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Autore: Rocket Girl    27/04/2009    4 recensioni
Aborto non aveva amici. Non aveva famiglia, l'avevano ripudiato appena visto gli occhi demoniaci in contrasto con i capelli che ricordavano il paradiso. Era vissuto in quella metropolitana lurida, fra alternativi che non badavano al suo aspetto, quantomeno ne erano esaltati.
Un bambino così diverso, fra atei e satanici esclusi dalla società, fra dei rifiuti, come poteva non essere accettato e venerato? Aborto. Era così che mi chiamavano. Era questo il mio nome. Ormai quello che ricevetti alla mia disgraziata nascita l'ho dimenticato.
Ero cattivo. Sono cattivo. Non sono mai stato degno di vivere.

Vincitrice del 5° turno del Never Ending Story Awards nella categoria Best Angst.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bene, questa è una storia che ho scritto per un concorso - fra parentesi vincendolo. Non è autobiografica, premetto, ne il narrato ha a che fare con me, potrei solo rispecchiarmi in parte nel protagonista. Questa premessa è data perché, in altre One-shot pubblicate, una in particolare, nei commenti ho notato un dubbio simile. Molte delle mie storie sono lo specchio dei miei sentimenti, di me stessa, ma raramente della mia vita.
In ogni caso, questa storia stravolge completamente il mio stile di scrittura e il mio solito genere. E'ambivalente, e non troverete picchi di felicità ne finali romantici o estasianti, ma ambivalenti, sempre grigie. Chiudete la finestra se cercate storie di ragazzetti nati nella miseria che trovano il vero amore - o simili - e vivranno per sempre felici e contenti. La fine è forse anche peggiore della nascita.
Ora, tagliando corto con le chiacchiere, vi lascio alla storia.







Hope.









