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Autore: ChiiCat92    13/08/2016    2 recensioni
"Del 20% dei bambini sopravvissuti, solo il 5% superò i primi sei mesi. Qualcuno si ammalò compiuti i tredici anni di età, qualcuno guarì, qualcuno no.
Ancora non lo sapevo, ma non era stata solo la mia città ad essere colpita: tutto il paese, probabilmente tutto il mondo, si era trasformato in una grottesca versione dell'Isola Che Non C'è, ed io ero solo uno dei tanti Bimbi Sperduti."
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Roxas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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10/08/2016

 

Zweisamkeit*

 

Ricordo come tutto è cominciato. A pensarci ora, con il senno di poi, forse avrei potuto o dovuto fare qualcosa, forse avrei potuto impedirlo. Quando mi capita di pensare una cosa del genere, cerco di ricordare a me stesso che all'epoca ero solo un bambino di dieci anni.

Cosa può fare un bambino contro la Morte?

Alla tv – questo lo ricordo benissimo – dissero che si trattava di un'influenza stagionale, particolarmente violenta ma non pericolosa. Consigliavano di proteggersi il volto nei luoghi affollati – potenzialmente ad alto rischio –, di stare attenti a sintomi quali mal di testa, mal di gola e febbre sopra i 37°. Niente di che, cose che si presentavano ogni anno con l'arrivo della stagione fredda.

Nonostante il telegiornale continuasse a ripetere che gli anziani e i bambini costituissero la quasi totalità dei malati, io non vidi mai neanche un bambino ammalarsi.

Fossi stato più grande avrei potuto capire da questo che c'era qualcosa di strano, ma anch'io ero un bambino, semplicemente non ci feci attenzione.

Poi cominciarono le morti.

Un vecchietto sulla metropolitana; una signora anziana nel suo letto alla casa di cura; il padre della maestra Lori, che quella mattina – e per molte mattine dopo – non si presentò a scuola.

Erano tutte morti possibili, plausibili.

Il vecchietto sulla metropolitana soffriva di cuore già da tempo, che fosse febbricitante e fosse uscito con il freddo nonostante tutto non poteva che essere un'aggravante alle sue condizioni già pessime. La signora anziana era in casa di cura da anni: questo già bastava da sola come spiegazione. Il padre della maestra aveva avuto una crisi respiratoria, che avesse l'influenza non era che una coincidenza. Per non parlare del fatto che tutti e tre erano in età avanzata.

Già, le prime morti furono tutte “coincidenza”.

Per un po' andò avanti così. Io, nel mio infantile mondo distante dalle preoccupazioni degli adulti, con il solo obbiettivo di collezionare tutte le figurine dei Pokémon e completare l'album, e i miei genitori, che di tanto in tanto a tavola commentavano con “Hai sentito che il Signor G. sta male?” o “Il Signor F. ha avuto un peggioramento stanotte, è morto.”

La domanda che sentivo più spesso, nelle mie lunghissime sessioni di costruzione edile in giardino con i blocchi Lego o durante le spedizioni nel fortino costruito con le lenzuola nella mia stanza, era “Si può morire di influenza?”.

I miei trovarono il modo di rispondere alla domanda cominciando con l'impedirmi di uscire se non quand'era strettamente necessario. Niente doposcuola, niente partite di calcetto, niente merenda a casa di Isa, il mio più caro amico.

Niente di niente. E se questi divieti si traducevano per me con sbalzi d'umore da ostilità silenziosa a capricci con grida e pianti, per i miei genitori era motivo di sollievo: stavano solo proteggendo il loro figlioletto, e comunque sarebbe durato solo finché le cose non fossero migliorate.

Beh, le cose non migliorarono. Per niente.

Circa tre mesi dopo mio padre si ammalò, e si ammalò così lentamente e dolcemente che nessuno avrebbe potuto definirlo malato. Persino steso nella bara sembrava sano come un pesce. Un attimo prima era lì, un attimo dopo aveva smesso di respirare.

Ne avevo visti tanti, di morti. Io e Isa – principalmente io, lui si limitava a venirmi dietro – eravamo dei provetti cecchini. Avevamo abbattuto in volo più uccelli noi con le pistole a pallini di plastica che i cacciatori con i fucili. E in più, ero un fanatico del cinema. Soprattutto la sera, quando i miei credevano che dormissi, sfruttavo la “Notte Horror” trasmessa no-stop dopo l'una del mattino. Pensavo di essere pronto per vedere qualcuno morto, pensavo che notti intere passate a vedere mostri squartare la gente innocente mi avessero desensibilizzato. Ma quelli sono morti diversi, e non soltanto perché si tratta di finzione cinematografica.

Mio padre non era morto trucidato, o squartato, o accoltellato, non era stato fatto a pezzi da un pazzo con la motosega, uno zombie non gli aveva mangiato il cervello, nessun alieno l'aveva vivisezionato. Mio padre non aveva addosso i segni visibili della Morte. Mio padre non aveva nessun buon motivo per essere morto.

Ricordo di aver pensato, durante la cerimonia, che fingersi morti tanto per non fare i compiti, le faccende domestiche o andare a lavoro poteva funzionare solo fin tanto che la mamma non piangeva. Ricordo di essere rimasto arrabbiato tutto il tempo, da quando il sacerdote aveva emesso il suo ultimo “amen” fino a quando la bara era stata calata giù nella fossa.

Avanti papà, svegliati.” era il mio pensiero, colmo di risentimento. Per quanto avrebbe mandato avanti quella messinscena? Perché quando la terra coprì la bara e di lui non rimase che una lapide – amato marito, affettuoso padre – mi risultò chiaro che come scherzo era durato troppo a lungo.

L'indomani e il giorno successivo non andai a scuola, né mi fu permesso uscire. Ma non fui l'unico bambino a dover assistere ad uno spettacolo simile.

Si contavano sulla punta delle dita i bambini della mia classe che non avessero perso un parente prossimo, un nonno, un genitore, uno zio, un fratello più grande.

Solo a Marzo la tv cominciò a parlare di epidemia. Ci avevano messo un po' i media a diffondere la notizia, come se il virus si fosse fatto altrettanti scrupoli a mietere vittime.

