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Autore: Esarcan    07/08/2016    2 recensioni
Un ladro, un amuleto e una maledizione. Prima classificata nel contest Poker d'immagini.
Genere: Azione, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Stealing the Moon



Le guardie all’esterno erano state vergognosamente facili da superare, alleggerirli dei loro stipendi sarebbe stata una punizione più che giusta, ma al momento il tempo scarseggiava. Doveva raggiungere l’Amuleto prima dell’alba, lo strisciante dolore che gli percorreva il braccio sinistro e gli s’insinuava nel cranio era il ricordo costante della sua missione attuale. Il completo di pelle nera lo nascose perfettamente nelle ombre mentre, con mani esperte, scassinava silenziosamente una delle finestre degli Archivi. In pochi secondi era già scivolato nell’edificio, chiudendo la sua via d’entrata dietro di sé, anche se il dolore gli suggeriva la fretta sapeva di non poter abbandonare la cautela, che spesso si era rivelata la sua unica salvezza. Si ritrovò in un lungo corridoio con finestre su d’un lato e porte dall’altro, secondo le planimetrie, provvidenzialmente fornite da un nobile amante di architettura, avrebbe dovuto prendere la terza porta a destra. Anche se non vi erano guardie in vista si mosse comunque con cautela, non poneva molta fiducia nell’insonorizzazione fornita dalle sottili porte di mogano che si alternavano nel corridoio e dietro di esse interi reggimenti avrebbero potuto attendere un furfante inesperto. Sbirciò dalla serratura della terza porta, sembrava essere una sorta di piccolo studio: le pareti ricoperte da scaffali affollati di libri di ogni dimensione, la luce tremolante di una candela posta su d’una scrivania. Poggiò l’orecchio sulla porta, poteva sentire il leggero russare del tardivo studioso che ancora non aveva lasciato la sua accogliente tana. Con estrema cura girò la maniglia della porta, che si aprì senza cigolii o resistenze.

Un morbido tappeto dai motivi intricati di un opaco arancione ed un tenue verde si rivelò un valido alleato per attutire ulteriormente il leggero suono dei suoi passi. Oltre la scrivania di lucida quercia, sonnecchiava pacifico un vecchio studioso, la testa di incolti capelli bianchi poggiata sullo schienale di una comoda poltrona di pelle rossa dagli ampi braccioli. Un calice di liquore ambrato giaceva sulla scrivania, di fianco ad un voluminoso tomo ancora aperto. La bottiglia di cristallo che conteneva il resto della bevanda fissava altezzosamente il ladro da un carrello colmo di argenteria, se fosse stato un colpo normale non avrebbe esitato a riempirsi le tasche e concedersi un bicchierino. Ma un fitta improvvisa di dolore lo incitò a dirigersi verso una seconda porta, praticamente identica alla prima se non fosse stato per il pomello ormai opaco dall’usura. Doveva essere la porta che lo avrebbe condotto fuori dai quartieri degli accademici e nella sala d’ingresso principale, da lì avrebbe dovuto... Il russare del vecchio era cessato improvvisamente. Il ladro si girò di scatto, ritrovandosi a fissare il vegliardo intento a stropicciarsi gli occhi. La sua mente esperta non si lasciò prendere alla sprovvista, rapido come una vipera lanciò un piccolo gavettone sulla candela, che si spense in un sibilo. Sentì l’anziano borbottare qualche imprecazione ed alzarsi rumorosamente dalla poltrona, ma prima che lo studioso riuscisse a riaccendere la candela la porta alla sala d’ingresso già si chiudeva silenziosamente alle spalle del ladro.

