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Autore: Kary91    07/08/2016    6 recensioni
[One-Shot | Pre-Saga |child!Jace | Jace&Maryse | Introspettivo, Slice of Life]
Jace strinse più forte il soldatino e si girò su un fianco, sforzandosi di prendere sonno. Nel silenzio della sua stanza s’inventò la voce della sua mamma: l’ascoltò cantare, la sua mano morbida ad accarezzargli una spalla, e sorrise quando la sentì pronunciare qualcosa a mezza voce. Mormorava il suo nome, solo il suo nome.
Jonathan… Jace…
Il bambino chiuse gli occhi, abbandonandosi al tepore di qualcosa che non aveva mai avuto.
“Jace?”
La porta della sua stanza si aprì leggermente, ospitando uno spiraglio di luce.
La figura di una donna si disegnò sulla soglia, cogliendolo di sorpresa.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jace Lightwood, Maryse Lightwood
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'We're Lightwoods;'
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Questa storia è stata scritta per l’event di Luglio del gruppo We Are Out of Prompts e s’ispira al prompt Maryse/Jace, “La prima volta che…” di Ili_sere_nere.

 

 

La voce di una Madre;

 

 “E la voce della mamma me la inventai io, me la inventai cercandola e cercandola nel fondo buio del cuore.”

Antonio Ferrara; La Prima volta Che

 

 

Jace socchiuse gli occhi nel buio, le orecchie tese e la mano sinistra serrata attorno al suo soldatino Shadowhunter.

Erano trascorsi sei mesi dal suo trasferimento all’Istituto di New York, ma non era ancora riuscito ad abituarsi del tutto alla sua stanza. Alla tenuta dei Wayland si era spesso sentito solo, ma le camere erano più luminose: la notte gli bastava guardare fuori dalla finestra per riconoscere il pallido fulgore della luna.

Le camerette dell’Istituto invece gli sembravano buie e a Jace, il nero della notte, non era mai piaciuto. Non che ne avesse paura: aveva dieci anni, ormai, e si era convinto di essere troppo grande per quel genere di cose. Ma c’era qualcos’altro che lo spaventava della notte: erano i ricordi e i pensieri brutti, le riflessioni che riusciva a scacciare via durante il giorno ma che puntualmente tornavano a tormentarlo la sera.

Capitava spesso che si svegliasse in preda agli incubi, ricordando l’incendio che gli aveva portato via il padre.

C’erano anche delle notti in cui il sonno gli sfuggiva, dispettoso, nonostante la stanchezza.

Era stato durante una di quelle serate insonni che Jace aveva sentito per la prima volta la ninnananna.

Stava leggendo sotto le coperte, la strega-luce in mano, quando aveva riconosciuto la voce di Maryse. Proveniva dalla stanza di fianco alla sua – quella di Alec.

Jace li aveva sentiti parlare, ma il tono di voce del fratellastro era talmente basso che non era riuscito a capire cosa si stessero dicendo. Tuttavia, era evidente che Alec fosse turbato per qualcosa.

Si era dispiaciuto nel sentirlo così mogio: non gli piaceva quando Alec era triste. Entrambi stavano diventando piuttosto bravi a prendersi cura l’uno dell’altro, ad anticipare i rispettivi turbamenti o momenti di nervosismo e a neutralizzarli.

Quella sera, tuttavia, fu Maryse a rassicurare Alec. Lo fece cantandogli qualcosa – una ninnananna in francese che Jace non aveva mai sentito.

Qualcosa di quella melodia, della voce insolitamente dolce di Maryse, lo affascinò. In passato avrebbe trovato imbarazzante l’idea di ascoltare di nascosto una ninnananna, ma quella sera fu diverso.

Si sentì vuoto, tutto a un tratto. Vuoto e incredibilmente solo. Stranito dal pensiero di non aver mai sentito cantare una donna – una mamma – prima di quel momento.

La sua, di mamma, era morta quando era solo un neonato e non sapeva nemmeno come fosse fatta. Ogni tanto, Jace si era sorpreso a domandarsi se l’avesse mai abbracciato, prima di morire. Se l’avesse stretto a sé come ogni tanto Maryse faceva con Max, se l’avesse cullato la notte per aiutarlo a prendere sonno. Si chiese se avesse mai cantato per lui e se la sua voce, in qualche modo, assomigliasse a quella della sua mamma adottiva.

Perché Maryse aveva una bella voce, ma in fondo non aveva importantizza, perché non era per lui che stava cantando.

Maryse non era sua madre: la sua voce, le sue ninnananne, non appartenevano a lui, ma solo ai suoi fratellastri. Da tempo aveva incominciato a chiedersi come mai ci fossero dei bambini costretti a crescere senza una mamma. Forse, si era detto una sera, i ragazzini come lui ne erano stati privati perché non ne avevano bisogno. Essere troppo dipendenti dall’amore di qualcuno era una debolezza – suo padre glielo diceva spesso – e lui era sempre stato piuttosto forte, per la sua età.