Fu denominato Thanatos, una defunta parola di una defunta lingua che semplicemente voleva dire Morte, il che calzava a pennello visto che aveva una mortalità del 100%: una volta infettati era impossibile guarire. Sebbene fosse praticamente lampante che non colpisse i bambini al di sotto dei tredici anni, nessuno sembrò accorgersene, troppo occupati a sgombrare i morti dalle strade.

Qualcuno definì Thanatos la nuova Peste Nera, ma venni a sapere cosa fosse la peste solo molto tempo dopo. Questo era molto peggio.

La prima, naturale reazione della gente fu il panico, panico totale. Il governo, nel disperato tentativo di fermare – o arginare – l'epidemia chiuse le porte della città, bloccò a terra ogni aereo, fermò ogni treno, bucò le gomme ad ogni bus.

Non servì a molto.

Seguirono saccheggi ai supermercati, risse, e diversi “Ve l'avevamo detto che la Fine era vicina” da parte di svariate sette religiose.

La città, pur completamente in isolamento, ad un anno preciso dall'inizio della diffusione del virus aveva perso l'80% della sua popolazione. Il restante 20% era formato da chi non poteva essere infettato: i bambini.

Mia madre fu uno degli ultimi adulti a morire. Il virus l'aveva divorata dall'interno così lentamente da farla morire senza neanche accorgersene. In questo trovai sollievo: così come mio padre, anche lei se n'era andata senza i segni della Morte addosso, e sembrava che dovesse risvegliarsi da un momento all'altro.

Avevo undici anni, e dovetti seppellirla con le mie forze accanto a papà, in modo che potessero dormire insieme. Mi ci vollero tre giorni per scavare la fossa e poi per riempirla. Non avevo una lapide per lei così scrissi su quella di mio padre con un uniposca nero ancora funzionante che avevo nell'astuccio di scuola.

La scritta “Amato marito, affettuoso padre” era diventata qualcosa di simile a: Amato-i marito mamma e papà, affettuoso-i padre genitori.

Passai diverse ore seduto a fissare il mio capolavoro, forse aspettandomi che un adulto mi desse una pacca sulla spalla e mi dicesse che ero stato bravo. Peccato che non ci fosse più un adulto nell'arco di chilometri e chilometri.

I primi a subire le conseguenze di quel mondo senza mamma e papà, senza maestri, senza signore della mensa, furono i bambini troppo piccoli per badare a se stessi. I neonati, ad esempio. I loro pianti acuti e snervanti furono il sottofondo sconfortante di quella devastazione per molti giorni.

Del 20% dei bambini sopravvissuti, solo il 5% superò i primi sei mesi. Qualcuno si ammalò compiuti i tredici anni di età, qualcuno guarì, qualcuno no.

Ancora non lo sapevo, ma non era stata solo la mia città ad essere colpita: tutto il paese, probabilmente tutto il mondo, si era trasformato in una grottesca versione dell'Isola Che Non C'è, ed io ero solo uno dei tanti Bimbi Sperduti.

 

*

 

Quando sei sfuggito alla Morte tante volte quanto me sviluppi un particolare sesto senso, e un'indistruttibile desiderio di vivere.

Non importa quanto a lungo devi camminare, non importa quante notti devi passare insonni, non importa quante ossa ti rompi: non puoi fare a meno di andare avanti, sempre avanti. Perché quello che ti sei lasciato alle spalle è più spaventoso di quello che hai di fronte.

Abbandonare la mia moto sull'autostrada deserta è stato un doloroso ma necessario distacco, visto che ho imparato a guidarla ma non ad aggiustarla.

La prossima città è ormai a pochi chilometri da dove mi trovo, e sono ore che cammino sotto il sole.

Questa giornata non poteva essere più soleggiata, più calda, più afosa di così.

Odio l'estate, e non soltanto perché il mio compleanno cade l'8 di agosto. Grandi festeggiamenti, ho persino stappato la mia ultima birra per celebrare l'evento: non si compiono tutti i giorni vent'anni, e soprattutto, è l'essere vissuto tanto da compierli a dover essere celebrato.

La radiolina a pile nella mia borsa continua a rimandarmi scariche statiche di dubbia utilità, quindi la spengo, onde evitare di trascinarmi dietro – o dover abbandonare – l'ennesimo giocattolo rotto. Darei qualsiasi cosa per sentire della musica, qualsiasi tipo di musica. Giuro, mi accontenterei anche di una canzone dei Tokio Hotel. Tutto pur di avere qualcosa in memoria del vecchio mondo che non siano macerie, carcasse, e corpi scheletrici lasciati a sbiancare sotto il sole.

La verità è che darei qualsiasi cosa per un contatto umano, anche fittizio. Sentire un'altra voce oltre alla mia, vedere un altro volto oltre il mio: solo questo.

Ma, come ho imparato nella mia infinita battaglia per la sopravvivenza, non si può avere ciò che si desidera.

Dieci anni fa questo era un mondo in cui non vedevo l'ora di crescere. Credevo di avere le potenzialità per scalarne le vette, come ogni bambino maschio di razza caucasica: ci hanno cresciuti così. Avrei potuto diventare tutto ciò che volevo, e i soldi dei miei genitori nutrivano il mio ego.

A undici anni avevo provato almeno una dozzina di sport, una dozzina di hobbyes, e avevo ottenuto due dozzine di fallimenti. Questo non perché non fossi bravo in quello che facevo, ma perché la libertà di poter smettere di farlo quando volevo mi rendeva pigro e poco motivato a farlo.

C'era sempre una buona ragione per mia madre per farmi smettere di frequentare il corso di karate, judo, tiro con l'arco, francese.

Non mi ero mai reso conto di quanto avere un ampio ventaglio di scelte mi rendesse incapace di scegliere.

La società mi stava crescendo pronto a soccombere all'inevitabilità di essere un inutile parassita come tanti altri, attaccato alla televisione e ai videogiochi come fossero flebo di morfina.

Per questo, quando Thanatos distrusse il mondo intorno a me, fu come aprire gli occhi per la prima volta.

Non c'era più mia madre ad assecondare i miei capricci, a placare i miei pianti, a rendere meno doloroso il fallimento con un abbraccio. Non c'era più mio padre con la voce grossa e lo sguardo arrabbiato in mia difesa. Non c'era più scelta.

