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Autore: charliespoems    06/08/2016    3 recensioni
[TsukkiYama]
C’erano davvero poche cose che Tadashi odiava, a parte il masticare a bocca aperta e lo sfregare dei denti sulle bacchette che i suoi nonni emettevano mentre gustavano la propria zuppa di miso. Ma, probabilmente, le cose che fin da piccolissimo proprio non sopportava erano coloro che facevano parte di lui dall’inizio della sua vita.
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Kei amava davvero poche cose, ma tra queste oltre alla pallavolo e alla musica, poteva sicuramente aggiungere l’osservazione delle stelle.
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La prima volta che si incontrarono, Yamaguchi stava quasi del tutto disteso a terra, mentre dei bulletti del quarto anno cercavano di sottrargli la merenda prendendolo in giro per ovvi motivi.
La seconda volta che si incontrarono, accadde nella palestra della scuola. Yamaguchi era diventato tutto rosso mentre lo ringraziava, e Kei cercava – mentre palleggiava un po’ – di ricordarsi chi fosse.
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"Abbi più palle e guardati come ti guardo io.
Le cose che odi a volte sono quelle che gli altri amano di più."
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Non sono molto brava con le trame, ma spero che possa avervi incuriosito!
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kei Tsukishima, Tadashi Yamaguchi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciò che odi tu è ciò che amo io.
 

     C’erano davvero poche cose che Tadashi odiava, a parte il masticare a bocca aperta e lo sfregare dei denti sulle bacchette che i suoi nonni emettevano mentre gustavano la propria zuppa di miso. Ma, probabilmente, le cose che fin da piccolissimo proprio non sopportava erano coloro che facevano parte di lui dall’inizio della sua vita.
A sette anni, quando si guardava allo specchio e notava quei puntini stonare sulla sua pelle, faceva smorfie di disgusto e si lamentava ad alta voce con la madre, di tanto in tanto sbattendo i piedini a terra. Yamaguchi-san gli diceva di essere paziente, sorridendogli, ché le lentiggini erano un dono non predestinato a tutti ma solo alle personcine speciali come lui, per poi fargli il solletico baciandogliene una ad una, provocandogli mugolii e risate.
A otto anni iniziava a contarle spargersi non solo nelle guance e nelle spalle, ma nella schiena, nella pancia e nelle cosce. Talvolta persino nelle caviglie. Si sentiva sommerso e desiderava cancellarle, se non tutte almeno qualcuna, e piangeva chiedendosi perché la gomma raccattata nel suo astuccio funzionasse solo sui fogli di carta e non sulla sua pelle.
     A nove anni i suoi compagnetti di scuola lo additavano sorridendogli, le bambine lo squadravano dalla testa ai piedi e si chiedevano perché lui fosse macchiato e loro no. Tadashi aveva detto una bugia a sua madre per la prima volta: quella mattina non aveva la febbre e sarebbe potuto andare a scuola.
«Hiyori-chan, Yamaguchi-kun ha le cacche di mosca sul naso, lo senti quanto puzza?» Le risa si libravano in aria, mentre le lacrime cadevano inesorabilmente al suolo. «Yamaguchi-kun sembra un dalmata» «Yamaaguuchii, vuoi che ti laviamo la faccia?» Le loro bocche si allargavano felici, derisorie. Quel tono cominciava a fargli prudere le mani e le orecchie non volevano sentire. Un dono. Pensò per la ventesima volta – le aveva contate, purtroppo, perché queste cose un bambino a dieci anni non le dovrebbe pensare – che sua madre fosse una bugiarda, che anche lei si stesse prendendo gioco di lui. Un dono, davvero? Avrebbe voluto cancellarle con i graffi, con i morsi, con qualsiasi cosa possibile. «Sparite» si guardava allo specchio e più lo faceva più le preghiere silenziose venivano a galla, sussurrate. «Sparite!» il tono poi si alzava, i denti stringevano e le mani venivano chiuse a pugno. «SPARITE!» le grida si facevano sempre più forti, la gola faceva male e gli occhi erano ricolmi di lacrime.
 
