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Autore: EsseTi    06/08/2016    5 recensioni
Dominik è un pianista ceco…e cieco.
Suona il pianoforte da quando ha sei anni, e a 13 ha lasciato Praga per raggiungere Milano e studiare al Conservatorio Giuseppe Verdi.
A 18 anni è una promessa della musica, con la passione per Mozart e Chopin.
Suona il piano perché è come vedere i colori.
Vive per la sua musica, ma si ritroverà a dividere il bilocale in cui vive con Federico, un barista estroverso e terribilmente disordinato. Federico, però, gli insegnerà che i colori non sono solo nella musica.
A lui piaceva l’arancione; la mamma diceva sempre che era un po’ come il calore delle coperte d’inverno, quando fuori faceva freddo e si mettevano a dormire insieme.[...]
Gli avevano insegnato le note, l’adagio, il notturno. Gli avevano insegnato Mozart, Chopin, Bach.
Nessuno, però, gli aveva insegnato di quanto fosse bello il calore di un bacio.
Quello, doveva essere il rosso.

Revisione in corso. Ci saranno modifiche importanti.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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La vita d'una persona consiste in un insieme d'avvenimenti di cui l'ultimo potrebbe anche
cambiare il senso di tutto l'insieme, non perché conti di più dei precedenti
ma perché inclusi in una vita gli avvenimenti si dispongono in un ordine che non è cronologico,
ma risponde a un'architettura interna.