L'imperativo era sopravvivere, a tutti i costi.

Non so bene cosa esattamente scattò in me, ma di certo fu qualcosa di molto potente. Forse un istinto atavico che non avevo ancora dimenticato, che i segnali televisivi e le onde radio nell'etere non avevano cancellato. O forse era l'impossibilità di scegliere di fare qualcos'altro.

Quel che so è che ad un certo punto dovetti alzarmi e lasciare i miei genitori al loro riposo eterno, sepolti sotto la terra ancora fresca. Ero rimasto lì per un tempo imprecisato che il mio corpo registrò come intollerabile molto presto. I bisogni fisiologici sono difficili da controllare, soprattutto quando sei abituato a tre pasti al giorno.

Mi venne naturale tornare a casa mia, l'ultimo baluardo di un mondo che stava crollando.

Per po' andò bene così, mi sembrò persino bello. Potevo mangiare quando volevo, quello che volevo, nelle quantità che volevo. Potevo non lavarmi le mani per sedermi a tavola. Potevo persino rimanere in mutande se mi andava.

Un bambino può considerare l'anarchia meravigliosa finché le scorte della dispensa non si ridussero a fagioli in barattolo, mais, pomodori secchi e qualche patata raggrinzita.

Fu forse nel momento in cui mi resi conto di aver mangiato tutto il mangiabile che capii che nessuno sarebbe andato a fare la spesa, perché non c'era nessun altro in casa con me.

Piansi, tanto. Non era l'unico, sconsolato pianto che si alzava nel vicinato quando arrivava il tramonto.

Se in qualcosa la mia generazione poteva ritenersi fortunata era di certo il bombardamento mediatico. Tra le tante, innumerevoli, inutili informazioni poteva esserci qualcosa di interessante. Dagli svariati film sull'Apocalisse zombie avevo imparato cosa andare a cercare per prima cosa una volta uscito di casa, dai documentari di sopravvivenza avevo imparato ad usare tutti e cinque i sensi quando mi muovevo, dai videogiochi stealth in prima persona avevo imparato ad essere silenzioso, a non fidarmi di nessuno, a usare oggetti comuni come un'arma.

Così seppi per istinto di non dovermi allontanare troppo da casa mia – o quantomeno di rientrare prima che fosse troppo buio per trovare la strada – e cominciai a saccheggiare le abitazioni a fianco.

In un mondo abitato da bambini, soli come me, non fu difficile trovare cibo, acqua, vestiti puliti.

Tutto si limitava a ciò che riuscivo ad arraffare, al peso che riuscivo a mettermi sulle spalle, ai beni di prima necessità che riuscivo a portare a casa prima che facesse buio.

Quand'ero sicuro di avere una scorta sufficiente mi prendevo anche dei giorni liberi per cercare qualche sopravvissuto. Con il solo ausilio delle mie gambe allontanarmi dal quartiere per raggiungere il centro era impensabile, per cui – prima di trovare il coraggio di passare una o più notti fuori casa – battei a tappeto il mio quartiere.

A parte Isa non avevo stretto amicizia con nessuno, e fu, sinceramente, il primo che andai a cercare.

Non lo trovai mai, e mai mi fu concesso sapere se fosse morto o meno. Ancora oggi, di tanto in tanto, mi capita di pensare a lui. Se è ancora vivo da qualche parte nel nostro nuovo mondo, o se ha raggiunto i suoi genitori e tutti gli altri adulti sottoterra.

Pian piano che le case del circondario si svuotavano, acquisivo sempre più sicurezza in me stesso, tanto da spingermi sempre più in là, da tornare a casa per la notte più raramente.

Compiuti tredici anni abbandonai del tutto casa mia. Era chiaro che ormai non ci fosse più nulla per me in quel posto, e che se fossi rimasto sarei probabilmente morto.

Così, imparai due cose nuove: come rubare la benzina succhiandola con un tubo di gomma, e come guidare una moto. Nonostante la mia traballante età mi rendesse un ibrido tra un bambino e un adolescente, il mio corpo aveva già deciso di tendersi verso l'alto. In tempi normali sarei stato il ragazzino più alto della scuola, ma non potevo saperlo visto che non andavo a scuola e non c'erano altri ragazzini con cui confrontarmi. Per di più le lunghe camminate e l'alimentazione forzatamente salutare – prima di tutto andavano consumati gli alimenti freschi prima che fossero da buttar via, frutta e verdura riuscivano a essere una parte importante dei miei pasti – mi avevano regalato un fisico asciutto con muscoli in via di sviluppo. Cavalcare una moto, quindi, fu una bazzecola rispetto a quello che avevo dovuto patire negli ultimi anni.

Come avevano sempre desiderato i miei genitori, mi trasferii in un appartamento in centro. Potevo vedere la piazza, la stazione, e il supermercato da una delle finestre. Una posizione strategica. Chissà quanto costava vivere in un posto del genere nel vecchio mondo.

Gli anni passarono così, tra giornate a cercare cibo e altre passate a cercare qualche sopravvissuto. Per non perdere la cognizione del tempo segnavo costantemente i giorni con una X sul mio calendario, e mi premuravo di festeggiare in maniera adeguata tutte le feste obbligate, per esempio per i miei quattordici anni mi regali una macchinina telecomandata che fu di intrattenimento finché non realizzai che non potevo sprecare le batterie, per il mio quindicesimo compleanno mi regalai una moto nuova, per la mia maggiore età un viaggio on-the-road, io, la mia moto, i miei viveri, la mia consapevolezza che non sarei mai più tornato.

Ovunque andassi era sempre la stessa storia: un mucchio di gente morta accatastata in pile più o meno alte, macchine abbandonate con le portiere aperte, vetrine di negozi sfondati, non una sola persona viva.

Non che io mi aspetti che adesso sia diverso. Dubito di entrare in città e trovare qualcosa che non abbia già trovato in questi dieci anni.

Sono abituato alla solitudine, ma il silenzio si è fatto asfissiante.

Prendo a canticchiare una canzone di cui non ricordo le parole ma solo il motivetto – non metto in dubbio che possa trattarsi della sigla di un cartone animato o la melodia di uno spot pubblicitario – e continuo a camminare sotto il sole.