Sospirai.
Guardai quel corpo scomposto, sentendo che qualcosa dentro me bruciava.
Sì, bruciavo.
Il nulla bruciava.
Possibile, vi chiederete?
Anch'io stentai a crederlo.
Dentro me ardevo guardando quel delitto orripilante. Chiusi gli occhi e rividi la scena nella mia mente, come se avessi un televisore LCD dietro le palpebre dietro cui scorreva tutta la mia vita.
Io. Un albino dagli occhi che si sarebbero detti inumani, terrificanti, che ricordavano a chiunque li fissasse il sangue, così disgustosamente vuoti da sembrare liquidi, come se ci si potessero immergere le dita della mano. La pelle candida, eternamente fredda. Quei capelli lucidi falsamente neri, come se potessero dimenticare i suoi capelli analoghi alle ali paradisiache dei paffuti e rosei bambini angeli che la chiesa tanto decantava. Quel mostro, quell'aborto. Aborto. Così veniva chiamato. D'altronde, un essere così inumano non aveva diritto a un nome, vero?
Aborto non aveva amici. Non aveva famiglia, l'avevano ripudiato appena visto gli occhi demoniaci in contrasto con i capelli che ricordavano il paradiso. Era vissuto in quella metropolitana lurida, fra alternativi che non badavano al suo aspetto, quantomeno ne erano esaltati.
Un bambino così diverso, fra atei e satanici esclusi dalla società, fra dei rifiuti, come poteva non essere accettato e venerato? Aborto. Era così che mi chiamavano. Era questo il mio nome. Ormai quello che ricevetti alla mia disgraziata nascita l'ho dimenticato.
Ero cattivo. Sono cattivo. Non sono mai stato degno di vivere.
Nonostante la mia grande famiglia volesse farmi vivere una vita fra gli altri, magari farmi accettare da chi non avesse pregiudizi, a scuola ero sempre stato un pericolo. Ero allontanato. Avevano paura di me.
Una volta un coetaneo provò a deridermi per il mio aspetto.
Gli spezzai ogni osso che il suo corpo potesse contenere, davanti a tutta la scuola. Fui espulso, ovviamente.
Avevo quattro anni.
Mi chiamarono Assassino.
Dopo quell'episodio, molti alternativi si spaventarono. Ero troppo piccolo per essere diventato un assassino, troppo piccolo per avere tutta quella rabbia in corpo.
Dentro me ero già sul punto di morte, come se avessi vissuto troppo. Avevo vissuto troppo.
Molto dopo, un insegnante ebbe pietà di me, un incompreso, un piccoletto cresciuto in un ambiente insano. Garantì per me, mi portò a casa sua. Tolse dal mio guardaroba quelli che definiva abiti troppo macabri per un bambinetto, e mi tinse i capelli di biondo, pensando che avrebbe addolcito il mio aspetto. Appena entrai a scuola, forse già incitati dal mio patrigno, alcuni bambini provarono a fare amicizia con me. Mi chiesero come mi chiamassi. Io dissi il nuovo soprannome. Mi piaceva. Mi rendeva forte. Mi rendeva unico. Alcuni pensarono fossi pazzo. Altri non si spaventarono ed insistettero. La mia scuola, un mese dopo, contò nuovi piccoli morti. Il mio patrigno, stupido, si batté di nuovo per me. Non fui allontanato. Non si scoprì mai chi aveva ucciso i miei unici amici.
Da allora m'isolai. Il mio patrigno, per alcuni anni, provò a cambiarmi, poi si rassegnò e si limitò ad aiutarmi con lo studio e con i problemi di tutti i ragazzi. Pensava che prima o poi qualcuno avrebbe attirato la mia attenzione e mi avrebbe cambiato. A distanza di tredici anni dal primo omicidio, le uniche cose che in me erano cambiate erano il colore dei miei capelli, neri come la notte, e i miei tratti attualmente di diciassettenne.
Il mio patrigno, vedendo che vivevo come se non avessi un futuro, ero un membro importante nei giri di dipendenza peggiori, entrò in pura depressione. Non me ne curai. Non provavo nulla per lui né per altri. Non m'avevano mai insegnato come si provasse amore. M'avevano insegnato a credere e fortificare il mio odio.
Ero il nulla.
Non provavo nulla.
Non credevo in nulla.
I miei pensieri erano unicamente su due argomenti: la droga e il dolore altrui.
Odiatemi. E' quel che volete fare tutti, no?
Odiate Assassino.
Odiatemi.
Sei solo una delle tante vittime...
Perfino i miei genitori mi avevano odiato dalla prima volta che mi avevano visto.
Odiatemi.
Vorresti solo essere amato...
Perché quella piccola e stupida bambinetta mi amava?
La guardai con rancore.
Un altro errore. Un fantastico errore. Aveva dei boccoli biondi, color oro.
Il colorito era color cappuccino, a metà fra il mio gelido e quello nero della madre.
Aveva un fisico snello.
Gli occhi d'ambra, grandi, innocenti.
Era amata da chiunque la vedesse.
Tutto quel che io non ero mai stato e non potrei mai essere.
Aveva cinque anni, forse, allora, e ogni giorno era attorniata da bambinetti diversi. Perfino dei ragazzi non potevano che starle accanto. Alcuni, sapendo che io ero il padre, erano stupefatti. Non capivano come un diamante puro come lei era mia figlia, la figlia di un certo assassino, di un drogato, l'angelica figlia del male.
Era vivace, molto.
Troppo.
Mi era indifferente. Avevo dovuto occuparmene io quando la madre non la volle.
Questa era una delle tante prostitute che, in qualunque ambiente, mi seducevano fino allo sfinimento.
Non la volevo. L'adottai perché il mio patrigno non mi guardasse più con quello sguardo di sconfitta odioso. Era un fallito, e detestavo che mi rinfacciasse vivere con lui.
Tuttavia, con lei cambiarono molte cose.
Ero additato come cattivo.
Se avesse avuto una vita analoga alla mia, la gente avrebbe iniziato a parlare.
Non sarei stato più libero.
Troncai i miei rapporti di piacere con qualunque essere umano.
Fui costretto a ridurre la mia unica vera amante, la droga.
Ben presto l'eliminai del tutto.
Limitai i miei piaceri a quelle quattro mura della scuola.
Fu l'unica cosa che non cambiò. Mi piaceva, m'era sempre piaciuto, testare la mia forza sugli altri, farmi temere. Adoravo il rispetto intriso di terrore.
Amavi che la tua solitudine fosse spezzata negli attimi in cui torturavi gli altri...