        Kei amava davvero poche cose, ma tra queste oltre alla pallavolo e alla musica, poteva sicuramente aggiungere l’osservazione delle stelle.
La pallavolo lo faceva sentire bene, completo. La musica aveva la capacità di estraniarlo dal mondo, di permettergli di crearsi un proprio spazio, lo spazio ideale. Se avesse potuto, avrebbe vissuto con gli auricolari (o con le cuffie giganti, ancora meglio anzi) per l’eternità. Le stelle, però, lo avevano colpito in modo diverso. Lo rilassavano, mentre alzava il naso all’insù e cercava di indovinare qualche costellazione. Era affascinante chiedersi come fossero le altre galassie, quante stelle ci fossero nel cielo, studiarne le posizioni ed i moti. Era rilassante e per un verso soddisfacente, specie quando riusciva a distinguere le corrette posizioni delle costellazioni.
      Di Kei Tsukishima non si poteva dire di certo che fosse un ragazzo esagitato e pieno di voglia di vivere. Era al contrario perennemente annoiato, con l’aria di sufficienza come espressione perenne e sbuffi come pane quotidiano. Però guardare le stelle gli faceva provare quel briciolo di emozioni che la vita di tutti i giorni non riusciva a donargli.
 
   La prima volta che si incontrarono, Yamaguchi stava quasi del tutto disteso a terra, mentre dei bulletti del quarto anno cercavano di sottrargli la merenda prendendolo in giro per ovvi motivi. È che Tadashi era troppo buono, troppo gentile con le persone e troppo sorridente per capire. Per Tsukishima era stato automatico, con il suo sorriso – che più che un sorriso sembra una smorfia forzata – canzonare quei teppistelli. Grazie alla sua altezza, infatti, sembrava molto più grande di loro. Tsukishima non lo fece per solidarietà o per buona condotta, aspettandosi chissà quale gratificazione dal karma. La musica stava venendo disturbata dagli schiamazzi di quegli stupidi e lui non poteva sopportarlo, così come non sopportava altre miriadi di cose. Non vide nemmeno in viso il ragazzino che, con occhi colmi di lacrime ed uno sguardo di gratitudine, lo ringraziava silenziosamente.
 
    La seconda volta che si incontrarono, accadde nella palestra della scuola. Yamaguchi era diventato tutto rosso mentre lo ringraziava, e Kei cercava – mentre palleggiava un po’ – di ricordarsi chi fosse. Nonostante questo, non appena alzò lo sguardo verso il viso del ragazzino, non poté non fare caso alla miriade di puntini che gli cospargevano la faccia quasi per intero. Si disse che, così rosso, assomigliava alle fragole che sua madre posizionava in modo bizzarro nelle torte, oppure a quegli stupidi giochi dove bisognava formare l’immagine seguendo determinati punti. Kei non amava particolarmente le lentiggini sulle persone, ma potevano sembrare tante piccole comete che, in caduta libera, venivano poggiate su pelle soffice. Scoprì di essere un po’ invidioso e, nonostante non avesse sentito una parola di quello che Tadashi gli stesse dicendo, gli rispose comunque di fare silenzio.
 
     A sedici anni, Kei era alto quasi 1.88 e Yamaguchi era diventato – praticamente – la sua ombra. Aveva iniziato a chiamarlo Tsukki dopo una giornata di pioggia, mentre a casa del più grande gustavano un pezzo di torta farcita. «Ci conosciamo da un sacco di tempo e ancora non ti ho trovato un soprannome» continuava a lamentarsi, il moro, dondolandosi avanti e indietro. «Non è necessario» sbuffò l’altro in risposta. «Sì che lo è! Sei il mio migliore amico, devo darti un soprannome!» «Se proprio ci devi ragionare fallo in silenzio» «Scusa, Tsuki-!» un movimento brusco di Yamaguchi fece volare la sua forchetta dall’altra parte del divano, finendo nel sparare pezzi di torta in aria e sulla sua faccia.
    «Mi dispiace tantissimo» sussurrò con gli occhi sgranati, mentre Tsukishima ormai esasperato sbuffava rumorosamente. Notò solo dopo che, mentre tentava di pulirsi, Yamaguchi aveva spostato la torta unendo qualche sua lentiggine, formando linee indefinite. Cercò di non focalizzarsi sul fatto che lì in mezzo avrebbe potuto trovare miliardi di costellazioni, arrossendo un po’ e cercando di nascondersi raccogliendo i pezzi di torta finiti a terra. «Comunque ho trovato il tuo soprannome: Tsukki!» sorrise l’altro, facendolo sbuffare in modo fintamente arrabbiato. Cercare di nascondere le risate con Yamaguchi era terribilmente difficile.
 