Italo Calvino, Palomar, 1983
 


Chapter 43rd: E pensare a quanto tradirono tutti quei baci…
 
A Milano pioveva da giorni. Quasi ininterrottamente.
La pioggia aveva allontanato un po’ dello smog che aveva saturato l’aria nei giorni precedenti, ma aveva creato un’atmosfera tetra.
Grigia. Dovunque si voltasse, tutto era grigio.
Era come una punizione, come se il cielo stesse riversando su di lui il suo rancore, come se volesse ricordargli di essere un fallito.
Sei diventato grigio, Samuele, il colore peggiore di tutti, quello vuoto.
Eppure in quel momento, intorno a lui, tutto era colorato: le pareti, i tovaglioli sul tavolo, i sottobicchieri, persino i cuscini sulle poltrone.
L’idea di uscire a bere una birra era stata sua.
Non sapeva esattamente come fosse giunto a quella conclusione: forse l’ennesimo impegno di Riccardo che lo aveva tenuto lontano, forse la solitudine, o forse le parole di Federico che gli rimbombavano nella testa dal pomeriggio precedente.
O forse, più semplicemente, non lo vedeva da un sacco. Aveva bisogno di questo: sentirsi leggero, e senza impegni, come un ragazzino.
Allora, quel pomeriggio, Samuele aveva inviato un sms a Mattia.
Non ci aveva scritto chissà che, solo una parola: “Birretta?
La risposta era arrivata dopo nemmeno venti minuti, con una telefonata: la voce roca e musicale di Mattia era stata un sorso d’acqua fresca nel deserto. Gli aveva dato appuntamento per quella sera in quel delizioso locale che sembrava un ritrovo di artisti e filosofi, con divanetti e poltrone al posto dei tavoli e un piccolo palco in cui un gruppo di giovani musicisti stava suonando un jazz asciutto e coinvolgente.
Samuele era arrivato in anticipo: aveva occupato un divanetto con un piccolo tavolo basso proprio di fronte, e aveva ordinato un Martini bianco. Con i gomiti poggiati sulle ginocchia, si era lasciato coinvolgere dalla musica: non aveva mai apprezzato granchè il genere, ma quella sera non gli dispiaceva troppo. Il sapore un po’ dolciastro e un po’ amaro del Martini sembrava bruciare sul palato: lo aveva mandato giù in tre sorsi, e quando una cameriera – una graziosa ragazzina bionda di non più di diciassette anni – era passata a prendere il bicchiere, le aveva detto di stare aspettando qualcuno.
Le parole di Federico bruciavano nelle orecchie come il Martini sulla lingua.
Non riusciva nemmeno ad essere arrabbiato, quelle parole avevano semplicemente dato voce a quello che persino lui pensava di se stesso.
Quando si svegliava la mattina faticava a riconoscersi allo specchio, e non si era mai sentito così: aveva trascorso otto anni insieme alle delusioni provocategli da Riccardo, ma da quando aveva conosciuto Mattia era come se avesse sviluppato una sorta di impazienza che gli ustionava le viscere e gli provocava un fremito sotto la pelle, che lo soffocava al solo pensiero di dover trascorrere anche solo un altro giorno ad aspettare che la vita che desiderava finalmente iniziasse.
E, inoltre, in otto anni non gli era mai capitato di conoscere qualcuno che gli facesse lo stesso effetto di Mattia.
Si era trovato, più di una volta, a pensare che, se lo avesse conosciuto in un universo parallelo, in un mondo in cui Riccardo non esisteva, si sarebbe anche potuto innamorare di uno così. Perché Mattia rappresentava tutto quello che lui sarebbe voluto essere: un uomo forte, testardo ma risoluto, uno che sapeva prendere delle decisioni e portarle avanti. Uno con le palle. E sembrava impossibile il non potersi innamorare di uno così: carismatico, divertente, e un gran bel pezzo di figliolo.
Era quello l’effetto che gli faceva, come se si fossero incontrati in un altro mondo, in uno in cui erano entrambi delle persone diverse.
Ma nel mondo reale, Riccardo esisteva, e con lui esisteva quell’amore che lo consumava, proprio dentro lo stomaco e nel petto. E in un mondo in cui Riccardo esisteva, Samuele non avrebbe potuto amare altri che lui.
Erano queste le cose che non era riuscito a spiegare a Federico, perché non aveva trovato le parole; Federico avrebbe capito, perché – ne era certo – in quel mondo, in cui Manfredi esisteva e respirava, non sarebbe mai riuscito ad amare qualcun altro, nemmeno Dominik, nel modo in cui aveva amato lui. Si sarebbe innamorato, sì, in fondo era ancora un ragazzino, ma sarebbe stato un amore diverso.
E Samuele non voleva un amore diverso. Voleva quello di Riccardo. Ma Mattia, quando piombava nella sua vita, lo faceva sentire come se avesse sedici anni e si nascondesse dai suoi genitori per farsi fare una sega dal ragazzo più grande per il quale si era preso una cotta stratosferica. Mattia gli faceva sembrare tutto quello – il sesso, la distrazione, l’evasione dalla sua vita di merda – come una cosa giusta, uno svago meritato e necessario per sopportare la vita terrena.
Aveva quegli occhi, Mattia, così belli: non era il loro colore, o il taglio. Era il resto. Era per il modo in cui lo guardava, per quello che c’era dentro: una luce, un misto di forza, decisione e debolezza, che gli percorreva la pelle. Era il desiderio, la sensazione di valere qualcosa. Di valere di più.
Mattia apparve sulla soglia proprio mentre pensava quelle cose, spingendo l’ampia porta a vetri, con dieci minuti di ritardo.
Ci mise qualche secondo a trovarlo tra i divanetti, nel locale affollato, secondo in cui Samuele poté osservarlo: un cappotto scuro, una sciarpa a fantasia sui toni del borgogna che sembrava uno sbuffo di colore nel buio, quell’espressione quasi smarrita eppure così a proprio agio in quell’ambiente. Non appena lo vide, lo raggiunse subito, un sorriso luminoso mentre si sfilava i guanti di pelle.
- Scusa il ritardo, non trovavo parcheggio. –
Samuele sorrise. Gli sembrava di non sorridere da secoli. E sorrise solo perché anche l’altro stava sorridendo, e si sentiva già più leggero.
Mattia si tolse il cappotto dopo aver accuratamente sfilato ogni bottone dalla propria asola: per un attimo, Samuele ripensò a quello stesso movimento quando, l’ultima volta che era finiti a letto insieme, con gli stessi movimenti impacciati e le stesse dita un po’ tozze, Mattia si era sbottonato la camicia. Gli si sedette di fianco, le gambe accavallate: il peso del suo corpo fece sprofondare il cuscino.
- Allora, questa birra? – disse, dopo essersi seduto. – Anche se sono più un tipo da vino. –
Samuele fece una smorfia.
- Il vino è da snob. –
- Sbagliato. Il vino fa rimorchiare. – Una risposta a tono, un’occhiata divertita, e gli occhi di Mattia sembravano diventare più azzurri nella penombra. Con un cenno della mano aveva chiamato un cameriere: a prendere i loro ordini era arrivata di nuovo la ragazzetta bionda di prima. – Uno Chardonnay per me e la migliore birra bavarese che avete per il mio amico – snocciolò.
La ragazza annuì, scrivendo freneticamente con una piccola matita sul suo taccuino, poi, in silenzio, si allontanò.
Il piede di Mattia, la gamba accavallata e la caviglia adagiata sull’altro ginocchio, si muoveva a tempo di musica. Era a suo agio, come se stesse per bere un caffè nel salotto di casa propria.
A pensarci, uno come Mattia sembrava creato proprio per stare in un posto come quello, un locale un po’retrò che ricordava i ritrovi degli artisti nell’800 e che gli conferiva uno strano fascino misterioso.
- Bavarese? – Mattia voltò il capo e lo sguardo verso di lui, come richiamato sulla terra.
- Sono le birre migliori, vedrai. – Un occhiolino, una carezza sul ginocchio che pareva quasi uno sfiorarsi accidentale. – Ti piace qui? – Samuele annuì, perdendosi con lo sguardo a guardarsi intorno: mano nella mano, erano appena entrate due ragazze, e subito dietro di loro un gruppetto bizzarro di ragazzi di diverse età ed etnie aveva occupato un divanetto e quattro poltrone facendo un po’ di chiasso che non aveva infastidito nessuno. – Ci vengo da anni, quando sono stanco di tutti. Puoi fare quello che vuoi, bere quello che vuoi e dire quello che vuoi. Non importa a nessuno. –
Gli sarebbe piaciuto scoprirlo prima, un posto così.
Perdercisi dentro per scacciare la solitudine, vincere il silenzio con il chiasso e la musica e il jazz.
I loro ordini arrivarono insieme alla biondina sorridente: prima poggiò il grosso calice di fronte a Mattia, il vino di un giallo paglierino che ondeggiava elegantemente lungo la parete di vetro. Poi, con un altro movimento fluido, sistemò un enorme boccale pieno di birra fino all’orlo, proprio di fronte a lui.
- È una Augustiner Helles – gli sussurrò, insieme ad un occhiolino.
- Va benissimo tesoro – fu la risposta pronta di Mattia. Quando la ragazza si allontanò, si voltò verso di lui. – Il vino fa rimorchiare, eppure qui quello che ha rimorchiato sei tu – lo prese in giro, indicando con un cenno del capo la direzione verso la quale era sparita la ragazzina. – Saranno stati quei bei bicipiti che hai. – Il tono morbido della sua voce parve accarezzarlo proprio lungo le braccia.
- Ho già abbastanza casini. Grazie – rispose, più brusco di quanto avrebbe voluto. Afferrò il boccale, affondandoci dentro per berne un lungo sorso: era fresca e dissetante. Anche Mattia si era proteso, sollevando il calice con una eleganza quasi ipnotica e felina: il suo viso sparì dietro la circonferenza del bicchiere mentre reclinava il capo indietro. Bevve solo un piccolissimo sorso, come ad umettarsi semplicemente le labbra.
- Giornataccia? –
- Posso dire “decennaccio”? O semplicemente “vita di merda”? - Un altro sorso. -  Ieri Federico mi ha praticamente detto che sono un idiota. Anzi, no, le sue parole esatte sono state “vigliacco senza palle praticamente più inutile delle spogliarelliste ad un party gay” o qualcosa di simile. – Ancora un altro, poi poggiò il boccale sul tavolo. Ne mancava già quasi metà, forse avrebbe dovuto prenderne un’altra.
Non avrebbe dovuto parlarne, nemmeno accennare a quello che era successo il giorno precedente al locale. Ma allora perché si sentiva come se quell’invito a uscire non fosse nato per nient’altro se non per parlane con lui e riversargli addosso un po’ di quell’amarezza che lo stringeva proprio alla gola?
Mattia sorrise mentre mandava giù un altro po’ di vino.
I loro modi di fare erano così diversi da farlo quasi sorridere.
- Non che abbia proprio tutti i torti – rispose. Samuele avvertì un brivido freddo lungo la spina dorsale. -  Sulla parte del “senza palle” direi – aggiunse. – Ma cosa gli hai fatto per farlo parlare così? Gli hai messo sotto il gatto? –