Quella bambina cambiò molto della mia vita.
Cambiò i ritmi.
Le mie priorità.
Ben presto fui costretto a dedicarle la mia vita.
Smisi perfino di mantenere quel regime di terrore nella mia scuola.
Niente mi dava piacere.
Quell'effimero gaudio che mi dava il dolore altrui fu soppresso.
Diventai vuoto.
Ovviamente, la mia scuola iniziò lentamente ad essere l'icona della felicità.
Quando, sempre più soventemente, a scuola mi videro con lei, iniziarono ad avvicinarsi a me.
Scoprii un certo malsano piacere nel notare come i loro complimenti fossero soltanto a lei.
Le frecciatine verso me rimasero.
Il giorno dopo, lei aveva un nome.
Hope.
Era diventata la speranza di tante.
Quando seppero che, forse avevo persino io un cuore, molte ragazze mi riservarono qualche occhiata in più del normale.
Le ignoravo.
Hope era l'unica persona verso cui iniziassi a nutrire del rispetto.
Era riuscita a imporsi su me come nessuno aveva fatto, involontariamente.
L'odiavo, ma la consideravo un buon nemico.
La rispettavo...

ma era pur sempre un mio nemico. Stop.
La registrazione si fermò nel momento in cui concepii questi pensieri.
Capii cosa aveva spinto il mio desiderio azzardato.
Il mio patrigno iniziava ad uscire dalla depressione.
Sorrideva persino, notando come Hope mi comandava.
Non ero più Assassino.
Avevo perso la mia identità.
Dovevo riprenderla.
E come, se non uccidere la speranza?
Iniziavo ad essere accettato dalla società che mi aveva sempre rifiutato.
Io, l'Aborto, ero perfino l'oggetto di sorrisi.
Mi esasperava il nuovo vuoto.

Volevo provare qualche emozione.
Hope doveva morire.