    A diciassette anni Yamaguchi si era chiuso nel bagno di casa sua per due giorni di fila, senza volerne uscire fuori. Sua madre aveva minacciato di chiamare la polizia ininterrottamente, aveva cercato di aprire la porta in mille modi diversi, ma sentirlo piangere dall’altra parte era tanto straziante per lei che, in fondo, non aveva idea di cosa fare. «SEI UNA BUGIARDA» le aveva urlato, sbattendo i pugni sulla porta, mentre lei dall’altra parte osservava il legno con uno sguardo vuoto, spento. «Tadashi, ti prego» sussurrò. «Esci da lì» «SMETTILA, È SOLO COLPA TUA» le grida ed i singhiozzi non cessavano. «Io-Io non le ho mai volute. Pensavo fosse finita, ma- Ma invece no! Non le sopporto, voglio che se ne vadano! Stavano sparendo, erano diminuite, ma ci sono lo stesso. Io le odio» un ennesimo singhiozzo. «Ti hanno detto qualcosa oggi, a scuola?» la mamma si sedette con la schiena contro il legno della porta, ignara che dall’altra parte suo figlio giaceva nella stessa posizione. «Pensano che sia sporco. Le lentiggini non sono usuali e fanno schifo» borbottò con cattiveria. «No, non lo sono, Tadashi. Per questo sono un don-» «SONO UNA PERSECUIZIONE!» gridò di nuovo, sbattendo la nuca sulla porta con stizza. «Voglio cancellarle, Okaa-san» singhiozzò.
 
      A diciassette anni, Kei, dopo non aver visto Yamaguchi per una settimana, lo rivide a scuola in giardino, in una panchina anonima su uno spiazzo poco affollato, mentre ingurgitava qualcosa di salato. Sbuffò, avvicinandosi, mentre la musica gli invadeva le orecchie. «Non sei morto» lo disse quasi come se gli dispiacesse, mentre lo guardava dall’alto al basso. Ma non lo pensava. «No» lo sentì sbuffare un sorriso, ma non alzò la testa per guardarlo. Gli picchiettò la fronte con il medio, facendogli anche parecchio male. Levò la fronte all’istante, guardandolo storto, per poi pentirsene subito dopo. Un graffio tagliava la sua guancia da sotto l’occhio sin quasi al mento. Nonostante questo, Tsukishima notò qualcosa che lo fece innervosire ancora di più. «Yamaguchi-kuun!» entrambi si girarono a quel richiamo e Kei non poté a fare a meno di notare un leggero rossore nelle guance del suo amico. Ma non il tipico rossore, quella volta era troppo tenue per appartenergli. «Yamaguchi-kun, ha funzionato? Ha coperto il graffio e-» la ragazza si avvicinò correndo, squadrò Tsukishima per un secondo, s’inchinò in segno di saluto e poi, imbarazzata, continuò. «E, bé, il resto?» «Grazie mille Kaori-chan, ha funzionato benissimo» il sorriso di Yamaguchi era caldo, passava tra le viscere da parte a parte con una dolcezza che faceva quasi male. «Ne sono davvero felice! Buon intervallo, allora» salutò di nuovo, s’inchinò verso Tsukishima per poi andarsene com’era arrivata. Kei lo guardò con uno sguardo misto fra il furioso e l’eternamente incazzato. Non gli si addiceva molto, pensandoci, ma in quel momento non poté farne a meno. «Dove diavolo sono le tue lentiggini?»
 