- Gli ho detto di noi. –
Non avrebbe dovuto dirlo.
Non così.
Quella frase, insieme al tono morbido della propria voce, fu come una carezza sulla nuca, calda e rassicurante. Sapeva di cose proibite, eppure aveva dentro un’intimità strana, che non aveva a che fare soltanto con il sesso ma sembrava spiegare le ali ad avvolgere tutta la sua vita e le scelte che aveva compiuto. Si era sentito, in quell’attimo in cui aveva detto quella parola – noi -, come parte di un mondo in cui poteva dividere con qualcun altro tutta quell’amarezza e quella delusione, e anche la malinconia che lo prendeva certe sere d’inverno. Si era sentito meno solo.
Samuele seguì il movimento fluido della schiena di Mattia e quello del suo braccio mentre poggiava il calice di vino, ancora pieno, sul tavolo.
- Di noi? –
- Del sesso – si corresse subito.  – Di noi con…di noi e del sesso. –
Aveva avvertito una specie di scossa gelata lungo la spina dorsale quando aveva incrociato lo sguardo di Mattia: era così freddo, tutto quel ghiaccio, eppure anche così caldo, da provocare l’effetto dell’azoto liquido. Così freddo da bruciare.
Si sentì stupido. L’intimità che aveva avvertito tra loro sembrava stupida, adesso.
Durò solo un attimo, prima che Mattia si rilassasse.
- Oh, quello. – Scollò le spalle, quasi con sufficienza. – Ne parli come se avessimo ammazzato qualcuno, Samuele. Siamo maggiorenni, e da parecchio tempo anche, e consenzienti. Che Federico si faccia un po’ i cazzi suoi. Cos’è, ti ha fatto la paternale? –
Non gli sfuggì il lieve tremore delle sue dita mentre riprendeva il calice e questa volta mandava giù un bel sorso di vino bianco, forse troppo, perché fece una smorfia, arricciando il naso e strizzando gli occhi.
- E non ricominciare con quella storia che sei una brava persona, che hai un compagno e che non fai queste cose e che è sbagliato e che finiremo all’inferno e bla bla bla. Perché poi mi toccherà ricordarti che il tuo compagno ha una moglie, e tu ti incazzerai e finiremo per discutere di nuovo, e sarebbe un vero peccato non godersi questo bellissimo jazz in questo bel posto in una serata così tranquilla, in cui sei così arrapante con questo maglioncino aderente. – Ancora un sorso. Forse due. Anche Samuele riprese la birra, ma non riusciva a bere.
Il viso di Federico si era proiettato di nuovo nella sua mente, e vedeva le sue labbra muoversi e avrebbe sicuramente sentito la sua voce nelle orecchie se tutto non fosse stato spazzato via dal tocco rovente della mano di Mattia sulla coscia. Non si voltò, perché sentiva già i suoi occhi pungere lungo lo zigomo e la mandibola e non sarebbe stato pronto ad affrontarli in quel momento.
- Abbiamo fatto sesso – disse semplicemente. – Due volte – precisò. – Del gran sesso, se proprio devo dirlo. E adesso cosa vuoi? Che ti dica che mi dispiace? Che mi scusi per averti sedotto? – Il tocco rovente si trasformò in un incendio mentre la mano di Mattia risaliva lungo il polso, e il braccio, e il suo corpo si avvicinava lungo il divano, coscia contro coscia. Si costrinse a voltarsi per guardarlo negli occhi. Il suo fiato, vicino al viso, aveva l’odore frizzante del vino che aveva appena bevuto. -  Tu hai il tuo compagno, la tua vita, io ho la mia. Se questo ti fa sentire troppo in colpa e non vuoi che ti tocchi mai più, va bene. Fine, amici come prima. Ma se vorrai rifarlo, al diavolo, facciamolo! –
Avrebbe voluto dirgli tante cose.
In primo luogo, che lo aveva invitato lì perché sentiva di stare impazzendo, la voce di Federico gli rimbombava nelle orecchie ed era perfettamente consapevole che avesse ragione, ma non riusciva più ad ascoltarlo. Poi, avrebbe voluto dire che non si riconosceva più, che anche Federico non lo riconosceva più, e che paradossalmente l’unico che lo riconosceva ancora, che si comportava come se la loro vita stesse scorrendo tranquilla come al solito, era Riccardo. Riccardo che, dopo aver piantato su un casino micidiale quando lui aveva avuto il coraggio di confessargli di averlo tradito, si era chiuso la porta di casa alle spalle, insieme a quella rivelazione: due ore dopo, era lo stesso uomo di sempre, come se nulla fosse accaduto. Come se, sullo stesso letto in cui avevano fatto l’amore decine di volte, non ci avesse portato, e spogliato, e baciato e tutto il resto, un altro uomo, che non era lui.
Tutto normale. Come un piccolo intoppo burocratico di quelli che ogni tanto rallentavano una delle cause che stava seguendo. Una roba da nulla.
Adesso, a Samuele girava un po’ la testa. Doveva essere stato il Martini che aveva bevuto. O forse il corpo di Mattia così vicino, e terribilmente caldo, con quegli occhi che sembravano lava ghiacciata.
Gli veniva anche a ridere. Appena un po’.
- Ho fatto una battuta divertente? –  Gli occhi di Mattia lo stavano perforando, e avrebbe davvero voluto dirglielo, perché stesse sorridendo.
Riccardo mi ha praticamente autorizzato a fare sesso con chi voglio. Purchè non glielo dica, ovvio. Come si dice, occhio non vede, cuore non duole.
Non c’era proprio nulla da ridere, eppure quella frustrazione sembrava essersi condensata nella gola e avergli scatenato dentro quella stupida voglia di spalancare la bocca e ridere, ridere fino a farsi mancare l’aria e a farsi dolere la pancia.
E scoppiò a ridere, il boccale che ondeggiava pericolosamente nelle mani e un po’ di birra che finì fuori quando lo poggiò malamente sul tavolo. Stava ridendo e gli sembrava di non aver riso a quel modo negli ultimi tre o quattro anni. Mattia stava sorridendo, le labbra contratte a trattenere il riso: anche lui voleva ridere? Perché non stava ridendo?
Era tutto così terribilmente divertente! Lui che parlava con l’uomo che si era portato a letto del suo compagno, che a sua volta lo aveva autorizzato a fare sesso a destra e a manca purché fosse sempre lì, docile, come una moglie fedele. Come faceva la sua vera moglie, d’altronde.
Perché Mattia non stava ridendo?
- Scusa, scusa – cercò di farfugliare, incapace di trattenere persino le ultime risate. – Non sono ubriaco, anche se sembra così. Ho pensato ad una cosa…divertente. –
Un colpo di tosse per trattenere l’ultima risata.
Si sentiva così leggero. Era proprio divertente.
Mattia aveva smesso di sorridere. Lo stava guardando – anzi no, osservando e studiando – alla ricerca di un particolare che spiegasse quella risata e quella leggerezza. Ma come spiegarlo, a Mattia, che stava ridendo di se stesso?
Samuele sollevò una mano e con i polpastrelli dell’indice e del medio sfiorò il viso di fonte al suo, lungo l’attaccatura dei capelli.
- Mi viene sempre voglia di ridere, quando ci sei tu di mezzo. –
Non gli sfuggì il lampo di luce negli occhi azzurri, insieme all’accenno di un sorriso.
- Oh, beh, grazie. Posso mettermi delle campanelle da clown, la prossima volta che facciamo sesso, ti piacerebbe? – gli suggerì. – Non sarebbe la peggiore fantasia erotica con cui ho avuto a che fare! –
- Chi ti dice che faremo di nuovo sesso? – gli fece notare, ma lo stava già pungolando su un fianco con due dita, avvertendo il suo corpo, la carne calda sotto al maglione. Mattia colse la provocazione, e le nocche della sua mano destra gli scivolarono sul viso, lungo lo zigomo e lungo la mandibola.
- Era solo un’ipotesi. –
Sfuggì, ritornando al suo posto dall’altro capo del divano, il calice di vino di nuovo tra le dita e quel sorriso sornione sul volto mentre le labbra e la lingua sfioravano il vetro in una carezza. Ne mandò giù tre sorsi, uno dopo l’altro, eppure con quella strana posata eleganza che lo contraddistingueva. Lui, dal canto suo, aveva già finito la sua birra in due sorsi; l’aveva sentita scorrere lungo la gola come la carezza di un amante.
- E la prossima volta che Federico ti dice che sei uno senza palle, dagli un cazzotto. Gli passerà la voglia. -  Samuele rise, di nuovo, sentendosi leggero.
Ci aveva pensato, all’idea del cazzotto. C’era stato un attimo, mentre si trovava al locale, subito dopo aver ascoltato le sue accuse, in cui aveva visto Federico muoversi tra i tavoli e aveva pensato che lo avrebbe trascinato nel retro e lo avrebbe gonfiato di botte.
Gli era passata subito, però, perché si era accorto di come quelle parole fossero sincere: per questo, probabilmente, avevano fatto male in quel modo.
Così non mi piaci proprio.
In realtà, un po’ era invidioso di Federico. Era invidioso del modo in cui si era liberato dalle catene di quell’amore malato, anche se era ancora un po’ fragile, convalescente, ancorato all’idea di amicizia morbosa che lo teneva tuttora un po’ legato a Manfredi. Ma era libero. Federico era libero di fare quello che voleva della propria vita, era giovane e impulsivo e terribilmente testardo.
Ma era libero.
- Federico è impulsivo, e ha questo vizietto un po’ pericoloso di dire subito le cose che pensa. Il più delle volte ha ragione però, sai? Sono davvero uno senza palle che da otto anni è inginocchiato ai piedi di un uomo – ammise. Il boccale, ormai vuoto, finì sul tavolo con un tonfo, attutito dalla musica e dal chiasso intorno a loro. – E mi sono un po’ rotto i coglioni. Ho sempre fatto le cose giuste, mi sono sempre comportato bene: buoni voti a scuola, figlio modello, lavoratore, affitto e bollette sempre pagate, ho pagato persino tutte le multe che mi abbiano mai fatto! E cosa ne ho guadagnato? Essere cacciato di casa, avere a stento un diploma e spaccarmi la schiena a lavorare in un bar, mentre aspetto che l’uomo che amo da otto anni lasci sua moglie. – Avrebbe tanto voluto avere un’altra birra, per non dover affrontare gli occhi di Mattia. – Quindi adesso penso di meritarmi di essere felice a fare solo le cose che voglio io, no? –
Gli occhi di Mattia bruciavano, di nuovo, sulla pelle e nelle viscere.
Non era pienamente convinto di quello che stava dicendo.
Nel profondo, sentiva davvero di essere quell’uomo onesto e responsabile che era stato fino a quel momento. Ma quell’uomo gli aveva portato soltanto delusioni, lacrime e scelte sbagliate.
Adesso aveva la possibilità di tornare indietro e comportarsi come quel ragazzino di sedici anni che baciava di nascosto Andrea, della V C, nei bagni della scuola. Poteva tornare ad essere quel Samuele, quello leggero e impulsivo e irresponsabile e con le farfalle nello stomaco.
Quello nascosto, che nessuno aveva conosciuto.
- Facciamo un giro? -
 