Era per quello che alla fine aveva perso anche lui? Era per quello che non aveva i genitori, né dei fratelli di sangue, una famiglia? O forse il destino l’aveva reso orfano perché lui una famiglia non la meritava?

Quel pensiero doloroso aveva incominciato a farsi strada dentro di lui, punzecchiandolo nei momenti in cui il canto di Maryse s’insinuava tra le pareti della sua stanza. Jace si sforzava di cacciarlo via, concentrandosi sull’affetto che i Lightwood riversavano su di lui ogni giorno.

Sulla gentilezza di Robert e Maryse, sull’ammirazione infantile di Max, sull’affetto genuino di Alec e la complicità di Isabelle.

Tuttavia, non sempre funzionava.

Per aiutarsi, Jace aveva inventato un gioco. Quando la notte lo teneva sveglio, spingendolo a pensare cose che lo rendevano triste, provava a immaginarsi sua madre.

La vedeva sorridere e sentiva il suo tocco delicato fra i capelli, le sue labbra sulla fronte.

Gli parlava con dolcezza; gli diceva che gli voleva bene, che era orgogliosa di lui e al mattino, prima di salutarlo, gli ricordava di essere forte.

Era un gioco stupido – Jace lo sapeva – e non l’aveva confidato a nessuno, ma lo faceva sentire bene; presto le notti insonni diminuirono, anche se, di tanto in tanto, la tristezza continuava a sorprenderlo.

La ninnananna francese di Maryse arrivò anche quella sera, attutita dalle pareti delle due stanze.

Jace strinse più forte il soldatino e si girò su un fianco, sforzandosi di prendere sonno.

Nel silenzio della sua stanza s’inventò la voce della sua mamma: l’ascoltò cantare, la sua mano morbida ad accarezzargli una spalla, e sorrise quando la sentì pronunciare qualcosa a mezza voce.

Mormorava il suo nome, solo il suo nome.

Jonathan… Jace…

Il bambino chiuse gli occhi, abbandonandosi al tepore di qualcosa che non aveva mai avuto.

Ti voglio bene, Jace.

Jace?”

La porta della sua stanza si aprì leggermente, ospitando uno spiraglio di luce.

La figura di una donna si disegnò sulla soglia, cogliendolo di sorpresa.

Jace chiuse gli occhi, fingendosi addormentato.

I passi di Maryse s’inseguirono per la stanza, fino a quando non raggiunsero il letto del ragazzino.

Jace avvertì una leggera pressione sul materasso e le coperte che gli venivano rimboccate con gesti lenti, come se la donna non avesse fretta di lasciare la sua stanza. Maryse fece scorrere una mano lungo la piega del lenzuolo e poi sfiorò materna una guancia del ragazzino.

“Buonanotte, Jace” sussurrò, scostandogli una ciocca di capelli dal volto. Quando incominciò a cantare, lo fece con il solito timbro dolce che il ragazzino aveva sentito tante volte, sebbene a distanza.

Le parole della ninnananna francese lo accarezzarono con la stessa delicatezza adoperata dalla sua mamma immaginaria.

 

“À la claire fontaine m’en allant promener

J’ai trouvé l’eau si belle que je m’y suis baigné.”

 

 

Le labbra di Jace s’incurvarono appena, mentre il sonno si univa alla melodia, cullandolo con tenerezza.

Era la prima volta che qualcuno cantava per lui, la prima ninnananna che una madre gli avesse mai rivolto.

E a intonarla, quella volta, non era solamente una voce immaginaria.

Era la voce della mamma: la sua mamma.

 

 

“Il y a longtemps que je t'aime, jamais je ne t'oublierai.”

 

 

Note Finali.

Questa storia si ispira al momento di Città di Cenere in cui Jace e Maryse parlano della ninnananna francese che la donna cantava ad Alec e a Izzy (e a Jace, anche se lui non lo ricordava) quando erano piccoli. La ninnananna citata è appunto “À la claire fontaine”, la stessa che viene citata nel libro. L’avevo già inserita in una delle mie primissime storie (Ave Atque Vale), ma era da tempo che sognavo di scriverci qualcosa anche su Maryse e Jace: il loro rapporto mi piace tantissimo. Nella one-shot il Jace bambino si domanda se sua mamma l’abbia mai abbracciato: in realtà noi sappiamo che in realtà è morta ancor prima di vederlo nascere, ma ho sempre pensato che lui non sapesse del suicidio della mamma quando era piccolo.

Grazie mille a chiunque sia passato a leggere, spero tanto che questa storia possa esservi piaciuta!

Laura

   
 
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