      A diciassette anni, Yamaguchi aveva avuto il coraggio di cancellare le sue lentiggini permanentemente. Aveva avuto anche il suo primo litigio con Tsukki, ma non aveva più la sensazione orrida e viscida di sentirsi giudicato e criticato senza un motivo. Ed era proprio su questo che Kei, alzando la voce per la prima volta, gli aveva detto quanto fosse stupido. «Non hanno motivo di dirti quelle cazzate perché sono cose che fanno parte di te. Non dovrebbe importartene!» «E mi importa, invece! Per una volta posso sentirmi sicuro senza dover essere un’ombra che ti striscia addosso!» Erano andati avanti per molto, fra urla e spintoni, per poi precipitare entrambi a terra con il sangue che ribolliva nelle vene. Tadashi sapeva che avrebbe perso di sicuro, essendo minuto rispetto al suo amico, ma non voleva dargliela vinta a parole. «Tu non sai come ci si sente» «No, non lo so. L’unica cosa che so al momento è che sei un idiota e che dovresti stare zitto, Yamaguchi» sbuffò, togliendoselo di dosso. «Fanno parte di te, come puoi pensare di odiarle? Di volerle eliminare?» a quelle parole entrambi diventarono rossi come il più maturo dei pomodori, evitando l’uno lo sguardo dell’altro. Tsukishima sbuffò. «Vedi di fare un po’ come ti pare» per poi andarsene con il nervoso che lo scuoteva in tutto il corpo e il pensiero fisso di quelle costellazioni che non sarebbero mai state riconosciute poiché cancellate.
 
      Alla fine dei diciassette anni Yamaguchi continuava ancora a coprirsi le lentiggini con fondotinta vari, il graffio era quasi del tutto sparito e non rimaneva altro che una cicatrice. Alla fine dei diciassette anni, Yamaguchi entrava per la centoduesima volta – o forse no? Aveva perso il conto, sinceramente – nella camera di Tsukishima, che come al solito era schifosamente ordinata e ben diversa dalla sua. «Nelle braccia non le copri» bisbigliò con il suo solito tono falsamente noncurante, Kei. «Ah, umh, no» balbettò Tadashi, in difficoltà. «Perché?» Yamaguchi rimase in silenzio per un po’. «N-non lo so» sussurrò. «Sei un idiota» borbottò l’altro, osservandogli l’avambraccio e notando che, effettivamente, quelle piccole stelle sparse su tutto il suo corpo potevano unirsi e formare disegni paradisiaci. Ma Tadashi era davvero troppo stupido per arrivarci, e questo lo pensava sinceramente.
 
      «Non mi avevi mai detto di avere una passione per le stelle» sbuffò il più piccolo, mentre entrambi si passavano la palla tramite bagher e palleggi. Di tanto in tanto Tsukishima provava ad attaccare, ma Tadashi era colto impreparato e riceveva con gli spigoli del pollice e del polso. «Non era importante. Piega le gambe, Yamaguchi» Tadashi si emozionò per quel consiglio, così lo ringrazio e piegò talmente tanto le gambe da non vedere arrivare la palla schizzargli dritta in faccia. Faceva malissimo, tanto da – ironia della sorte – vedere le stelle. Tadashi andò a sciacquarsi la faccia in spogliatoio, togliendo così tutto lo strato di trucco che copriva quelle che per lui erano un abominio. Si ritrovò tutto rosso in viso, con quegli infiniti punti a decorargli le guance ed il naso, un po’ la fronte ed il mento. Con tutto quel rossore sembravano quasi illuminarsi e si chiese se, in fondo, dopo la sfuriata di sua madre e del suo migliore amico, ne valesse davvero la pena.
 
      «Tsukki, le lentiggini sono un po’ come le stelle, secondo te? Mia mamma direbbe sicuramente di sì, perché dice che sono un dono» Il biondo alzò le spalle, non curante inizialmente. Però lui aveva pensato tanto ad unire quei dannati puntini e cercare di scoprire ogni costellazione possibile che era presente in lui, come se Tadashi fosse una piccola galassia con le gambe ed un sorriso talmente gentile da fare male allo stomaco e al cuore. «Quelle dei segni zodiacali sono le costellazioni? È astrologia, giusto? O forse era astronomia» «Sono due cose totalmente diverse» sbuffò l’altro, chiedendosi come facesse a non conoscere due differenze così basilari. «Ci potrebbero essere costellazione i-in, bé, me?» sussurrò il moro poi, sperando inizialmente che Tsukki non lo sentisse. Vide Tsukishima arrestare il passo con gli occhi un po’ più sgranati del solito, mentre l’osservava. Probabilmente sì, si rispose Tadashi, e gli sorrise di rimando. Kei odiava davvero quella sensazione al ventre. La detestava.
 