 
§§§
 
- Gli ho detto di noi. –
Avrebbe voluto dire tante cose.
Baciami, Samuele. Baciami e dici di nuovo “noi” e guardami di nuovo in quel modo, come se volessi pregarmi di fare le valige e sparire, andare in un posto lontano in cui essere delle persone diverse e fare delle cose diverse.
Invece aveva fatto la cosa che gli riusciva meglio. Lo stronzo. Non semplicemente lo stronzo. L’idiota stronzo, un connubio perfetto che aveva imparato da suo padre, lo stronzo idiota per eccellenza, al quale ogni 31 dicembre consegnavano il premio di pezzo di merda dell’anno.
- Di noi? –
Gli era venuta fuori una voce acida, come se Samuele gli avesse appena detto di avergli dato fuoco alla macchina, invece di averlo incluso in quella dolcissima idea di loro due insieme in….in qualcosa di non meglio definito.
- Se non vuoi che ti tocchi mai più, va bene. Fine, amici come prima. –
Amici come prima sarebbe stato un concetto impossibile.
Non sarebbe mai riuscito a essergli veramente amico senza pensare, almeno ogni tanto, a quanto fosse bella la sua schiena che continuava in quelle spalle ampie, o a quanto sarebbe stato bello baciarlo, anche solo una volta o due al mese, giusto per non dimenticare quella sensazione di pace e tormento, entrambi racchiusi in un solo bacio.
Gli mancava l’aria, anche se fuori la temperatura era prossima allo zero, per quel che gli sembrava.
Le strade erano quasi vuote: aveva piovuto, ad intervalli, un po’ per tutto il giorno, e l’aria fredda scoraggiava quasi tutti dall’idea di una passeggiata. Per questo, in quella tranquillità silenziosa, a Mattia sembrava di essere l’unico abitante di una meravigliosa Milano deserta.
Camminava di fianco a Samuele, e non aveva indossato i guanti, anche se sentiva le mani screpolate e prossime a sanguinare per il freddo. L’altro uomo, dal canto suo, sembrava immune alle basse temperature: camminava a testa alta, spalle larghe e un giubbotto imbottito, ma non troppo spesso, a coprirlo. Ad ogni respiro, una nuvoletta di fiato caldo gli si condensava di fronte alle labbra sottili e arrossate.
- Così, alla fine, ho fatto le valigie e me ne sono andato. Per un po’ sono stato da un’amica di scuola che mi ha lasciato dormire da lei per qualche giorno, poi sono andato a bussare alla porta di un mio ex fidanzato…Oddio, non proprio ex fidanzato. Lui aveva 25 anni all’epoca, abbiamo avuto una specie di storia, qualche mese, io ero letteralmente cotto, ma lui mi ha mollato senza tanti complimenti. – Samuele si strinse nelle spalle, il giubbotto di tese lungo le braccia e le spalle. – Comunque, quando sono andato a chiedergli aiuto perché i miei mi avevano cacciato di casa mi ha subito aperto la porta, mi ha permesso di stare per qualche mese nell’appartamento in affitto che divideva con altri quattro ragazzi, con un piccolo contributo. Diciamo che capiva bene come mi sentivo: lui era originario di Bari, ma aveva deciso di venire a studiare a Milano perché l’aria in casa sua era diventata pesante. Ho iniziato a lavorare nei bar, nei ristoranti, a fare quello che capitava per racimolare un po’ di soldi: quando mi hanno assunto come barman con uno stipendio fisso, mi sono trovato un posto per me. All’inizio una stanza in affitto, poi un piccolo appartamento…fino a ritrovarmi qui. –
Il resoconto di Samuele era terminato con una vena di rammarico.
Gli aveva raccontato della sua vita, di quand’era un ragazzino: i genitori che scoprivano la verità, le liti, le minacce di chiamare uno psichiatra o un santone per risolvere la sua “deviazione”, l’inferno a casa nel tentativo di sistemare le cose ed, infine, la decisione di mollare e andare via.
Mentre lo sentiva raccontare, Mattia si sentiva un po’ un idiota viziato: credeva che i suoi genitori  - una madre bigotta con la puzza sotto il naso e un padre maniaco del controllo troppo concentrato sul lavoro e sulla sua reputazione – fossero dei mostri del tutto inadeguati a crescere dei figli, eppure di fronte al racconto di Samuele apparivano quasi degli angeli. Per quanto sua madre avesse storto il naso e suo padre avesse reso l’aria tanto tesa da spingerlo ad andare via di casa, non lo avrebbero mai cacciato e allontanato dalle loro vite: non avrebbe mai saputo, probabilmente, se per amore genitoriale o semplicemente per salvare le apparenze, ma lo avevano cresciuto, mantenuto all’università in una facoltà che reputavano senza futuro, gli avevano fornito il capitale per iniziare un’attività tutta sua e dato i soldi per pagare l’affitto di un bell’appartamento per un anno.
Si era sentito solo e incompreso per tutta la vita, ma non era mai stato veramente solo: se le cose fossero andate male, avrebbe avuto sempre una porta alla quale bussare, un letto e del cibo, anche se avrebbe dovuto sopportare lo sguardo di disapprovazione di sua madre e i “te l’avevo detto che non avresti concluso nulla nella vita” di suo padre.
Samuele, invece, era solo.
E in tutta quella solitudine la sua strada aveva incrociato quella di un uomo che lo aveva fatto sentire amato, prima di accorgersi, però, che sarebbe stato ancora più solo di prima.
Mattia non era mai stato molto bravo a consolare le persone e, in ogni caso, sentiva che Samuele non gli avesse raccontato tutte quelle cose per essere compatito o consolato.
In ogni caso, non sapeva cosa dire, per cui semplicemente si voltò a guardarlo. Quando anche Samuele girò il capo nella sua direzione, incrociando il suo viso, stava sorridendo divertito.
- Perché mi hai proposto una passeggiata, se soffri così tanto il freddo? – lo apostrofò.
- Chi ti dice che ho così freddo? – rispose, sulla difensiva.  La verità era che non sentiva più le punte dei piedi, per quanto aveva freddo, e doveva avere il naso paonazzo, come tutte le volte che si esponeva all’aria fredda della sera di Milano. - Mi piace passeggiare la sera. Non c’è mai così tanto silenzio a Milano, puoi godertela soltanto a quest’ora. E poi nel locale iniziava a esserci troppa confusione – continuò, stringendosi nelle spalle.
Con la coda dell’occhio, Mattia percepì un movimento del braccio di Samuele, come se avesse pensato di fargli una carezza, o dargli un colpetto sul braccio. Alla fine, però, in un gesto quasi stizzito, la mano di Samuele affondò nella tasca del proprio giubbotto.
Il silenzio che ne seguì non era imbarazzante, ma quasi confortante, rotto soltanto dal rumore dei loro passi sul marciapiede.
- Hai più pensato a quell’idea dell’albergo? – esordì all’improvviso Samuele.
Nella mente di Mattia si affollarono e sovrapposero una serie di ricordi: la festa di compleanno di Dominik, l’invito di Samuele a salire a bere qualcosa, il suo sguardo perso, i loro baci e la sua pelle calda.
Una serie di eventi dopo i quali la sua vita aveva iniziato a rotolare giù per un dirupo senza che riuscisse più a controllarla.
Era successo quella sera che, davanti ad una tazza di the dopo una serata in compagnia, gli aveva raccontato della sua idea dell’albergo, destinata però a naufragare.
Avrebbe voluto dirgli di aver fatto dei passi avanti, di aver preso delle decisioni, ma la verità era che no, non si sentiva pronto a chiedere un altro prestito a suo padre, né in grado di affrontare un’impresa come quella, che sembrava un ostacolo insormontabile.
Avrebbe voluto tacere, o al contrario iniziare a parlare, parlare, parlare e snocciolare tutta quella paura e quell’ansia che gli stringevano lo stomaco.
Invece fece quello che sapeva fare meglio: minimizzare.
- Nah, è un’idea campata in aria, e non vale neppure la pena approfondirla più di tanto. Ho un’attività che va abbastanza bene, e una ragazzina che mi ringrazia ogni mattina di averla assunta. – Fece spallucce. – Magari tra due mesi le cose inizieranno ad andare male e dichiarerò fallimento, ma per adesso non voglio pensarci. –
Samuele rimase zitto per qualche minuto.
-  E’ un peccato, ti ci vedrei bene come figo proprietario di un albergo. –
- Ma dai! – Mattia rise divertito, le mani affondate nelle tasche del cappotto. Anche Samuele rise, mentre gli rispondeva.
- E’ così! Sei proprio un tipo da giacca, cravatta e sorriso sornione alle vecchiette ingioiellate. Fossi in te ne approfitterei, le vecchie signore danno sempre belle mance ai giovanotti disponibili. – Lo stava chiaramente prendendo in giro, anche se quel commento riguardo al vederlo bene come proprietario di un albergo gli aveva diffuso una bella sensazione di calore allo stomaco.
- Che schifo, Samuele! –
La sua risata calda si diffuse nell’aria silenziosa intorno a loro.
Giunti ad un semaforo rosso si fermarono prima di attraversare la strada, anche se si vedeva nessuna automobile. Samuele aveva ancora le mani affondate nelle tasche del giubbotto, ma l’espressione più serena, seppur con quella vena di malinconia che lo aveva accompagnato per tutta la sera, anche al locale, mentre si nascondeva dietro ad un boccale di birra. Avrebbe voluto dirgli tante cose anche allora, mentre se ne stavano seduti lì circondati dalla musica, ma non aveva saputo che cosa dire esattamente. Non lo sapeva neanche in quel momento.
Il semaforo divenne verde, e Samuele si mosse subito, raggiungendo il marciapiede dall’altro lato della strada. Mattia rimase qualche secondo indietro, ad ammirarne il profilo delle spalle e la cadenza del passo, poi lo seguì.
Continuarono a camminare ancora per un po’, allontanandosi sempre di più dal locale dove si erano incontrati, dalle loro auto parcheggiate, ma sembrava più un modo per allontanarsi dai problemi, come se fermarsi avrebbe significato lasciarsi raggiungere e sommergere.
Illuminato dalla luce fredda dei lampioni, Samuele si fermò.
- Torniamo indietro? – propose.
Mattia annuì, ma prima che Samuele potesse ricominciare a camminare gli strinse una mano sul braccio, all’altezza del gomito.
- Comunque non dare troppo peso alle parole di Federico. Gli passerà. Non diceva sul serio. –
Il viso di Samuele si aprì in un sorriso tirato.
- Nemmeno tu dicevi sul serio? – Mattia colse subito il sottile velo di ironia nella voce dell’uomo.
- Io? – chiese, mentre gli lasciava il braccio e metteva di nuovo le mani nelle tasche. – Io dico un sacco di cazzate, non dovresti prendermi troppo sul serio. Neppure quando mi arrabbio e ti dico che sei un idiota dalle troppe speranze. –
- Ah no? –
- Nah. – A Mattia, quella negazione uscì fuori quasi come un sospiro. – Non perché non sia vero, ovvio. Tu sei un idiota dalle troppe speranze…Ma – continuò, puntandogli un dito contro il petto – non mi sono mai veramente arrabbiato con te. Nemmeno quella volta in cui sei sparito per giorni senza rispondere a nessuno dei miei sms. Anche se avrei dovuto! – Lo colpì più volte sul petto con la punta del dito, quasi accusatorio, anche se avrebbe volentieri trasformato quel gesto in una carezza morbida. Samuele sorrise, questa volta disteso.
- Sì, è vero, avresti dovuto. Me lo sarei meritato. –  Lo guardò con un’espressione di scuse, gli occhi verdi che brillavano nel buio. – Ma sono contento che tu non l’abbia fatto. –
Contrariamente ad ogni logica e a quello che avrebbe dovuto fare, Mattia, che aveva ancora la mano sul petto di Samuele, trasformò il tocco accusatorio prima in una carezza lungo la cerniera del giubbotto, poi in una presa leggera.
Sentiva di non avere nulla da dire, ma di volerlo soltanto baciare, e sapeva che se l’avesse fatto Samuele non si sarebbe tirato indietro: glielo leggeva negli occhi, e nelle labbra dischiuse e nel modo in cui ci passò sopra la lingua per inumidirle, e nelle spalle morbidamente distese e nel viso già proteso verso il suo. Eppure, quando si avvicinò di qualche centimetro, il corpo dell’altro si irrigidì, i suoi occhi saettarono intorno a loro, per la strada deserta.
- Andiamo da me? – gli chiese, un sussurro tra le labbra, pronto ad un passo indietro, ma Mattia lo teneva ancorato per il giubbotto. Voleva terribilmente baciarlo, e l’idea di aspettare di tornare alle loro auto e arrivare a casa sua era insopportabile.
- Dopo. Baciami adesso. –
- Qui? –
- Perché? – Gli occhi di Samuele scivolarono di nuovo via, lungo la strada e il marciapiede, ma Mattia utilizzò la mano libera per poggiarla sul suo viso, attirandone l’attenzione.
Prima che avesse il tempo di protestare, Mattia lo baciò, e trovò le sue labbra ancora più morbide e arrendevoli e aggressive dell’ultima volta. Le mani di Samuele gli si schiacciarono sulla schiena, e lui rispose con un passo avanti, per attaccarglisi addosso e avvertirne finalmente il profilo di nuovo addosso.
Sentì che gli era mancato terribilmente e che tutto quello – l’invito, la birra, la passeggiata – fosse stato solo il prologo che li avrebbe finalmente portati lì, a baciarsi per la strada come due innamorati, liberi e felici.
Esattamente ciò che non erano.
 