Nonostante gli occhiali da sole specchiati Ray-ban – che fa così figo – non sopporto tutta questa luce, e probabilmente non ho superato il trauma di aver perso la mia moto.

Prendere una tra le tante macchine abbandonate lungo l'autostrada non sarebbe furbo, andrei più veloce a piedi visto e considerato che le corsie sono ingombre e i veicoli sono stati lasciati dove capitava prima, come nel più classico scenario post-apocalittico.

Se sarò fortunato una volta entrato in città potrò cercare un'altra moto. Ora che ci penso non mi sono ancora fatto un regalo per il mio ventesimo compleanno, e questo è male. La birra non è da considerarsi come regalo.

Il grosso cartello verde con su scritto “uscita 500 mt.” mi rende felice abbastanza da farmi aumentare l'andatura, quasi fino a spingerla ad una corsa sostenuta.

Sotto questo sole mi sembra di aver bisogno del doppio del quantitativo d'acqua che sono disposto a consumare senza averne prima trovata dell'altra.

Mi lancio sulla destra sbandierando un braccio come fosse una freccia segnaletica e imbocco l'uscita. È in pendenza per cui prendo velocità, sembra quasi di volare.

Con entrambe le braccia aperte lascio che il vento mi scompigli i capelli, e un urlo vittorioso mi esca dalle labbra, come fossi sulle montagne russe. Rimpiango di non essere mai stato grande abbastanza da poterci salire, non ne avrò mai più la possibilità.

Alla fine della discesa mi sento sudato e stupido, ma non posso fare nulla per nessuna delle due cose, quindi continuo a camminare, passandomi una mano tra i capelli per ravvivarli. Rosso fuoco, come quelli di mia madre, la criniera di cui mio padre si era innamorato.

Come sempre quando entro in una città nuova cerco di stare attento ai dettagli, agli oggetti che possono essere stati spostati da qualcuno o che sono semplicemente lì a diventare vecchi e ad arrugginire come quasi tutte le macchine sull'autostrada. Cerco segni di vita recenti, segni di vita umani.

Non è difficile distinguere la differenza tra qualcosa che è stato lasciato lì da un decennio e qualcosa che è stato messo lì da poco: polvere, ruggine, erbacce, sono tutti ottimi indicatori.

La periferia della città è esattamente uguale a tutte le altre. Desolatamente vuota.

Storco il naso e rivolgo a me stesso un penoso “te l'avevo detto”.

In cosa speravo non lo so più neanch'io.

Adesso fischiettando la canzoncina di poco fa, calcio distrattamente un barattolo che sembra lì lì per disfarsi in mille pezzi, tanto è arrugginito e messo male.

Con lo sguardo controllo ogni angolo, l'udito coglie ogni suono. Nulla. Qui non c'è nulla.

Coltello alla mano mi intrufolo nella prima abitazione sulla strada e comincio a cercare quello che cerco sempre, sempre gettando un occhio alle mie spalle: le precauzioni non sono mai abbastanza.

Tutto ciò che trovo, con mio sommo dispiacere, è solo qualche barattolo di zuppa e una confezione scaduta di cracker, ma dalla fine del mondo ho imparato che le date di scadenza sono per i deboli, quindi la apro e comincio a sgranocchiarli. Nei mobili più bassi trovo anche una confezione d'acqua. Una bottiglia la bevo tutta sul momento, le altre cinque trovo modo di impacchettarle insieme per potermele portare dietro. Non è ancora il massimo di peso che posso sopportare, e non mi va di fermarmi alla prima casa quando il sole è ancora così alto.

Nelle altre abitazioni trovo meno di niente, ma raccolgo comunque tutto. Qualche mozzicone di candela, un accendino, una torcia ancora funzionante, un libro di Asimov. Potrò portarlo con me solo finché non avrò finito di leggerlo, non posso permettermi di portarmi dietro un peso inutile, ma sarà d'aiuto per sentirmi meno solo.

Consapevole che qualcuno prima di me ha ripulito questa zona – anche piuttosto bene – mi premuro di lasciare il mio messaggio con una bomboletta spray sul muro più grosso che trovo in modo che sia ben visibile: Axel Sinclair, 20 anni, sopravvissuto. 12/08/2026.

Ho lasciato scritte simili più o meno dappertutto. Sui muri degli uffici, su quelli dei fast food, sulle enormi vetrate dei centri commerciali: ovunque ci fosse abbastanza spazio per scrivere, ho scritto. Mi piace pensare che qualcuno, prima o poi, leggerà queste scritte e saprà da qualche parte, in qualche modo, io c'ero. Rimarrà a perenne memoria della mia esistenza.

È confortante e insieme spaventoso lasciarsi alle spalle quel murales improvvisato. Mi fa pensare costantemente a ciò che scriverò nell'ultimo, quando sarò prossimo alla morte. Sarò abbastanza in forze per scrivere? Ci sarà l'occasione per farlo? Come i miei genitori mi addormenterò senza più svegliarmi?

Quale sarà il mio messaggio di addio?

Prendo un profondo respiro e riprendo a camminare. La bomboletta spray è quasi finita, ma sono sicuro di poterne trovare comodamente un'altra nel primo negozio di bricolage che incontrerò sulla strada: non sono i posti preferiti dei saccheggiatori.

Tante volte mi è capitato di visitare le città in devasto da turista, o almeno immaginandomi come sarebbe stato se ci fossi andato da turista. Da un'edicola in via di disfacimento – come tutto il resto – prendevo una cartina e visitavo i posti culturalmente e artisticamente più rilevanti. Poi scattavo una foto con la macchina fotografica fatta con indice e pollice delle due mani e proseguivo. Per qualche ragione ero sicuro che ai miei genitori sarebbe piaciuto sapere che mi stavo divertendo, che stavo conoscendo tanti posti nuovi, che non andavo a bere o a letto con degli estranei conosciuti al bar tutte le sere. Gli ho scritto tonnellate di cartoline e lettere diventati come diari del mio viaggio in solitaria. Quando ne accumulavo un quantitativo sufficiente, le seppellivo in scatole di scarpe sotto i miei murales, indicando nella scritta cosa stavo lasciando.