     Yamaguchi lo aveva praticamente costretto a prendere i pennarelli che, ormai dimenticati, giacevano sugli astucci delle elementari, mentre lui si posizionava sul suo letto a gambe incrociate, pronto all’operazione. «Mi raccomando Tsukki, cerca di trovarle tutte!» rise un po’, per poi ricevere un colpetto con le dita sulla testa che gli fece un male non indifferente. «Tutte sarebbe impossibile, scemo» gli rispose l’altro, sedendosi di fronte a lui. Kei aveva inizia con le braccia, il punto in cui Yamaguchi le odiava di meno, a quanto sembrava. Aveva preso il pennarello rosso, che si distingueva bene sulla pelle olivastra dell’altro, mentre delicatamente e con sguardo concentrato cercava di ricordare più stelle e più nomi possibili. Era imbarazzante ma al tempo stesso intimo, per Tadashi, vedergli fare un qualcosa del genere. Gli batteva forte il cuore senza un motivo preciso, ma vedere il suo migliore amico con uno sguardo così serio mentre guardava la sua pelle – le sue lentiggini –lo faceva sentire insolitamente apprezzato. Kei aveva ormai finito con le braccia, ammirando poi il mosaico di colori – aveva pensato che usarne di diversi sarebbe piaciuto di più a Yamaguchi – che aveva creato. Le linee si dirigevano da una parte all’altra, unendo i puntini in più sfumature. Era strano lavorare su pelle umana su cose riguardanti le stelle. Sentiva come al solito quella sensazione di gratificazione e pace interiore, ma quel giorno ancora di più. Si disse che voleva trovare tutte le costellazioni di Yamaguchi dal primo momento che lo aveva visto e, arrossendo un po’, avvicinò il viso al suo per osservare bene quali altre avrebbe potuto segnare.
     «Stai un po’ fermo» sbuffò Tsukishima, mentre cercava di tracciare la costellazione del Leone. Sentiva il ragazzo davanti a lui tendersi come una corda di violino, il che non doveva essere così positivo, ma d’altronde era stato lui a chiedergli di farlo, no? «S-Scusa, Tsukki, è c-che, umh» si morse forte le labbra, Yamaghuchi, guardandolo negli occhi. Kei interruppe il suo lavoro, non accennando però alcun movimento e restando ad un palmo dal suo naso. Alzò un sopracciglio, piuttosto, invitandolo ad andare avanti. «E-Ecco, sì, il fatto è c-che averti così v-vicino mi.. imbarazza u-un po’, ecco» strinse forte i denti nella carne, sperando di non diventare incandescente. Il fondotinta funzionava abbastanza bene anche i quei casi. Si maledisse per aver avuto quella stramba idea. «Se ti dava fastidio potevi dirlo da subito» vide Tsukishima alzarsi, così, in un moto di coraggio misto a totale impulsività, lo prese per un braccio, impedendogli qualsiasi movimento. «È per questo che mi imbarazza» sussurrò poi, incerto. «Perché mi dà tutt’altro che fastidio»
     Sentendosi stringere forte il polso – con una forza che non pensava potesse appartenere a Yamaguchi, mingherlino come pareva – pensò che la costellazione del Leone potesse andare a farsi fottere, che le lentiggini intorno al labbro inferiore di Tadashi erano molto più invitanti di qualsiasi altra cosa e che il suo sguardo quasi gli supplicava di fare di lui ciò che voleva. Kei non aveva mai avuto un certo tipo di impulsi, se non con lui. Volergli contare tutte lentiggini che aveva in corpo, paragonarle alle stelle che si divertiva ad osservare, chiedersi come sarebbero potute essere al tatto o – magari – al gusto. La sensazione allo stomaco che provava quando Tadashi sorrideva dava fastidio allo stomaco, gli faceva prudere le mani e venire un gran nervoso, ma al tempo stesso gli circondava le membra come l’abbraccio dolce di un bambino.
     «Posso farti una domanda, Tsukki?» chiese, incerto. Vide l’altro annuire e continuò. «A te piacciono davvero le mie lentiggini?» Tsukishima sbuffò, per poi ridere. Tadashi rimase a guardarlo incantato per qualche secondo mentre strizzava gli occhi in preda alle risa. Era una visione che – era sicuro – non avrebbe dimenticato facilmente. «Non posso odiarle, Tadashi» Perché fanno parte di te, si rispose nella testa, ma un qualcosa di così melenso non sarebbe mai uscito dalla sua bocca. Gli diede il tipico buffetto sulla testa, sbuffando una risata alla sua faccia imbronciata.
 