 
§§§
 
 
Il calendario, implacabile, lo fissava dalla parete chiara della cucina cui era appeso grazie ad un chiodino tutto storto.
Federico si premette le mani sul viso.
Erano passati cinque giorni dalla telefonata di sua sorella, e lui non aveva trovato il coraggio di fare niente. Ma proprio niente. Non aveva parlato a Dominik della prossima visita che avrebbero ricevuto, di quanto lo terrorizzasse, né aveva avuto il coraggio di confessare a Milena la verità: l’aveva chiamata sei volte, negli ultimi giorni, e nemmeno per un attimo era riuscito ad accumulare sufficiente coraggio per dirle tutto.
Semplicemente, se ne stava seduto lì, a fissare il calendario che, come la spada di Damocle, gli ricordava costantemente il prossimo arrivo dell’apocalisse portato dall’arrivo di sua sorella.
Mancavano tre giorni. Tre giorni e la sua vita sarebbe finita.
- Federico? Dove hai messo il phon? –
La voce di Dominik lo chiamò dal bagno.
- Devo averlo lasciato sul mobiletto sotto la finestra! – gli rispose, pronto ad alzarsi per aiutarlo a cercarlo, ma l’altro lo precedette.
- Trovato! –
- Scusami Dom. La prossima volta lo rimetterò a posto! –
Non avrebbe mai saputo se Dominik avesse risposto o meno, perché ogni rumore venne sovrastato dal rullio del phon.
Sapeva quanto il ragazzo odiasse non riuscire a trovare le cose dove le aveva lasciate, ma in parte ci aveva fatto l’abitudine, anche se Federico cercava, per quanto gli riuscisse possibile, di rimettere a posto tutto quello che usava.
Non gli succedeva da settimane, in realtà, di lasciare qualcosa fuori posto, ma in quei giorni era costantemente sovrappensiero: a lavoro aveva rovesciato i drink dal vassoio tre volte, ma Claudio e Samuele lo avevano sempre coperto, a casa non faceva che fare confusione e sistemare tutto sempre nei posti sbagliati, e la sera precedente aveva dimenticato la tv accesa, costringendo Dominik a svegliarsi alle tre del mattino e a cercare il telecomando in giro fino a quando, stizzito, non era stato costretto a staccare la spina dalla parete.
Sentiva di avere qualcosa, nella testa, che svolazzava, offuscando ogni tipo di ragionamento; quel qualcosa, in alcuni momenti, scendeva giù fino al petto, stringendogli i polmoni in una morsa e accelerando il suo battito cardiaco.
Era consapevole di dover fare qualcosa, ma non sapeva cosa.
O meglio, sapeva benissimo cosa avrebbe dovuto fare: prendere il cellulare, chiamare sua sorella e dirle tutta la verità. Ma proprio tutta. Sai, sono gay, tanto per cominciare. Solo che, non appena ci pensava, al volto di sua sorella si sovrapponevano quello di sua madre, e di suo padre, e la loro delusione, le chiacchiere dei parenti e di tutto il quartiere, la fine della tranquillità che fino a quel momento vivere a Milano gli aveva concesso.
Dominik uscì dal bagno con indosso il suo vecchio pigiama blu e con i capelli tutti spettinati: lo seguì con lo sguardo mentre raggiungeva il divano e ci si lasciava cadere, mentre alla tv davano un vecchio film comico.
- Che fai? – lo chiamò quando, ormai seduto, non lo trovò né sul divano né nelle vicinanze del salotto. Federico si staccò dal ripiano della cucina cui si era appoggiato, passandosi una mano tra i capelli, per ravvivarli.
- Stavo finendo di sistemare i piatti al loro posto – mentì. In realtà, aveva finito già da un pezzo, ma era rimasto in cucina a fissare il calendario, nell’ingenua speranza di fermare il tempo o riportarlo indietro con il solo sguardo.
Federico si lascò cadere sul divano, schiacciandosi tra il bracciolo e il corpo di Dominik, che, nel giro pochi secondi, ne approfittò per sdraiarglisi addosso, poggiandogli la schiena e il capo sulle gambe e raggomitolando i piedi nudi sotto ai cuscini. Federico infilò una mano tra i suoi capelli, riconoscendo la solita confortante morbidezza che lo faceva sentire un po’ più a casa.
Ad occhi chiusi, Dominik respirava piano, godendosi le carezze come un gatto.
Erano stati entrambi abbastanza silenziosi durante tutta la cena: Federico avrebbe voluto parlare di più, ma tutte le volte che apriva bocca temeva di dire qualcosa di sbagliato, o di scoppiare a piangere. Così aveva raccontato un po’ della sua giornata, e aveva ascoltato Dominik parlare della sua, della maestra che lo tormentava, dei sussurri che lo circondavano costantemente, anche se nessuno aveva il coraggio di provocarlo apertamente, non dopo i rimproveri del direttore del Conservatorio e la minaccia di un’espulsione al minimo segno di quella che aveva chiamato “discriminazione sessuale” o qualcosa di simile.
Dominik non se lo meritava.
Un essere umano così pulito e buono, incapace anche solo di pensare di fare un torto a qualcun altro, non meritava di ricevere quel trattamento.
Federico lo accarezzò sul petto con l’altra mano, fino ad incontrare la sua, che teneva adagiata sulla pancia. Dominik lasciò che le loro dita si intrecciassero, stringendosi morbidamente le une alle altre. Quell’immagine, quella posizione, il suono del respiro di Dominik: tutto quello evocava in Federico una sensazione di pace. E tutte le volte che ci pensava, l’ansia tornava a tormentarlo.
- Perché non parli? – Federico sobbalzò, sorpreso dall’improvviso suono della voce di Dominik.
- Mh? –
- Non parli. Da tutta la sera – insistette. – Sono giorni che non parli. E tu parli sempre, di solito. –
- Mah, niente…Pensavo… - Federico iniziava a sentire una strana sensazione lungo la schiena, quasi di sudore freddo. Gli tremavano le gambe.
- A cosa? – Sì, a cosa? Cosa avrebbe mai potuto dirgli? Quale tipo di risposta, esattamente, non lo avrebbe fatto apparire stupido? Di fronte al silenzio, Dominik arricciò un po’ le labbra in un broncio. – Non me lo vuoi dire perché sei arrabbiato con me? –
- No! – gli rispose subito, alzando un po’ la voce. L’ultima cosa che avrebbe voluto, in quel momento, era far credere a Dominik che avesse fatto qualcosa di sbagliato. – No, perché dovrei avercela con te? –  Lo vide stringersi nelle spalle, spingendo un po’ il corpo verso di lui, contro le sue gambe e il suo addome.
- Le altre volte che non parlavi eri arrabbiato con me – gli fece notare.
Federico sorrise tra sé, suo malgrado, chinando il viso verso il suo.
- Non fare lo scemo – gli sussurrò, ad un passo dalle labbra. - Non ho proprio nessun motivo per essere arrabbiato con te – aggiunse, tra un bacio ed un altro.
Le labbra di Dominik si aprirono in un sorriso mentre lasciava che le mani di Federico riprendessero ad accarezzarlo tra i capelli.
Rimasero in silenzio per un po’, accompagnati dalle scene del film in televisione: la comicità demenziale non riusciva a distrarlo dai propri pensieri, dall’idea che la bella vita che si era costruito avrebbe potuto vedere la fine dell’arco di pochi giorni.
Non ci aveva mai pensato prima, non fino alla telefonata di Milena: aveva considerato Milano un porto sicuro, così lontano dalla sua vecchia vita, da casa, che l’idea che sua sorella, o qualsiasi componente della sua famiglia, avrebbe potuto pensare di andare a trovarlo non gli aveva neppure attraversato la mente.