Il pavimento di marmo verde sul quale ora si trovava non sarebbe stato gentile come il precedente tappeto, ma lo percorse velocemente fino alla più vicina della miriade di colonne che costellavano la sala. Il marmo rosso era scivoloso, ma nulla a confronto delle innumerevoli facciate di edifici che aveva scalato sotto la pioggia torrenziale che spesso inondava la città. Ignorando le continue fitte di dolore raggiunse rapidamente la galleria che  coronava la sala d’ingresso, scavalcò la ringhiera dai motivi floreali e continuando ad accertarsi dell’assenza di guardie, si diresse verso il cuore dell’Archivio dove il suo tanto agognato bottino lo attendeva quieto. In una sola notte la maledizione era avanzata enormemente, non poteva permettersi errori perché non avrebbe avuto una seconda occasione. Seguì la galleria fino ad una grata di ottone finemente lavorata in modo che i trafori raffigurassero un pavone che fa la ruota, lentamente svitò i quattro bulloni che la fissavano al muro e con delicatezza la mise da parte in modo da potersi infilare nel condotto. A nessuno era chiaro che funzione avessero quegli stretti passaggi, ma l’Archivio era costellato di misteri di epoche passate, antichi manufatti alla deriva nella storia. “Indovinelli avvolti in un mistero all’interno di un enigma” così diceva spesso uno dei personaggi più eminenti che il ladro aveva avuto il piacere di derubare. In ogni caso la loro attuale utilità era indubbia al ladro. Dopo aver incastrato al meglio la grata, dubitava che nella fioca luce delle poche torce le guardie avrebbero notato la mancanza dei bulloni, flessuoso come un’anguilla si rigirò nello stretto pertugio e cominciò a strisciare.

Ad intervalli regolari altre grate gli permettevano scorci nella vastità degli Archivi: file su file di alti scaffali lignei riempivano le grandi sale così riccamente decorate che molti palazzi nobiliari impallidivano al confronto, un solo quadro di quelle aule sarebbe valso una vita di lavoro se venduto al giusto collezionista. Tra gli scaffali giacevano tavoli affollati di strani oggetti dalle fogge più disparate, qua un astrolabio d’oro, là una statua di bronzo i cui tratti erano stati divorati dal tempo inclemente. Come gli scaffali anche gli sporadici tavoli erano ricoperti di libri, ma questi sembravano più ordinati di quelli nella biblioteca del piccolo studio in cui il vecchio studioso era probabilmente ancora alla ricerca di una luce. Finalmente da una delle grate riuscì a leggere l’incisione su d’una placca d’ottone appesa al muro che contrassegnava il numero della sala. Ancora due grate e avrebbe potuto distendere le membra. Per quanto non fosse un uomo molto alto, tutt’altro in effetti, anche per la sua taglia quei condotti risultavano parecchio scomodi alla lunga. C’era da dire che erano parecchio preferibile ai condotti fognari in cui aveva strisciato per prendere in prestito le planimetrie degli archivi, o quelli per agguantare un ombrello dal manico d’oro massiccio che ora ornava il suo porta-ombrelli. In effetti quel furto era solo per evitare che l’annoiata nobildonna, proprietaria del bene in questione, lanciasse una nuova moda così pacchiana come quella degli ombrelli d’oro. Dalla grata successiva il ladro vide della luce che penetrava dai fini forellini, troppo forte per essere di una delle torce che lasciavano nella penombra gli Archivi nelle ore notturne, doveva appartenere ad una pattuglia. Normalmente avrebbe gioito alla sfida, ma il dolore crescente lo angosciava con la consapevolezza dello scorrere imperterrito del tempo. Anche il suo più grande piacere nella vita, rubare, era stato contaminato da quell’orribile maledizione che ora lo consumava avidamente. Poteva sentirla, mentre cresceva ed affondava i suoi neri rovi nelle sue fragili carni umane, rompendo e strappando. Fortunatamente la soluzione era vicina, l’Amuleto non era ben protetto come altri manufatti, gli studiosi avevano sempre avuto poco interesse per i miracoli della Luna che ormai erano perduti alla loro memoria. Yuria della Luna, la Pietosa, l’ultima divinità ad abbandonare l’antico Pantheon e gli umani, i suoi erano gli unici miracoli che ancora avevano qualche effetto, era l’unica che prestava orecchio ai gemiti degli uomini. E lui, Devin, un uomo che faceva del pragmatismo il suo punto d’onore, era stato costretto a volgere le sue suppliche ad una leggenda, un mito! Faticò a trattenersi dallo sbattere un pugno rabbioso contro la parete del condotto, le guardie avrebbero sicuramente sentito il rimbombo, per quanto inette. Strisciò silenziosamente di fronte alla grata, riuscì a scorgere tre guardie, ognuna di loro teneva alta una torcia con la mano sinistra, l’altra era cautamente poggiata sull’elsa di spade ricurve. Quel particolare tipo di arma era usato unicamente dalla milizia speciale del Gerarca, il bastardo aveva arruolato solo il meglio per la sua guardia privata. Mentre cercava con poco interesse qualche punto debole nelle armature a scaglie delle guardie, la mente di Devin s’interrogava attivamente sul perché il Gerarca avesse lasciato la sua tana nel bel mezzo della notte. Il rumore di stivali sul marmo anticipò l’arrivo di un quarto uomo. Le guardie si irrigidirono immediatamente quando quello che doveva essere il loro superiore entrò nella scena. Una frastagliata cicatrice decorava la dura mascella squadrata del Capitano Bergson, Devin ghignò al ricordo del suo picchetto da scalata che si faceva strada nella faccia dell’odiato ufficiale. I chiari occhi azzurri di Bergson erano attenti come se avesse riposato l’intera giornata, ma Devin sapeva molto bene che lo stronzo era tutt’uno con l’insonnia, questo però non lo rendeva meno pericoloso, solo più scorbutico.
“Ancora nulla?” Chiese con voce roca e leggermente stridente, come due pietre che vengono strofinate tra loro.
“No, signore.” Replicò debolmente una delle guardie, percettibilmente intimidita dall’alta statura di Bergson, che torreggiava nella sua armatura di placche bianche.
“Non abbassate la guardia, stiamo dando la caccia ad un ratto particolarmente scaltro.” Aggiunse un grugnito e si dileguò rumorosamente nell’oscurità. Una delle guardie lasciò andare un sospiro di sollievo. Possibile che il Gerarca sapesse del piano di Devin? Forse erano sulle tracce di qualcun altro, ma le probabilità di una simile coincidenza erano praticamente nulle, in più conosceva solo un’altra persona che avrebbe potuto attrarre la presenza del Gerarca ed era impossibile che fosse tornata in città, tanto meno negli Archivi. Qualunque fosse la risposta non aveva altra scelta se non continuare per la propria strada, avrebbe apprezzato la sfida aggiuntiva. Lasciò le guardie alla loro inutile veglia e continuò a strisciare per il condotto. Quando arrivò alla grata successiva, non potendo raggiungere i bulloni all’esterno, estrasse dalla sua cintura una piccola fiala di vetro sigillata da ceralacca nera che ruppe estraendo lo spesso tappo di sughero. L’aria si riempì di un odore acre mentre versava il contenuto verde della fiala sulla grata. Sottili riccioli di fumo si alzarono dal metallo mentre veniva corroso dal potente acido ed in pochi istanti al ladro bastò applicare una leggera pressione per staccare il pannello.