     «Sai Tsukki, penso che tu mi piaccia. Nel senso, è ovvio che mi piaci come persona, sei il mio migliore amico da un sacco di anni – ma proprio tanti! – però, bé, mi piaci nell’altro senso e non so se può farti piacere ma-» «Sta’ un po’ zitto, Yamaguchi» rimproverò imperativo Kei, prendendogli la mano e stringendogli forte le dita dopo aver sentito il suo «Scusa, Tsukki» appena sussurrato. L’espressione che il suo viso prese una volta aver sentito il contatto della sua mano con quella del biondo fu impagabile. Tsukishima si disse che avrebbe tanto voluto fotografarlo, se non con una macchina vera e propria almeno con la mente: le sue lentiggini si stavano contornando di un rosso incredibilmente piacevole.
 
    Col passare dei mesi Yamaguchi aveva deciso di non coprirsi più le lentiggini in presenza di Kei, dato che sembravano piacergli molto. Però, mentre cercava di aggiungere un po’ di correttore, pensava che mostrarle a tutti gli altri sarebbe stato un problema. Qualcuno lo avrebbe sempre additato come avesse un qualcosa di strano, di brutto. Lui le lentiggini proprio non riusciva a sopportarle. Il fatto che Kei invece le amasse aiutava parecchio, ma non abbastanza, doveva essere sincero. Le cose cambiarono quando vide Kei tutto spedito entrare nel suo bagno, prendergli il viso con la forza e sciacquarlo forte con acqua e sapone. Dopo averlo asciugato, con il suo viso ancora tra le mani, Kei aveva sorriso genuinamente. Non era ancora capitato nulla di clamoroso fra loro, ma solamente vedere quei sorrisi per Tadashi era abbastanza per continuare a sopravvivere, nemmeno fossero la sua linfa vitale.
  «Ho trovato una costellazione che ti copre quasi tutto il viso. Vuoi vederla?» non era abituato al tono quasi infantile di Tsukki, ma vederlo così era davvero un qualcosa di fenomenale.
 
     Agli ormai diciotto anni Tsukishima e Yamaguchi andavano spesso al parco vicino a casa, si sedevano in una panchina sotto un albero al centro dello spiazzo in erba e di tanto in tanto restavano sino a notte, sotto la luce di qualche debole lampione. «Un giorno voglio vederle anch’io, le costellazioni» disse Tadashi, alzando il naso al cielo. «Tu le puoi vedere quando vuoi, scemo» sbuffò il biondo, guardandolo storto per poi sospirare alla sua occhiata interrogativa. «Basta che ti guardi allo specchio, Tadashi. Sei stracolmo di piccole stelle ma sei troppo stupido per capirlo» gli prese le mani e fece scivolare i suoi polpastrelli sulle sue braccia, sui gomiti, sulle spalle, sul collo. Le punte delle sue dita rimasero ferme sulla mandibola, mentre osservava l’infinità di puntini che – a detta del suo (non più) migliore amico – gli ostruiva il viso e tutto il corpo. Quando gli posò un bacio sulle labbra tutto il suo corpo sentì una scarica elettrica che partiva dalla punta dei capelli sino all’alluce. Yamaguchi rabbrividì: c’era così silenzio e il venticello era calmo e per niente fastidioso. Qualche grillo si faceva sentire intorno a loro e quella calma piatta non faceva altro che fargli contorcere lo stomaco in più e più parti. Si sentì sciogliere e per poco pensò di starlo facendo veramente.
 
