose, ma perfino sua madre era troppo occupata per rendersi conto che sua figlia era scomparsa? Solo quando il sole stava iniziando a tramontare Abby si era accorta della sua assenza, mobilitando Kane e una squadra di ricognizione, e sbraitando ordini a tutti.
Se avesse voluto farsi trovare non se ne sarebbe mai andata, e con ogni probabilità aveva già trovato un posto in cui passare la notte.
-Bellamy, tu andrai con Kane. Se vi dividete e partite subito potrete tornare prima che faccia buio, io non posso ancora muovermi, sarei solo d’intralcio. -
-Preferirei riposare, sono sfinito. –
-Non se ne parla nemmeno, mia figlia è lì fuori e non la lascerò un’altra volta. –
L’insistenza della cancelliera lo fece innervosire.
-Se avesse voluto rimanere, lo avrebbe fatto. – concluse incamminandosi verso l’interno.
-Blake! – la voce di Abby lo rincorse.
-Abbiamo bisogno di te, so che tieni a Clarke, te lo leggo negli occhi. Ti chiedo di aiutarmi a non perderla di nuovo. –
Bellamy sapeva che aveva ragione, e con tutto se stesso avrebbe desiderato che Clarke fosse stata lì, per aiutarlo a sopportare il fardello di quanto accaduto a Mount Weather, ma non poteva tradire la sua fiducia.
-Mi dispiace, non posso. –
-Tu lo sapevi. –
Lo sguardo della cancelliera lo perforò. Lo fece sentire colpevole per non essersi opposto alla sua decisione di scappare, ma l’unica cosa che Bellamy rimpiangeva davvero era non essere andato con lei, non esserle stato accanto quando ne aveva più bisogno. Con lo sguardo e la voce più fermi che aveva:
-Non so di cosa tu stia parlando. –
-Sapevi che Clarke aveva deciso di non rimanere, e glielo hai permesso! Come hai potuto? –
La sua intonazione aveva perso intensità e i suoi occhi, ormai provati dal dolore e dall’enorme peso che la carica di cancelliere portava con se’, si erano riempiti di lacrime.
-Più di ogni altra cosa vorrei che lei fosse qui, ma so che ha bisogno di ritrovare se stessa, e non gliel’ho impedito. –
-E’ solo una ragazzina, Bellamy. –
-Clarke è un leader, e lo ha sempre dimostrato. Ha sopportato molto più di quello che tutti noi immaginiamo, e merita un po’ di tempo. –
Arresa e afflitta, dopo averlo pregato un’ultima volta con sguardo supplichevole, Abby se ne andò, e Bellamy rimase solo.
Quell’inutile discussione lo rese molto nervoso, e per tutta la cena evitò di rivolgere lo sguardo verso Harper, Miller e Raven, i quali non avevano fatto altro che parlare di Clarke. Jasper invece non si fece vivo per tutta la sera, rimanendo chiuso in quella che era diventata la sua stanza dopo il ritorno da Mount Weather. Bellamy sentì un tuffo al cuore. Aveva rischiato così tanto infiltrandosi tra gli Uomini della Montagna, e l’unica cosa a cui riusciva a pensare era che rimaneva un assassino, che aveva messo in gioco la sua vita e quella di tutti i suoi amici perché non si combattesse una guerra, eppure aveva solo ucciso persone innocenti, lasciando che morissero per l’esposizione alle radiazioni; alcuni di loro avevano figli, altri nipoti. Tutti morti, perfino Maya, senza cui non sarebbe mai riuscito nella sua missione. Non era la prima volta che per egoismo aveva messo fine alla vita di centinaia di persone: prima 320 dei loro erano morti sull’Arca, soltanto perché temeva di essere giustiziato qualora fossero riusciti ad arrivare sulla Terra, ed ora questo. Non si sarebbe mai liberato di un tale fardello.
-Bell, tutto bene? – Octavia lo riportò alla realtà, e si sedette accanto a lui.
-Hey, si, tutto a meraviglia. –
-Certo, come no, e io non ho mai vissuto sotto un pavimento. –
-O, smettila, sto bene. –
-Bell, non stai bene, non mentirmi. – Disse guardandolo con determinazione negli occhi.
Con chi poteva parlarne se non con lei? Octavia era la sola persona che lo aveva sempre amato incondizionatamente, anche quando le cose tra loro non erano state delle migliori. Era il motivo per cui entrambi ora si trovavano sulla Terra, per cui aveva abbassato quella maledetta leva a Mount Weather; era per poterla vedere e abbracciare ancora che Bellamy aveva accettato il patto e sparato a Jaha.
-O, non posso continuare così: ho ucciso troppe persone che con questa guerra non avevano nulla a che fare. Voglio smetterla di compiangermi e fare qualcosa che aiuti davvero, per una volta… - e dopo aver inspirato profondamente, continuò: -Se Clarke fosse qui saprebbe cosa fare. –
Quest’ultima affermazione gli costò più di quanto avrebbe voluto ammettere, ma lo sguardo glaciale di sua sorella non fece trasparire alcuna emozione.
-Non sei tu l’assassino, Bell, non hai nessuna colpa. Clarke avrebbe lasciato che quegli innocenti morissero, in ogni caso, proprio come ha fatto a Tond’c. O non te l’ha mai detto? –
Bellamy sgranò gli occhi.
-Che cosa vuoi dire? –
-Clarke sapeva che il villaggio stava per essere bombardato e nonostante questo è scappata a nascondersi con Lexa. Ha lasciato morire centinaia di uomini, donne e bambini, e non soltanto tra i Terrestri. C’eravamo anche noi lì, Bell. Io, Kane... abbiamo rischiato di morire per permetterle di fuggire, capisci? –
Non riusciva a credere a quello che aveva appena sentito, il mondo gli crollò sulle spalle in un secondo. Come era possibile? Come poteva Clarke aver fatto una cosa del genere? Quel comportamento non era da lei, o almeno non della persona che aveva creduto di conoscere fino a quel momento. Non l’avrebbe mai perdonata per aver messo a rischio la vita di Octavia e aver tradito la sua fiducia.
-Sinceramente, sono contenta che se ne sia andata, se fosse rimasta avrebbe messo di nuovo in pericolo tutti noi, e fatto sentire te responsabile per qualcosa che non avevi fatto. –
-Evidentemente non la conoscevo abbastanza, ma questo non cambia le cose: ho abbassato anch’io la leva a Mount Weather, sono responsabile per la morte di quelle persone tanto quanto lei. –
-Nessuno qui ti ritiene colpevole. Ci hai salvati, ti sei infiltrato tra gli Uomini della Montagna e hai concesso ai nostri di tornare a casa sani e salvi; non sei un assassino, Bell. –
-Basta, ti prego. Non voglio più parlare di questo o di Clarke. L’unica cosa che ora desidero veramente è rendermi utile a Camp Jaha, svuotare la testa per un po’ e dimenticare tutto. –
Gli occhi azzurri della sorella si sciolsero e gli dedicarono uno sguardo carico di dolcezza e comprensione.
-Vieni allora, andiamo da Kane. Avrà sicuramente qualche incarico divertente da affidarci. –
 