Con eleganza infilò il corpo minuto nell’apertura e finalmente poté stiracchiarsi gli arti doloranti. Il luogo in cui si trovava era illuminato da una misteriosa luce smeraldina, la cui fonte si ergeva a poca distanza da lui al centro della sala dove, tronfia sul suo piedistallo di pietra, poggiava una strana sfera. Alto quanto un’uomo adulto, il globo volteggiava cheto sfidando la gravità in ogni istante della sua esistenza, una striscia verde luminosa lo circumnavigava incrociandosi con altre luci più flebili. Avvicinandosi Devin notò che delle placche irregolari erano distaccate dalla superficie dell’oggetto, che sembrava composto di un qualche strano metallo dai riflessi dorati, lasciando intravedere l’interno vuoto dello strano artefatto, al cui centro risiedeva solamente una sfera di luce verde, tanto intensa da dare l’illusione di solidità. Illuminati da questo bagliore alieno gli altri oggetti nella stanza parevano ottenere una connotazione demoniaca: un semplice telescopio ormai ricoperto di ragnatele sembrava voler aggredire Devin in ogni momento, persino i riflessi sul pavimento di marmo e le colonne rosse apparivano bellicose a tratti. Forse l’ampio lampadario che torreggiava sopra la sfera avrebbe soffocato quell’atmosfera con la sua calda luce arancione, ma a quell’ora della notte giaceva gelidamente spento, lasciando il ladro ad abituarsi agli angoscianti libri verdognoli della miriade di scaffali che affollavano la stanza, fortunatamente deserta. Con la complicità delle ombre salì l’ampia scalinata marmorea, sfilando di fronte a innumerevoli dipinti avvolti nell’aura ultraterrena del globo. Si diresse verso un ampio corridoio dal soffitto a volta, alcove ne costellavano l’intera lunghezza, in ognuna riposava un qualche manufatto. Protetti da teche di vetro gioielli, vasi, sculture, arazzi o dipinti, opere d’arte e d’ingegno di tempi ignoti passavano in bella mostra davanti agli occhi di Devin, che però al momento erano concentrati su una porta blindata e le due guardie appostate davanti ad essa. Aveva tenuto la fiala vuota dell’acido proprio per queste evenienze. Lanciò il contenitore nel corridoio oltre le guardie, questo s’infranse sul pavimento di marmo col tipico rumore cristallino del vetro frantumato. Entrambe le sentinelle si girarono di scatto, una si mosse per controllare l’origine del rumore, la mano che stringeva nervosa l’elsa della spada. L’altra rimase al suo posto sfortunatamente, quindi Devin caricò un dardo contundente nella sua balestra da polso, preferiva non lasciarsi dietro una scia di corpi: trovava che l’assassinio fosse una pratica vile che macchiava fin troppo la nobile professione del ladro. Con uno schiocco silenzioso il dardo partì dalla balestra e colpì la guardia in piena fronte, il che bastò per spedirla a gambe all’aria, ma prima che toccasse terra Devin la prese fra le braccia e la posò delicatamente sul pavimento. Poi con la stessa rapidità estrasse un piccolo manganello e colpì sulla tempia l’altra guardia, completamente ignara dell’accaduto. Trascinò il corpo vicino alla porta, che cominciò a scassinare espertamente. La serratura cedette in meno di un minuto con un flebile click, quindi spense la lanterna e le torce delle guardie, trovandosi immerso nella totale oscurità.