     A vent’anni Tsukishima e Yamaguchi vivevano insieme, si chiamavano per nome praticamente sempre e frequentavano due università non molto distanti l’una dall’altra. Gli ultimi flaconi e tubi di fontotina, cipria e correttore erano stati buttati molto tempo addietro ed entrambi non potevano che sentirsi felici. Tadashi credeva ancora che le sue lentiggini fossero un qualcosa di non adatto – non a lui, non alla sua pelle – ma era anche vero che avere una persona al proprio fianco capace di annullare ogni incertezza era impressionante. Kei quando lo baciava gli prendeva sempre il viso tra le mani, con dolcezza, studiava minuziosamente ogni sua lentiggine per poi saggiare le sue labbra e unirsi a lui in quel bacio piacevole e pieno di aspettativa, che gli faceva contorcere le viscere in quel modo così strano ma così bello da fare male. Ma la cosa che più il castano amava era quando lo sentiva dentro di lui, sempre più forte ad ogni spinta, mentre gli baciava il naso, la fronte, le guance e sussurrava piano il suo nome. Quando facevano l’amore Kei baciava ogni piccola stella presente nel suo corpo, con attenzione, discretamente. Cercava di non mancarne nemmeno una. Perché per lui era una cosa importante, ed era una cosa importante soprattutto far capire al suo ragazzo quanto le lentiggini si addicessero al suo corpo e lo rendessero giusto nel suo credere di essere sbagliato.
 
     A vent’anni Tadashi poggiava la testa sulla sua spalla, respirava sul suo collo facendogli il solletico e sorrideva in quel modo che gli faceva venire le capriole agli organi interni. Lo accarezzava piano, con i polpastrelli, mentre ammirava la fede nell’anulare. «Sai Kei, ti amo proprio un sacco, per tutto» sussurrò poi, mentre le palpebre si facevano pesanti. «Dormi» Kei lo strinse forte, nonostante il borbottio, augurandogli una velata buona notte. La mattina dopo il ragazzo lentigginoso trovò un biglietto di buon giorno sul tavolo, la colazione pronta per essere scaldata e l’assenza del suo compagno che era già andato al corso universitario. Accanto c’era un piccolo foglietto con disegnata una costellazione che ricordava essere quella del leone, e sotto la calligrafia schifosamente ordinata di Tsukishima.
Abbi più palle e guardati come ti guardo io.
Le cose che odi a volte sono quelle che gli altri amano di più.
Tadashi si ritrovò con le lacrime agli occhi, pensando che questo tipo di cose non erano proprio da Tsukki, ma sorrise genuinamente e un po’ come uno stupido, mentre guardava quelle lettere scritte ad inchiostro. Effettivamente era vero: Tsukishima non avrebbe mai scritto quel tipo di cose. Difatti, la cosa che Tadashi non sapeva era che, nel cestino della spazzatura, si trovavano almeno una ventina di “fogli-prova” che in preda all’imbarazzo Kei non aveva saggiamente scelto come “foglio-ufficiale”. Però lo amava sinceramente e questo era l’importante.







Note:
seguo Haikyuu da un sacco di tempo ma non ho mai avuto il coraggio di scriverci qualcosa su. Non so nemmeno io il motivo, sinceramente.
Comunque ciao a tutti! Io sono Charlie e, bé, in questo periodo sono abbastanza ossessionata da questi piccini.
Non sono molto soddisfatta di com'è venuta questa fic, ma spero che comunque possa piacere (almeno un pochino), nonostante sia la mia prima storia su questo fandom. In ogni caso cercherò di evitare pomodori e mercanzia varia, se necessario!
Venendo alla storia e tralasciando il resto, io adoro le lentiggini, ma conosco una persona che le ha e che passava il suo tempo davanti allo specchio a pregare che queste svanissero. Quindi diciamo che ho preso il suo racconto come ispirazione e sono partita in quarta per scrivere questa, bé, cosa.
Mi farebbe piacere leggere un vostro parere, consiglio o anche critica. É tuutto ben accetto se utile a migliorarmi!
Perdonate eventuali errori: alcuni scappano sempre!
Un bacione a tutti,
Charlie.
   
 
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