 
 
Un incubo, più vivido degli altri, svegliò Clarke di scatto, facendola quasi rotolare giù dal divano, ormai intriso di sudore. Asciugandosi la fronte con la manica della maglia, si mise a sedere e riprese fiato. Il buio di quel bunker la circondava, e l’unica cosa che riusciva a scorgere era la vaga forma delle sue mani. Impaurita ed ancora accaldata decise di uscire a prendere un po’ d’aria, quindi salì le scale ed uscì, trovandosi di fronte uno spettacolo mozzafiato: la fievole luce dell’alba iniziava a farsi spazio tra le fronde degli alberi circostanti, e una brezza leggera ne smuoveva le foglie. C’era però qualcosa di profondamente sbagliato in quella visione edenica: alcune foglie si muovevano e agitavano più di altre, e non si udiva il canto di un solo uccello. Clarke fissò per qualche secondo quel punto fra gli alberi, e distolse lo sguardo subito dopo.  
Fece un respiro profondo e poi si voltò per tornare nel bunker, ma un rapido fruscio la tenne sull’attenti. Facendo finta di niente continuò a camminare, dirigendosi verso l’entrata del suo riparo e concentrandosi sui rumori circostanti. Prima di scendere le scale si bloccò e si chinò a terra per raccogliere una pietra, così si girò di scatto, pronta a lanciare l’oggetto, per trovarsi di fronte una figura incappucciata, che le tenne bloccato il braccio con forza.
Clarke riusciva ad intravedere solo qualche ciuffo di capelli rossi spuntare sulle sue spalle, ma senza perdere la concentrazione tentò di dimenarsi e liberarsi dalla sua presa, invano.
-Calma, ragazzina. –
Una voce di donna si fece largo da sotto il copricapo.
-Cosa vuoi da me? –
La donna lasciò il braccio di Clarke, fece qualche passo indietro, sollevò le mani in alto, in segno di resa, e con tutta calma si tirò via il cappuccio.
-Tu chi sei? – Tentò di nuovo Clarke.
-Il mio nome è Elettra, e posso insegnarti a sopravvivere. -













****Non posso darmi un tempo, perchè mi conosco, e so che probabilmente non sarei in grado di rispettarlo, ma se la storia vi ha incuriosito almeno un po', e il capitolo arriva a tre recensioni, penso di pubblicare velocemente il secondo.
Parto dalla premessa che il titolo di questa storia è preso da un'opera di Wilfred Owen, War Poet che scrisse durante la prima guerra mondiale. L'ispirazione è nata proprio dalla poesia che trovate in alto alla pagina, il cui titolo significa appunto "Inno per la gioventù sacrificata" ed è divenuto anche il titolo del primo capitolo, in memoria di tutte le persone che Clarke e Bellamy rimpiangono di aver ucciso. In realtà spero che vi piaccia, o che almeno il primo capitolo vi invogli a leggere il secondo :3 Ci tenevo a fare questa premessa, e niente, ora me ne vado, e conto su di voi <3 

 
  
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