Era come se esistessero due versioni di se stesso: il Federico di Palermo, simpatico e divertente figlio minore di una famiglia come tante, con molti amici e nessuna intenzione di mettere la testa a posto, e il Federico di Milano, gay e impulsivo e perdutamente invaghito di un ragazzino perso nella musica classica. Quei due personaggi li immaginava lontani e sconosciuti l’uno per l’altro, impegnati in due strade parallele che mai si sarebbero incontrate; invece, la realtà era piombata su di lui all’improvviso, ed era venuta fuori attraverso la voce melodiosa di Milena, e le sue due entità avevano cambiato direzione ed erano pronte ad un doloroso scontro, dal quale probabilmente nessuna delle due sarebbe uscita indenne.
A lui, il Federico di Palermo non piaceva più: non sopportava più l’essere stato succube di un amore malato, debole e incapace di imporsi sulle convenzioni e i pregiudizi. Gli piaceva molto, invece, il Federico che era diventato da quando si trovava a Milano: più indipendente, più forte, ancora troppo impulsivo, ma più vero. Non si era mai sentito più vicino alla vera essenza di se stesso.
E adesso il Federico di Palermo stava bussando con forza alla porta del suo bell’appartamento milanese.
- Qualche giorno fa mi ha chiamato mia sorella. – Federico sentì se stesso parlare come se quella voce non gli appartenesse. Dominik, da parte sua, rimase fermo nella stessa posizione in cui era, come se non lo avesse sentito o non fosse stato colpito dalle sue parole: d’altronde, come avrebbe mai potuto immaginare quello che stava per dirgli? – Ci sarà un convegno questo weekend, qui a Milano,  al quale vuole andare. Verrà qui. – Qui. Suonava così intimo, eppure grave come una condanna a morte.
- Qui da noi? – La voce di Dominik era morbida e bassa come sempre.
- Sì. Solo per qualche giorno, per il weekend. Si è praticamente invitata da sola, non ho potuto dirle di no…hai visto anche tu com’è fatta, no? –
Si stava giustificando. Gli pareva quasi di sentire lo stridio delle proprie unghie mentre si arrampicava sugli specchi. Non avrebbe dovuto, non aveva alcun motivo per il quale doversi giustificare o chiedere scusa; ma allora perché sentiva quella morsa allo stomaco?
Federico cercava in Dominik, nel suo viso, un segno di fastidio, di rancore, ma non ne trovava. C’erano solo le sue belle labbra carnose, il profilo squadrato della sua mandibola, la pelle chiara dei suoi zigomi. C’era lo stesso viso di sempre, l’espressione appena un po’ corrucciata.
- Perché dovevi dirle di no? La mamma resta sempre qui quando viene a trovarmi, e anche il papà. Qualche volta è venuta anche Aneta. –
Sembrava non capire, Dominik, il perché della sua reticenza e della sua ansia: probabilmente non aveva proprio pensato a cosa avrebbe significato trovarsi Milena per casa. La prima volta, qualche mese prima, gli aveva fatto piacere avere sua sorella in giro per le stanze del suo appartamento, dormire insieme a lei nello stesso letto, sotto le coperte calde, portarla in giro per Milano e godersi la sua compagnia per colmare un po’ della nostalgia di casa. Ma quelli erano stati altri tempi: si sentiva ancora legato a Palermo, a Manfredi, alla famiglia, e Dominik era solo il coinquilino pazzoide e insopportabile con cui si era ritrovato, suo malgrado, a dividere gli spazi comuni di quell’appartamento carino.
Adesso era cambiato tutto: Dominik era diventato una parte della sua vita, e lui stesso era cambiato, così come le sue giornate. Dormivano insieme, cucinavano, andavano a fare la spesa, scherzavano: vivevano insieme una quotidianità che per Federico era impossibile adattare alla presenza di sua sorella. Non senza dirle la verità almeno.
- E’ che…è complicato – provò a dire. 
- Perché è complicato? –  Il corpo di Dominik gli sfuggì dalle dita, i suoi capelli, e la sua mano, tutto gli scivolò via mentre si metteva seduto sul divano di fianco a lui: avrebbe preferito continuare ad averlo addosso, sentirlo sulle gambe come se fosse una specie di portafortuna per controllare l’ansia. Invece, il ragazzino si portò le ginocchia al petto, circondando le gambe con le braccia.  – Tua sorella mi piace. E’ buona, è stata carina con me l’ultima volta, e anche quando sono stato a Palermo, a casa tua. –
Era terribilmente dolce, adesso, un po’ imbronciato e raggomitolato su se stesso. Doveva essere complicato per lui comprendere come una persona come Milena, così simpatica e sempre alla mano con tutti, potesse rappresentare qualcosa di complicato. Ed in effetti non lo era, non lei almeno: ad essere complicato era il casino che sarebbe scoppiato non appena a casa avessero scoperto la verità. Tutta la verità: non solo che il loro unico figlio maschio fosse gay, ma che fosse anche completamente perso per il ragazzino cieco con cui divideva l’appartamento e che aveva invitato a casa per Natale. Avrebbe spezzato il cuore di tutti, e solo perché sua sorella aveva deciso di andare ad uno stupido convegno e di piombargli in casa, di nuovo; e se anche l’avesse scampata per quella volta, quanto tempo sarebbe trascorso prima che la sua ingombrante famiglia si fosse avvicinata di nuovo a Milano?
Federico espirò, frustrato.
Non era riuscito a trovare il coraggio di confessare a sua sorella la verità su se stesso e sulla sua vita, ma non riusciva nemmeno ad essere sincero con Dominik, a confessargli, spiegargli, perché fosse tutto così incasinato.
Dominik era pulito: i sotterfugi, le bugie, le verità nascoste, erano qualcosa di incomprensibile per lui, che con la sua famiglia aveva sempre parlato di qualsiasi cosa. Aveva persino confessato a sua madre che gli piacesse un ragazzo, e aveva trovato il coraggio di farlo nei pochi minuti che gli erano bastati per comporre un numero di telefono.
Di fronte a Dominik, Federico si sentiva uno stupido ragazzino imbranato.
- Lo so, Milena è carina e tutto quello che vuoi, però…- Fece una pausa, prendendosi qualche minuto per studiare il profilo del suo volto. – E’ un casino, Dom. – Federico si passò entrambe le mani sul viso, schiacciando i palmi sugli occhi; quando li aprì, la stanza si riempì di punti colorati, solo per pochi secondi. -  Milena non sa di noi. Non le ho detto niente. Non ho detto niente a nessuno. -
Aver pronunciato quelle parole ad alta voce, in quel momento, aveva reso tutto ancor più reale, e lo aveva fatto sentire profondamente stupido.
Si ricordò, in un momento, di se stesso, nella sua camera a Palermo durante le vacanze di Natale, e di Dominik, e della sua preghiera di non dire niente alla sua famiglia dei loro baci della notte precedente, quelli che avevano aperto le porte al futuro. Solo per un po’, aveva detto, e invece quanto tempo era passato?
- Dom… A proposito di ieri sera… -
- Cosa? –
- Ecco…Io sono gay, Dom, l’hai capito, no? –
- Si. Non sono scemo. –
- Non ho detto che sei scemo! Però…la mia famiglia non lo sa. Dovresti…non dirlo a nessuno, Dom. Solo per qualche giorno, poi torniamo a Milano. –