Ho perso quest'assurda abitudine, perché ho smesso di vedere tutto questo come il legittimo viaggio di un ragazzo della mia età. Non sono appena uscito dall'università con tutta la mia vita davanti, non sono in viaggio in giro per il mondo per vedere più cose possibili prima di cercarmi un lavoro serio e metter su famiglia. Non ci sarà niente di tutto questo nella mia vita futura, non so neanche se ho effettivamente una vita futura. Perché fingere?

Ma è rimasto radicato in me il bisogno di imprimermi nella retina le grandi opere dell'uomo prima che il tempo, l'abbandono e gli agenti atmosferici le disfacciano.

Per questo la prima cosa che faccio arrivato in centro è cercare un'agenzia turistica o un negozio di souvenir che mi indichi i punti di interesse della città.

Le chiese sono la cosa che più mi affascina vedere. Diverse volte, tra i banchi ancora odorosi di incenso, mi è capitato di vedere cadaveri di uomini e donne – tutti adulti – rifugiatisi davanti alla Croce per chiedere un ultimo favore, per rivolgere un'ultima preghiera, per essere ignorati un'ultima volta.

Se è essere sopravvissuto in quest'Apocalisse o l'essere cresciuto senza assistenza genitoriale ad avermi reso un miscredente non lo so, ma di fronte a quei corpi, alla loro sofferenza, al loro ultimo, muto grido, non posso che sentirmi piccolo e inerme. Non posso che chiedere “perché”.

Ho le mie domande da rivolgere a Dio, se esiste, quando sarò morto.

Trovata una pittoresca cartina con su indicati anche i punti di ristoro più vicini – questo è oro – mi dirigo a passo spedito verso il Duomo della città. Voglio godermi a pieno tutte le ore di luce e trovare un posto dove dormire stasera mentre c'è ancora il sole.

Quando sei costretto la paura del buio ti passa in fretta, ma non significa che non lasci degli strascichi.

Con il naso all'insù e il sesto senso sempre vigile, controllo i dintorni. Evito di camminare nelle zone d'ombra, mantenendomi al centro della strada. L'esperienza mi ha insegnato che non solo gli esseri umani – se ne sono rimasti – cercano di sopravvivere, e che gli animali selvatici hanno preso a popolare le città ad una velocità allarmante. Non ci tengo ad essere aggredito da qualche lupo, o peggio.

Ovunque si scorgono gli ultimi sprazzi di civiltà. La corrente elettrica ormai è un ricordo passato, ma i dispositivi elettronici sbucano dappertutto.

Per farmi compagnia riaccendo la radio, nella speranza di beccare una frequenza su cui stanno trasmettendo qualcosa, qualsiasi cosa.

Il ronzio delle scariche statiche mi è ben troppo familiare.

La grande piazza del Duomo è così vuota da farmi venire i brividi. Riesco a vedere come fantasmi tutte le persone che in altri tempi l'avrebbero frequentata.

L'orologio del campanile è fermo per sempre, batterà per tutta l'eternità mezzogiorno, e mezzanotte. Come disse Herman Hesse “Anche un orologio fermo segna l'ora giusta. Due volte al giorno”.

Mi avvio verso il portone principale e mi infilo dentro come se fossi il Papa, spalancandolo del tutto in modo che la luce possa illuminare l'ambiente polveroso.

Nel silenzio i miei passi risuonano come colpi di cannone. La bellezza del marmo scolpito insieme con la freddezza degli occhi degli angeli mi colpisce, come sempre. Sul soffitto i dipinti stanno scolorendo, patiscono della mancanza di una mano restauratrice, ma sono comunque così belli che click scatto una foto con la mia macchina fotografica a quattro dita, non resisto.

I banchi sono sono tutti sottosopra, come se ci fosse stato un tornado. Una statua della Madonna è stata spaccata e giace in un angolo sotto un mucchio di monete sparse e arraffate solo in parte.

L'altare spoglio sembra quasi un avvertimento: il Dio che cerchi è andato via molto tempo fa.

Dall'odore che aleggia nell'aria presumo che ci sia qualche cadavere nascosto nel buio che non riesco a vedere. Lo ignoro, normale amministrazione, e mi siedo sul primo banco dritto che riesco a trovare, uno degli unici di fronte all'altare.

È la prima volta che mi fermo da questa mattina, quando la moto mi ha abbandonato. Solo in questo momento mi rendo conto di quanto sono stanco, di quanto mi fa male tutto, di quanto il corpo chieda pietà. Le spalle gettano un urlo di dolore quando poggio lo zaino sul pavimento. Pago le conseguenze di aver trasportato tutte queste bottiglie d'acqua senza una sosta.

Decido di premiarmi con una barretta Kinder mezza sciolta, giusto un cubetto, che infilo in bocca come fosse una reliquia: non credo ne esistano più al mondo, commestibili almeno, potrebbe essere l'ultima che mangio. La innaffio ben bene con un sorso d'acqua calda come per sciacquarmi il sapore del cioccolato dalla bocca – meglio non assuefarsi e rischiare di diventare nostalgico – e faccio per alzarmi quando, per la prima volta in dieci anni, sento un rumore familiare. Non sapevo fosse così familiare dato che l'ultima volta che l'ho sentito ero ancora un bambino, eppure è bastato che l'orecchio lo cogliesse per una frazione di secondo perché lo riconoscesse all'istante.

Passi. Passi umani.

Non sono sopravvissuto per tutto questo tempo abbandonandomi all'istinto, quindi prima di schizzare nella direzione dei passi mi rigetto lo zaino in spalla e mi rialzo, lentamente.

I passi rimbombano ovunque, sembrano provenire dappertutto. La fonte potrebbe essere la zona buia dietro il pulpito, o una delle cappelle laterali, o perché non la sacrestia?

Poi un'ombra, più densa, in movimento, cattura la mia attenzione. La cappella laterale alla mia destra.

Per un secondo c'è solo silenzio, poi i passi si trasformano in una corsa disperata verso l'uscita.

« ASPETTA! »

Penso di non aver mai sentito la mia voce gridare così forte da anni.

Mi getto all'inseguimento, il cuore balzato in gola all'improvviso. Mi sembra di non avere abbastanza aria nei polmoni per respirare, mi sembra che le gambe non reggano il mio peso. Non posso liberarmi dello zaino, c'è tutto il necessario per sopravvivere, sarei perduto senza, ma al contempo mi rallenta in corsa.