Oltre la porta si apriva un piccolo corridoio, sulla destra una balaustra di marmo si affacciava sul piano inferiore di una sala immensa, la cui architettura differiva completamente dal resto degli archivi: il pavimento di grezza pietra bianca era attraversato da un’unica linea dorata che percorreva l’intera sala, ai cui lati sorgevano false colonne che sorreggevano massicce lampade dalla strana fattura, il tutto era sormontato da un largo tamburo costellato di ariose finestre che si aprivano sulla notte buia. Sulla sinistra invece il busto di una donna, intagliato nel più pallido dei marmi, occhieggiava alla scena con aria amareggiata, forse consapevole di essere stata dimenticata nello stretto corridoio. Ma sul collo terreo giaceva l’obbiettivo del ladro. L’Amuleto, la sua unica salvezza. La sottile pietra azzurra, che pareva ammiccare alla luce lunare che filtrava dalle finestre, rappresentava il cielo notturno nella sua più gloriosa immagine, piccole pagliuzze argentate mimavano la luce delle stelle sullo sfondo, talvolta azzurro talvolta di un blu tanto profondo da esser quasi nero. Un singolo ricciolo collegava la pietra ad una falce di luna argentata, formata da arzigogolati disegni metallici. Una semplice catenella andava a completare quella salvifica reliquia, che sarebbe stata a portata di mano se non fosse stato per un singolo dettaglio. La figura slanciata in giacca bianca e bavero rosso plissettato del Gerarca attendeva di fronte al busto.
“Buona sera Devin!” La voce eunucoide torturò l’udito del ladro. “Come avrai capito, questa è una serata speciale! Finalmente entrerai a far parte della mia collezione!” Il ghigno malefico che increspava lo spesso strato di cerone. La tremenda collezione del Gerarca, malfamata in tutto l’Impero. Il bastardo amava raccogliere i testicoli altrui e poi conservarli in un’apposita sala del suo palazzo, probabilmente per compensare ad una sua ovvia mancanza. Devin si chiese se quello che aveva castrato il vecchio bastardo sapesse che orribile mostro deviato aveva creato. Il ladro si mosse cauto verso l’Amuleto, in fondo il Gerarca non era famoso per le sue capacità combattive.
“O no, no, no Devin!” Disse sottolineando il concetto con un dito grassottello. “Non così in fretta!” Dietro l’eunuco e il ladro comparvero quattro guardie che si misero davanti alle due porte del corridoio. Devin si guardò intorno furioso in cerca di una via di fuga, l’unica sarebbe stata lanciarsi dalla balaustra, ma la caduta era troppo alta e gli appigli per il rampino erano troppo distanti.
Il Gerarca prese in mano l’Amuleto, il ladro trattene il fiato. “Se anche riuscissi a prenderlo, questo antiquato ninnolo non ti salverà, vecchio mio! L’anello ti consumerà, non esistono cure!” Detto questo scoppiò in una risata acuta. Devin fissò esterrefatto la fascia di metallo nero che portava all’indice della mano sinistra, l’oggetto che aveva iniziato tutti i suoi problemi. Quel dannato affare avrebbe dovuto renderlo il miglior ladro mai esistito, invece lo stava lentamente divorando, il continuo dolore un promemoria al suo destino.
“Chi credi ti abbia fatto trovare la pergamena che parlava dell’anello e dell’amuleto?” Disse divertito il bastardo. “Hai perso Devin! Hai perso grazie alla tua arroganza!” Scoppiò in un’altra risata. Il ladro si stancò e fece ciò che fu costretto a fare. Con un unico movimento fluido caricò un vero dardo nella piccola balestra e lo scoccò, questo si conficcò nella spalla del Gerarca, che a causa dell’urto mollò l’Amuleto. Descrivendo una parabola la reliquia superò la balaustra, il ladro la seguì. Il tempo sembrò rallentare mentre Devin contemplava quelli che avrebbero dovuto essere i suoi ultimi istanti di vita, ma anche se l’anello lo stava consumando aveva i suoi vantaggi. Un’ondata di dolore attraversò il corpo del ladro, mentre si trasformava in una fitta nebbia nera. In questa forma afferrò l’Amuleto e cominciò a discendere rapidamente verso il piano sottostante dove il capitano Bergson aveva fatto la sua comparsa a spada tratta. Ben più veloce di qualsiasi umano la nebbia si avvento sul soldato, riprendendo forma corporea appena prima del contatto. Devin scivolò sul pavimento dietro il capitano, Amuleto in una mano, pugnale insanguinato nell’altra. Bergson cadde in ginocchio, le mani premute sulla gola squarciata, qualche istante dopo crollò per terra sputando sangue. Il ladro cominciò a correre ignorando il dolore che ormai aveva invaso l’intera cassa toracica, dietro di lui il Gerarca urlava: “Prendetelo dannati idioti! Prendetelo!” Come un pipistrello impazzito. Gli attimi successivi si susseguirono come un sogno agli occhi di Devin, evitò facilmente le spade delle guardie, sbattendone a terra una che gli bloccava la strada. Percorse i labirintici corridoi della gargantuesca struttura degli archivi, che ora brulicavano di guardie. Quando si trovò circondato in una sala piena di alambicchi si lanciò fuori dalla finestra. Rovinò sulle tegole del tetto, rompendone più d’una, ma rimanendo praticamente illeso.