Dominik non disse niente per un po’, ancora raggomitolato sul divano: sembrava pensare a qualcosa, un piede che si muoveva velocemente in un tic nervoso.
Federico si sentì una vera merda, in quel momento, ma quando il ragazzino parlò non c’era traccia di rabbia nella sua voce, o di risentimento, o di vergogna, come lui aveva temuto. Pareva invece stranamente tranquillo.
- Allora possiamo non dirle niente anche per questi giorni – disse, semplicemente. – Può dormire con te, come l’ultima volta, e uscire con te. - Federico aveva immaginato tanti scenari: che Dominik si sarebbe arrabbiato, o che non avrebbe capito e gli avrebbe chiesto spiegazioni, o che avrebbe fatto semplicemente finta di nulla. Ma che potesse addirittura proporgli di mentire a Milena su di loro non gli era proprio passato per la mente.
Era confortante, e allo stesso tempo preoccupante. Quando era stato lui a proporgli di tacere per qualche giorno, Dominik si era mostrato confuso, gli aveva chiesto spiegazioni, e aveva accettato la situazione non perché l’avesse compresa, ma perché era stato Federico a chiedergli di farlo.
- Ma perché? Perché non lo sanno? -
- Perché…è un argomento delicato, e…diciamo che non tutte le persone sono limpide come te o hanno il tuo modo di pensare. Alcune persone pensano male di quelli come me. E io sto cercando il momento giusto per dire la verità ai miei genitori. Lo farai, per me? –
- La mamma da piccolo mi diceva di non chiedere alle persone se potessi toccarle, per vederle, perché avrebbero potuto avere paura. E’ una cosa come questa? –
- In un certo senso, sì. –
- Io ho sempre pensato però che non avessero paura, ma che fossero semplicemente stupide. Però non posso credere che i tuoi genitori siano stupidi. A me sembrano così buoni. –

- Dici davvero? –
- Sì. –
- E a te sta bene? -  Dominik si strinse nelle spalle in un movimento che Federico trovò stranamente dolce e arrendevole, ma non disse niente. Semplicemente, mosse il capo in un gesto di assenso, i capelli che gli sfioravano morbidamente la fronte. Federico gli poggiò la mano su un ginocchio.
  - Dom, quando…a Palermo, quando eravamo insieme e sono stato io a chiederti di non dire niente a nessuno, non mi hai detto esattamente queste cose – gli ricordò. Aveva ancora chiari nella mente i contorni della sua espressione sorpresa e confusa mentre cercava di capire perché qualcosa di normale, come dei baci, dovesse essere tenuta nascosta ai suoi stessi genitori.
Quell’espressione sul viso di Dominik non c’era più.
Era stata sostituita da un’aria seria e stranamente lucida, che si ammorbidì appena mentre il ragazzino chinava il capo in avanti, lasciando che il mento ciondolasse verso il basso.
- Lo so, Federico. E’ che…mi sono accorto che ci sono delle cose, come questa qui, che forse è meglio non dire a nessuno e basta. -
Dominik era cambiato.
Tutto in lui era diverso dal ragazzino che aveva visto per la prima volta quando era entrato in quell’appartamento. Quelle settimane, e tutte le cose che erano accadute in quelle settimane, lo avevano cambiato: la convivenza, la scoperta del mondo esterno, incontrare i suoi colleghi, la musica, i baci e il sesso, il suo passato con Manfredi. Il conservatorio. Gli insulti, i sussurri. La cattiveria. Il sostegno di sua madre che forse, per qualche attimo, aveva vacillato.
Dominik aveva lasciato entrare il mondo esterno nella sua musica, e quel contatto lo aveva cambiato. Il ragazzino che era stato, quello che aveva conosciuto all’inizio, quello con cui aveva litigato, non gli avrebbe mai risposto a quel modo.
- E’ per quello che è successo al Conservatorio. –  
Federico sapeva che fosse così. Entrambi lo sapevano. Eppure dirlo ad alta volte lo faceva sembrare reale, faceva piombare di nuovo tutto il disgusto sulle loro spalle, e faceva sorgere di nuovo in lui la voglia di prendere a pugni tutti quegli insulsi musicisti bigotti.
Dominik si prese qualche secondo prima di rispondere.
- Sì. Anche per quello – disse semplicemente, poi abbassò le gambe, facendole scivolare lungo il divano, e la sua mano lo cercò, fermandosi sul suo braccio, all’altezza del gomito. Stava sorridendo in modo appena accennato. - Ma non mi importa. – Si era chiuso di nuovo, come tutte le volte in cui lui accennava a quello che era successo.
- Non è vero che non ti importa. – Dominik prese fiato, come se fosse pronto a sbuffare esasperato, ma non lo fece.
- Non mi importa – ribatté, e questa volta sbuffò. Non sorrideva più. -  Sono solo pochi giorni, Federico. E io non voglio che sei silenzioso, o nervoso, come stasera e come ieri e il giorno prima. Non voglio che litighi con tua sorella, che pensi a come dirle le cose, solo perché ti senti obbligato per non farmi un torto. E non voglio che litighi con me perché non sai che cosa fare, o perché io non voglio dirti le cose e pensi che sia per colpa tua. Io non ne voglio parlare, non voglio litigare e non voglio che ti senti obbligato a dire tutto a tua sorella. - Era lievemente arrossito sulle guance e lungo la linea del collo, il suo tono di voce si fece più basso. -  Non voglio che lei ti guarda come al conservatorio guardano me.  –
Federico si sentì impotente di fronte alle parole di Dominik, perché in pochi secondi aveva riassunto tutte le sue peggiori paure su quello che sarebbe potuto succedere: una possibile lite con Milena, e con la sua famiglia, la pietà e la rabbia, e l’inevitabile rancore che avrebbe riversato su Dominik, trasferendo su di lui la colpa di una confessione che non si sentiva pronto a fare.
Avrebbe rovinato tutto.
Eppure si sentiva ugualmente colpevole all’idea di mentire, di fingere di fronte a sua sorella un’amicizia cordiale che non esisteva più e che aveva lasciato il posto alla morsa allo stomaco al pensiero dei soffici baci di Dominik.
- E’ che…non lo so, Dom, l’idea di fingere…. – Federico fece una pausa: avvertiva ancora sotto la pelle la delusione e l’amarezza tutte le volte che Manfredi aveva rimandato un loro appuntamento per un altro impegno, magari con la sua famiglia, al quale lui non avrebbe potuto partecipare. Non voleva che Dominik provasse quella stessa sensazione. – Ho vissuto degli anni interi così. Fingere un’amicizia, rimandare le cene, organizzare weekend in comitiva e far finta di essere spariti ubriachi con delle ragazze per nascondersi e scambiarsi qualche bacio. Per anni non ho fatto che desiderare di lasciare Palermo per poter essere finalmente me stesso e non dovermi più trovare in quelle situazioni. E adesso l’idea di costringere te a fare la stessa cosa….non mi piace. Non mi piace per niente. –
Dominik gli accarezzò il braccio da sopra il tessuto del maglione.
- Adesso hai lasciato Palermo, e sei te stesso. Non ti sei più trovato in quelle situazioni. Hai organizzato una festa per il mio compleanno, e mi hai abbracciato. Mi hai baciato. Mi baci sempre. Questi sono solo tre giorni. – Quando la mano risalì fino alla spalle e poi al viso, Federico riconobbe il tatto profondo di quando Dominik cercava di studiare la sua espressione. - Tutto va bene adesso, e mi piace. E voglio che resti così, non mi importa di far finta di niente per due o tre giorni. –
Federico si sentiva ipnotizzato dalla voce di Dominik, dal suo tono e dal movimento delle sue labbra. Sapeva che avrebbe dovuto protestare, insistere con lui e con se stesso, trovare il coraggio di affrontare i propri fantasmi e i demoni che stavano roteando intorno ai pensieri di Dominik. Invece era debole,  già proteso in avanti, per catturare quelle labbra carnose in un bacio; prima ancora di parlare, aveva già poggiato entrambe le mani sulla nuca sottile del ragazzo.
- Sei sicuro che va bene? –
Si era già fatto convincere, troppo presto. Dominik annuì, le labbra distese in un sorriso perché aveva già compreso l’arrivo di quel bacio dal soffio caldo del suo respiro che gli era arrivato vicino.
- Va bene. -
 