La luce del sole mi acceca per un attimo quando esco dalla chiesa e devo battere forte le palpebre per mettere a fuoco il mondo intorno a me.

La piazza è deserta. Chiunque ci fosse in chiesa è sparito. Sto per urlare la peggiore parolaccia che conosco quando un gruppo di piccioni spaventati che si alza in volo attira la mia attenzione. Riesco a scorgere una chioma biondo grano e scarpe da ginnastica lanciate in corsa prima che voltino l'angolo.

Non ci penso due volte. Corro, corro e basta, dimenticando tutte le basilari regole di sopravvivenza.

« ASPETTA, PER FAVORE! »

Urlo ancora, con tutto il fiato che ho in gola. Non pensavo di essere in grado di urlare tanto forte.

Sono sempre un passo indietro al fuggitivo. Colgo solo brandelli del suo vestiario e dei suoi capelli prima che volti bruscamente in qualche vicolo rischiando di farmi perdere le sue tracce. Potrebbe essere una visione causata dal caldo, o dalla solitudine in cui sono stato costretto a vivere per quanto ne so. Eppure non riesco a fermarmi.

I polmoni vanno in debito di ossigeno dopo dieci minuti di corsa, le ginocchia mi cedono. Il piccolo bastardo è veloce.

Rallento, troppo, e lo perdo di vista alla successiva svolta.

Sparita.

La prima e unica persona che abbia incontrato in dieci anni è sparita.

 

All'inizio il senso di vuoto è stato difficile da sopportare, tanto opprimente e doloroso mi ha costretto a rimanere immobile a cercare di riprendere fiato. Mi sembrava di soffocare, di vederci rosso.

Poi, pian piano, il tutto è stato sostituito da una speranza sottile, fastidiosa come il ronzio di una zanzara nell'orecchio.

C'è qualcuno, c'è qualcuno oltre me in questa città. Qualcuno ancora vivo, qualcuno come me, sopravvissuto a questo mondo. Che vive, respira.

Non sono solo.

Questa sensazione spiacevole e inusuale, mai provata fin ora, mi ha spinto a cominciare la ricerca. A partire dall'isolato del Duomo in cerchi concentrici verso l'esterno.

« MI CHIAMO AXEL SINCLAIR. » è il mio urlo, disperato, con le mani a coppa intorno alla bocca per amplificare la voce. « SONO UN SOPRAVVISSUTO, LO SO CHE C'È QUALCUNO, PER FAVORE. »

Il risultato dopo ore e ore di quella patetica messinscena?

Al tramonto, quando tutte le ombre si sono allungate tanto da creare strane e spaventose forme, sono senza voce, completamente. Non mi esce neanche un sussurro e la gola è in fiamme per gli eccessi di tosse.

L'ultimo tentativo è tornare nuovamente al Duomo, anche se so benissimo che quella persona non si nasconderebbe due volte nello stesso posto. Ma è lì che ho avuto il mio primo, unico contatto umano, e per qualche motivo mi da conforto.

Rimango qualche altro minuto di fronte al portone spalancato della Cattedrale, poi mi rendo conto che ormai si sta facendo buio e che non voglio essere sorpreso in strada dalla notte.

Così, carico della mia delusione, cerco un posto dove potermi rifugiare. Nei dintorni del Duomo c'è un liceo abbandonato, diversi bar e negozi di souvenir, una fumetteria – da cui recupero un numero stropicciato di X-men –, un cinema dalle vetrate rotte e condomini a tre piani.

Scelgo il primo palazzo che mi capita, ma non mi fermo fino al terzo piano, ultimo appartamento. Deve essere cauto, soprattutto se c'è qualcuno che si aggira per la città.

La porta si apre senza opporre resistenza, e non la richiudo finché non ripeto la mia triste routine: con la torcia controllo ogni stanza del piccolo appartamento, sotto i letti e sotto i divani, dentro gli armadi, i mobili, ovunque ci si possa nascondere; controllo la dispensa, prendo gli abiti che mi possono andare, entro in bagno, sporco ma non intasato – ed è sempre bello non doversi accucciare tra il fogliame per espletare i miei bisogni –, poi scelgo una stanza da letto e ne faccio il mio nido.

Barrico la porta con la cassettiera in modo che sia difficile da aprire, posiziono la torcia ancora accesa su uno dei comodini e mi spoglio di tutta la mia attrezzatura. Per una volta eviterò di dormire nel sacco a pelo, il letto matrimoniale è fin troppo invitante.

Mi è rimasta un po' di frutta ma il caldo la sta rapidamente rendendo immangiabile, così due mele diventano la mia cena, assieme con una barretta di cereali e una pillola di integratori alimentari – utile quando non si riesce a ingerire la quantità di proteine necessarie –.

Prima di lasciarmi andare al sonno sistemo la sveglia a carica manuale, il suo tic tac è rumoroso, come è giusto che sia vista la sua età. Faccio in modo che suoni per le sei del mattino e mi comincio a leggere il fumetto. Pieno zeppo di personaggi che non ho mai visto, con una trama che non conosco, che nell'ultima pagina annuncia che il finale si trova nel prossimo volume. Un po' come la mia vita.

 

Quando la sveglia suona allungo pigramente una mano nel tentativo di zittirla. Per qualche ragione il fumetto, ancora aperto, giace sul mio naso. Devo aver aspirato tutta la notte odore di carta e inchiostro.

Manco la presa e la sveglia cade sul pavimento, senza smettere di strillare il suo allarme fastidioso.

Grugnisco qualcosa e mi sporgo per prenderla da terra e zittire il martelletto con due dita – in modo che la smetta di colpire le due campane sui lati – mentre con l'altra mano la spengo.

Finalmente silenzio.

Sospirando di sollievo mi ributto a letto, le braccia e le gambe aperte a X.

Il momento del giorno che più adoro è questo. Pervaso dalla confusa sensazione del risveglio, tutto sembra avvolto da una nebbia leggera, impalpabile. I contorni del mondo sono sfocati, presente, passato e futuro si intrecciano con gli ultimi brandelli di sogno, ed è come esistere in un istante senza tempo. Riesco a sentire l'odore della colazione provenire dalla cucina, la voce di mia madre che chiama il mio nome, il rombo della macchina di mio padre sul vialetto, già uscito per andare a lavoro.