Cominciò la sua corsa sui tetti, illuminata dalla luna piena e accompagnata dal suono d’allarme di mille campane. Fortunatamente la mira delle guardie cittadine era pessima e la maggior parte di frecce e darti nemmeno gli si avvicinava, anzi probabilmente si dirigevano verso altre guardie. Non ci mise molto a lasciarsi alle spalle i suoi inseguitori, dopotutto i tetti erano il suo regno quanto lo erano le ombre. Si accasciò al suolo, sotto la luna, faticava a respirare e non solo per la lunga corsa. Si sfilò la giacca di pelle nera, sotto quella che avrebbe dovuto essere la sua candida carnagione era butterata di orribili macchie violacee e putrescenti, che si trasformavano in spessi viticci più ci si avvicinava all’anello. Con fatica si allacciò l’Amuleto, quando il gancio scattò intorno al collo la vide. Magnifica e regale una donna galleggiava sopra di lui, un ampio abito bianco tessuto dalle nuvole copriva la carnagione pallida quanto la luna. I tratti sottili e perfetti della donna erano incorniciati da lunghi capelli argentei, in parte sciolti in parte intrecciati. Penetranti occhi blu scuro fissavano Devin, dalle cui labbra secche uscì solo un rantolo di sorpresa. La divinità increspò le labbra sottili in un sorriso compassionevole. Allungò il braccio verso il ladro e gli toccò la fronte, poi scomparve in un’esplosione di luce bianca.

La mattina dopo Devin si risvegliò sullo stesso tetto, le macchie nere erano scomparse insieme al dolore. Anche l’anello e l’Amuleto erano introvabili, non che gli dispiacesse. Senza interrogarsi oltre sull’apparizione, si alzò e ammirando l’alba  si domandò cos’avrebbe rubato quella notte.

   
 
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