Dopo due anni, il mio ventesimo compleanno, mi ritrovo qui, in questa cucina vuota, guardando quella foto. Hope. Mia figlia. L'unica persona che aveva contato qualcosa nella mia vita.
Che l'aveva sconvolta con la sua innocenza.
Morta.
Guardo l'altra foto.
Quel sorriso lurido provoca la solita sensazione di rabbia. Rabbia omicida.
I cerchi tornano sempre.
Colei che mi aveva definito Assassino, la persona che mi aveva curato, aveva tenuto lontano da me la morte dall'inizio. La mia matrigna. Lei aveva ucciso Hope quando seppe che io ero cambiato.
Lei voleva che rimanessi il suo bambino senza sentimenti.
L'unica speranza che avevo avuto di essere normale, un padre, l'avevo persa.
Scuoto la testa. Non ho perso solo le speranze della mia vita.
Ho perso me stesso.
Hope.
Torno a guardare quel visetto sorridente.
Hope.
Quella mezzosangue dannatamente somigliante ad un angelo...
Il mio angelo.
Hope.
Sorrido amaramente, mentre la mia vita prima lei mi appare la ricerca unicamente di lei.
Hope.
Ed ora mi ritrovo qui, solo. In questa cucina, davanti a me la droga, la mia vecchia amante.
Sei felice, madre?
Soltanto due anni fa, con mia rabbia, la piccola Hope e il mio patrigno avevano organizzato una festa senza il mio consenso per me. Per festeggiare ufficialmente la mia maggior età, ma in realtà era la morte di Assassino.
In quella sera, dopo le proteste, mi ero divertito. Avevo accettato me stesso con Hope.
Hope, a cinque anni, mi aveva insegnato ad amare.
Mi ritrovavo lì, con tutte le persone che avevano lasciato un segno in me.
I miei genitori biologici, finalmente felici che fossi normale. Che sorridessi. Fieri di me e del diploma che stringevo fra le dita.
Gli alternativi della metropolitana, felici che mi fossi integrato in un gruppo, seppur bizzarro.
I piccoli bambini, ormai ragazzi, che nella mia prima scuola mi salutavano. Che avrebbero voluto la mia amicizia.
I ragazzi, ormai miei amici, della seconda scuola.
Il mio patrigno e Hope, naturalmente. Il primo ripresosi dalla depressione totalmente, la seconda vivace com'era sempre stata.
Ed infine... lei.
La prima persona che mi avesse amato al di fuori di pregiudizi.
Era folle. Nei suoi occhi riluceva una strana scintilla guardando Hope.
Quando, per la prima volte in vita mia, quasi al termine della festicciola, la presi fra le braccia e le baciai la guancia paffuta, la sua rabbia implose. Vidi le sue dita stringere un coltello che un secondo dopo era nella schiena di Hope.
Sentii il sangue sulle mie dita e l'odiai. Strappai quel coltello, ma per lei era troppo tardi. Il coltello aveva perforato il cuore.
Quel corpo minuto, un tempo così pieno di vita, era già più debole.
La vidi piangere.
Una lacrima salata deturpava il suo volto perfetto.
Hope piangeva.
Tutto ciò che ero, il mio cuore, sanguinava gocce invisibili.
La posai a terra e presi lo stesso coltello, furioso. Tagliai il collo all'assassina di mia figlia.
Mia figlia stava morendo, e tutto ciò che potevo fare era vendicarla.
Corsi accanto a lei. Le sue labbra erano dischiuse di pochi millimetri. Avrebbe voluto dirmi le sue ultime parole, ed io avevo
soltanto saputo confermare ciò che lei aveva tentato di cambiare. Colei che era l'artefice di quella serata era morta.
Non piansi.
Tutto ciò che aveva reso di me un essere umano era morto, come potevo piangere?
Tuttavia, quel volto mi perseguita anche ora.
Mi disinteressai, al contrario degli altri, delle cause della morte.
Mi chiusi di nuovo nel nulla.
Morii di nuovo.
Ero stanco ormai.
Guardo con malinconia quelle amiche.
Non voglio più essere morto.
Non voglio essere un nulla vivente.
Voglio, per una volta, essere davvero nulla.
Prendo la siringa. La miscela letale mi saluta sorridendo, felice.
Io sospiro.
Snudo la pelle del mio braccio. Vedo le vene ormai martoriate.
Scopro uno spicchio di pelle bianca, candida come lei.
Le avvicino la punta di metallo.
Lentamente l'ago entra nella mia pelle, penetrando la vena.
Premo sullo stantuffo.
Il suo viso innocente mi sorride nei miei ricordi. Non lo vedo più da due anni. Alzo lo sguardo ed è lì, di fronte a me, che piangendo guarda il mio atto e mi prega di non farlo.
Sorrido, le scompiglio i boccoli dorati.
La mia piccola eterna bambina.
La droga entra lentamente nelle mie vene, portando con sé la morte.
La sua voce, la voce del mio angelo, mi prega di strappare via la siringa.
Sospiro e le spiego cos'è diventata la mia vita.
Lei continua a pregarmi di non uccidermi, di tornare alla vita.
È adorabile.
Guardo la siringa. È finita. L'incoscienza arriva presto.
I secondi sono veloci.
Do il mio addio ad Hope.
Sorrido, perché finalmente l'unico mio rimpianto è stato soddisfatto.
Immagino già come sarà spiegata la mia morte.
Dopo aver perso la figlia dolorosamente, un ventenne ha posto fine ad un'ingiusta vita di sofferenze.
Oh, la vita non è mai giusta.
La mia men che mai.
Soltanto ora l'hanno scoperto?
Hope ora non mi supplica più. Mi abbraccia, forte, e dice che mi vuole bene.
Non sa quanto gliene voglia io.
Così, abbracciato alla mia prima ed ultima speranza, muoio.
  
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