Poi torno cosciente. Su di me il soffitto stinto comincia ad accumulare una serie di ragnatele che con il tempo invaderanno la stanza. La luce del sole nascente comincia a prendere piede nella stanza, pulviscoli danzano nei suoi raggi dorati.

Mi ci vuole ancora un attimo, giusto un attimo, per ripetermi le cose che so di me e che non devo mai, mai dimenticare.

Mi chiamo Axel Sinclair. Ho compiuto da poco vent'anni. Oggi è il 13/08/2026. Sono sopravvissuto ad un'altra notte.

Mi tiro su a sedere e i muscoli urlano un enorme, gigantesco “NO!”. Mi fa male tutto, ogni parte del corpo. Tra la camminata sotto il sole, il trasporto di tutte quelle bottiglie d'acqua e la corsa inaspettata sono a pezzi.

Emetto un versetto strozzato simile ad un piagnucolio quando recupero dallo zaino l'ennesima barretta per colazione.

Mi chiedo che gusto abbia il caffè, e se davvero funzioni per svegliarsi, perché ne avrei davvero bisogno.

Consumata la mia veloce colazione mi infilo la maglietta pulita trovata nell'armadio e mi osservo nello specchio appeso alla parete. Non male, è un po' larga, ci starò comodo. Do una ravvivata ai capelli, portandoli tutti indietro nel tentativo di domarli. Non so se sia una loro inclinazione naturale o se è un look da Apocalisse, ma sono spinosi, davvero, sparati in ogni direzione come rossi aculei di un porcospino.

Mi chiedo se non ci sia troppa stanchezza nei miei occhi verdi.

Mi stringo nelle spalle e mi risistemo lo zaino addosso – cosa che fa cigolare il mio scheletro – dopo di che libero la porta dalla cassettiera.

È subito chiaro, dal forte odore di vernice ancora fresca, che qualcuno è stato qui.

Il cuore mi sprofonda sotto i piedi per un attimo, per poi balzarmi in gola alla velocità del suono.

Scatto verso il salotto, seguendo la scia chimica della vernice, e mi ritrovo davanti una gocciolante, ancora fresca, scritta impressa sul muro da una mano sconosciuta.

A mezzogiorno alla piazza del Duomo.”

Nient'altro, solo questo.

Mi avvicino tremante alla scritta, la tocco, la vernice mi rimane sulle dita, l'odore mi fa girare la testa.

La porta d'ingresso dell'appartamento è spalancata.

Chiunque sia stato qui ci è stato da poco. Chiunque sia stato qui vuole vedermi a mezzogiorno alla piazza del Duomo.

Non so come dovrei sentirmi, non sono granché nelle relazioni interpersonali, e non mi lavo i denti da settimane. In effetti avrei bisogno di una doccia, tutti i miei vestiti puzzano di sudore o sono stracciati. E i capelli? Non parliamone.

« Axel, non è un appuntamento. »

Mormoro, ho ancora la voce roca per il troppo gridare. Anzi, per la precisione mi sembra di avere carta vetrata in gola, ogni parola che emetto è dolorosamente cupa. Un ottimo biglietto da visita.

Cerco di pensare lucidamente alla cosa, di analizzarla come tante altre volte sono stato costretto a fare.

Tanto per cominciare la persona che ha scritto il messaggio è riuscita a seguirmi senza essere vista per tutto il giorno, fino a entrare nell'appartamento dove dormivo – sento un pizzicore su tutto il corpo pensando che un altro essere umano è stato qui, a meno di due metri di distanza –. Probabilmente si tratta dello stesso individuo che ho intravisto ieri, e che ho cercato di scovare invano. Di sicuro si tratta di un ragazzo o una ragazza della mia età, di poco più grande o di poco più piccolo – posso sbagliarmi di un paio d'anni, non di più –. Ma a giudicare dall'altezza delle lettere scritte sul muro non deve essere uno spilungone, quindi o è un ragazzo molto piccolo, o è una ragazza – mi mette a disagio che il primo essere umano con cui avrò un contatto sarà una ragazza –. Data la bravura con cui si è nascosta – do per scontato si tratti di una ragazza, okay – deve conoscere questa città come le sue tasche.

Non sono molte informazioni ma sono sufficienti per farmi sentire padrone della situazione. Solo che adesso l'idea di aspettare fino a mezzogiorno è intollerabile.

 

L'orologio in cima al campanile segnava l'ora giusta un quarto d'ora fa. Le due lancette sono fisse sulle dodici e il mio sguardo vaga intorno alla piazza.

Il mittente del messaggio è in ritardo. Non è molto carino considerando che aspetto solo da dieci anni di incontrare qualcun altro che non sia il mio riflesso nello specchio.

Decido di poter perdonare quel ritardo nell'esatto momento in cui sgorgo una sagoma in avvicinamento.

Piccolo, dalla chioma esageratamente bionda e scompigliata, vestito come se stesse andando in giro con gli amici, perfettamente a suo agio in quell'ambiente: non è una ragazza, ma un ragazzo.

I suoi occhi blu intenso si alzano su di me solo quando è abbastanza vicino da non poterne fare a meno e qualcosa dentro di me si strappa, ma per qualche ragione sono sicuro che non sia un male, per qualche ragione sono sicuro di aver aspettato tutta la vita di sentirmi lacerare così.

Il suo viso mi sembra bellissimo, il piccolo broncio serio sulle sue labbra divino, le sopracciglia biondo scuro arricciate tra loro irresistibili.

« Ciao. »

La sua voce è un po' troppo acuta per la sua età, ma adeguata alla sua minuscola forma. È la miniatura di un uomo.

Sono sicuro, però, che stia trattenendo le lacrime tanto quanto lo sto facendo io.

Inaspettatamente sorrido, non ho potuto impedire agli angoli delle labbra di sollevarsi entrambe nello stesso momento.

« Ciao. »

Maledico la mia voce roca, ma solo per un attimo, il tempo di vedere anche lui sorridere.

Non pensavo che vedere un sorriso potesse scaldarmi lo stomaco in questo modo.