 
 
§§§
 
Niente andava bene.
Nel buio, avrebbe voluto vedere qualcosa.
Avrebbe dovuto vedere qualcosa.
Non c’era niente.
Dominik si rigirò nel letto.
Lasciò che un piede uscisse fuori dalle coperte, penzolando oltre il bordo del materasso: aveva caldo. Al suo fianco, Federico stava dormendo.
Non aveva idea di che ore fossero, ma era certo non essersi addormentato un solo istante da quando, spenta la tv in salotto, si erano trasferiti nel letto per continuare a baciarsi.
Non avevano fatto altro: si erano baciati, sfiorati, accarezzati.
Non avevano più parlato. Federico non aveva avuto niente da dire, lui non aveva voluto dire niente.
C’era qualcosa di strano: nel silenzio, nella casa, nella vita. nel buio.
Tutto era buio, e gli sembrava di aver perso la capacità di creare i colori nella testa.
La maestra lo riempiva di rimproveri, lo soffocava, lo travolgeva di esercizi ma non riusciva più a stimolarlo come prima: quel tono di voce stizzito, disgustato, era come un tocco freddo sulla pelle.
Quando si trovava con lei, nella stessa stanza, provava una sensazione brutta, di vergogna.
Quando era a letto, circondato dal silenzio, e pensava a casa, alla sua famiglia e alla mamma, si chiedeva cosa stessero pensando, se avessero parlato di lui: si domanda se la mamma lo avrebbe abbracciato allo stesso modo quando l’avrebbe rivisto.
Era terrorizzato.
Terrorizzato dalle persone.
Non gli succedeva da quando aveva cinque anni e la mamma gli aveva insegnato a muoversi nel buio e ad affrontare la stupidità delle persone che lo circondavano, a crearsi un modo migliore e colorato nella testa.
Ma se adesso anche lei non lo amava più allo stesso modo, se disegnare le cose stava diventando impossibile, che cosa ne sarebbe stato di lui e della sua musica?
Non riusciva più a suonare come prima.
Era ancora bravo, le note venivano fuori fluide, in una musica melodiosa.
Ma lui sentiva di non riuscire più a suonare. La mente era sempre affollata: la voce della maestra, i sussurri al conservatorio, la subdola e finta apprensione del direttore del conservatorio, interessato più alla reputazione della sua struttura che al reale benessere di Dominik. Ma anche i baci di Federico, il suono della sua voce e il calore delle sue mani, le sensazioni nuove dei baci sulle labbra e del piacere del sesso.
Dominik si sentiva travolto dal mondo.
All’inizio era stato bello, lo aveva fatto sentire arricchito e gli aveva dato una spinta dritto dentro la musica: adesso, invece, tutto pareva diventato una marea incontrollabile, pronto a travolgerlo e a distruggerlo.
Nel letto, spinse la mano alla sua destra, cercando il corpo di Federico.
Incontrò la sporgenza ossuta del gomito, sfiorandola lievemente, per non svegliarlo.
Federico era buono: si preoccupava sempre per tutti, soprattutto per lui, e anche se a volte quell’insistenza lo innervosiva, gli procurava allo stesso tempo una piacevole sensazione alla pancia.
Proprio perché Federico era così buono, alcune volte Dominik si vergognava.
Succedeva quando si trovava al conservatorio e la maestra lo torturava, o quando era appena tornato e la casa intorno a lui era vuota ma non riusciva più a suonare come prima: in quei momenti, Dominik si chiedeva se non sarebbe stato meglio non aver mai conosciuto Federico. Continuare a stare da solo, a costruire la propria musica e innalzarla sempre più verso l’alto, farla conoscere al mondo come qualcosa di pulito, più in alto delle brutture.
Durava pochi minuti, a volte qualche ora, e in quegli istanti si sentiva arrabbiato, frustrato e impotente: desiderava riportare indietro l’orologio, tornare a quando tutto era semplice, la mamma gli voleva totalmente bene, non vedeva l’ora di tornare a casa per rivedere la sua famiglia, la maestra lo rimproverava benevola con una nota di soddisfazione nella voce, e la musica gli permetteva di costruire tantissime cose belle nella testa.
Desiderava tornare a quando non si sentiva cieco.
Poi Federico tornava a casa, lo baciava o lo chiamava dalla cucina e Dominik veniva travolto di nuovo da quella piacevole ondata di sensazioni calde che aveva scoperto con lui, quando aveva imparato a conoscerlo e gli aveva permesso di prendersi ogni volta un pezzo in più di se stesso.
Era come se ad ogni passo in avanti di Federico, lui avesse perso un pezzetto della sua musica.
Ed era terrorizzato all’idea di perderla del tutto.














 
Nota al capitolo 43
Un bentornato a tutti, a chi ha aspettato questo aggiornamento, a chi mi ha scritto e a chi mi segue su facebook. :D
Avevo promesso, un mesetto fa, un aggiornamento a breve, che non è arrivato.
Alla fine, oggi ho aggiornato quasi a sorpresa: il capitolo era pronto da un po', ma l'ultimo paragrafo, calato nella mente di Dominik, non mi convinceva molto, così ho letteralmente camnbiato tutto....e non è che mi soddisfi pienamente eh.
Credo che nessun paragrafo dentro la testa di Dominik mi verrà mai fuori lasciandomi pienamente soddisfatta.
In questo capitolo ho voluto lasciare spazio, all'inizio, a Samuele e Mattia, che stanno sgomitando per venire fuori, in questo punto della storia: il tempo passa, ma loro sembrano arenati sempre nello stesso stagno fangoso.
Federico e Dominik, invece, sono vicini alla seconda svolta della storia: la prima è stata quella che li avvisti avvicinarsi fino a collidere, portandoli ad iniziare questo rapporto un po' indefinito. Questa seconda svolta è una sorta di conseguenza della prima: essersi trovati così vicini, lasciando entrare l'altro nel proprio mondo, ha irrimediabilmente portato entrambi a cambiare, e quello che succederà da adesso in poi sarà frutto di questi mutamenti.
Dominik è diventato più terreno, si è letteralmente schiantato con il mondo reale, mentre Federico ha appena ricevuto la bella batosta della visita di sua sorella che gli ha ricordato di avere una vita incasinata a centinaia di kilometri da Milano.
Le idee mi frullano già per la testa, ma non dirò che spero di aggiornare presto perchè puntualmente finisco per non farlo mai. Ma....adesso avrò veramente più tempo per scrivere.
Questo è il mio primo aggiornamento da dottoressa: ebbene sì, la tanto agognata laurea è arrivata, e questo spiega in parte l'assenza degli ultimi tre mesi.
Ringrazio tutti per le meravigliose parole che mi rivolgete, per la pazienza e per l'affetto.
A prestissimo, e un bacione a tutti voi!

 
   
 
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