« Axel, mh? L'hai urlato tutto il giorno. »

Mi dispiace” è la prima cosa che tenta di affiorarmi alle labbra, ma invece mi esce un polemico:

« Non avrei urlato tutto il giorno se ti fossi fatto vivo prima. »

Bel modo di cominciare, perfetto, adesso mi odierà.

Lo vedo sbuffare e incrocia le braccia al petto.

« Non sapevo ancora se potevo fidarmi. »

« Cosa ti ha fatto cambiare idea? »

Si stringe nelle spalle, e credo che voglia dire che non ha intenzione di parlarmene.

« Mi chiamo Roxas. »

« Piacere di conoscerti, Roxas. »

Inevitabile, tra noi cala uno strano, imbarazzante silenzio che però mi rende subito in grado di capire cosa prova lui.

Quanti anni avrà passato aspettando di vedere qualcun altro, di sentire un'altra voce, di parlare con qualcuno?

Di non essere più solo?

Benché ci sia qualcosa tra di noi che ci rende irraggiungibili, c'è anche qualcosa che ci avvicina più di quanto saremmo disposti ad ammettere.

Mi scopro a pensare come sarebbe abbracciarlo. È un pensiero fugace ma così forte da mozzarmi il respiro per un attimo. Mi chiedo come sia toccare il suo viso, intrecciare le dita alle sue. Mi chiedo che sapore abbia, che odore abbia.

Devo averlo visto in un documentario, da bambino. Due animali della stessa specie che si incontrano per la prima volta è il loro immediato bisogno è quello di toccarsi, studiarsi con i sensi, strusciare i nasi, intrecciare le code.

Non siamo tanto diversi, eppure, pur avendo perso ogni blocco mentale imposto dalla società, non riusciamo ad abbattere quel cliché imbarazzato del contatto fisico con un estraneo, come se essere qui, in questo momento, non ci rendesse già amici, parenti, amanti.

Sposto il peso del corpo da un piede all'altro, a disagio. Mi ritrovo a fissargli le scarpe mentre parlo.

« Sei la prima persona che incontro in dieci anni. »

Ha il sapore di una confessione, amaro e fastidioso. Vorrei non averlo detto, mi pento già e mi mordo la lingua quasi a sangue.

« Sei la prima persona che incontro in otto anni. »

Risponde lui, sollevato, come se si fosse sbloccato dopo avermi sentito parlare. Allora alzo la testa e mi vengono i brividi nel vedere quegli occhi blu fissarmi in quel modo.

Non sono abituato ad altri occhi, non sono abituato al blu, ho sempre e solo fissato il verde, tanto che avevo scordato potesse esistere qualcosa di diverso.

Ancora silenzio, ma stavolta non lo definirei imbarazzante, è qualcosa di diverso. Riesco quasi ad intuire cosa voglia dire stare soli in compagnia. È una sensazione che mi fa formicolare tutto, che fa entrare in circolo tanta adrenalina che mi viene voglia di saltare, correre, urlare. Ma rimango immobile a fissare quella che potrebbe essere un'allucinazione della mia mente stanca.

« Ahm... » comincio, abbozzando un sorriso. « Mi piacerebbe poter...non so, portarti a mangiare qualcosa, o prendere un caffè, ma a quanto pare c'è stata l'Apocalisse quindi... » il resto della frase si perde in una risatina nervosa.

Decisamente non ci so fare con le persone. Non posso fare a meno di chiedermi se le cose sarebbero state diverse se avessi avuto modo di vivere una vita normale, o se sarei stato un disastro comunque.

Però, contro ogni mio pronostico, Roxas ride e scuote la testa come se avessi detto la barzelletta più divertente del mondo.

« Quindi...hai vent'anni? »

Mi chiede all'improvviso, quando la risatina si placa.

Mi ritrovo ad annuire con un po' troppa convinzione.

« Cerco di tenere il conto del tempo che passa. »

Giustifico, come se potesse perdonare il mio eccesso di entusiasmo nell'annuire.

« Io ne ho diciotto. »

Ci sono lunghe pause di silenzio tra noi, tra una domanda e l'altra, come se dovessimo mettere in ordine i pensieri con calma prima di sapere cosa vogliamo realmente sapere, come se avessimo accumulato così tante cose da dire che adesso necessitiamo di tempo perché non escano tutte insieme come un ammasso di suoni disarticolati.

« Abiti qui? »

Riesco a chiedergli e stavolta tocca a lui annuire con troppo entusiasmo.

« È una città enorme, a parte i centri commerciali e i negozi più grandi ci sono scorte di cibo che basteranno per tutta una vita. Per non parlare di quello che si può trovare nelle case abbandonate. » si blocca per prendere aria, mi guarda come per capire se ha parlato troppo e se la cosa mi ha dato fastidio. Ovviamente no, quindi riprende. « Sono arrivato qui circa tre anni fa e non me ne sono più andato. »

« Hai battuto tutta la città? »

« No, ma ho una cartina delle zone che non ho ancora visitato. Il centro è pieno di tesori nascosti, non ho ancora bisogno di spostarmi. »

Non mi sono accorto di essergli tanto vicino da sentire il suo respiro addosso, il suo calore. Nessuna parola del mio vocabolario è sufficiente per descrivere la sensazione. È strana, ma piacevole. Così piacevole.

« E tu? Hai intenzione di rimanere? »

La sua domanda mi fa tornare presente a me stesso. Ho come l'impressione che voglia dire altro, ma si morde la lingua e non continua.

« La mia moto si è rotta ieri mattina sull'autostrada. » non è proprio una risposta alla sua domanda, me ne rendo conto. « Mi sono ritrovato a piedi e questa è stata la prima città sulla strada. »

Cos'è quella luce nei suoi occhi? E perché mi fa così male?

Distoglie lo sguardo, per un attimo rivolto alla torre dell'orologio. Mezzogiorno, sempre mezzogiorno.

« Quindi appena avrai trovato un'altra moto...? »

« Me ne andrò. » rispondo a cuor leggero, senza pensare a quello che ho appena detto, tanto che aggrotto le sopracciglia e scuoto la testa. « No, cioè, era quello il piano prima. » prima di incontrare un altro essere umano. Prima di incontrare lui.

« E adesso? »

Adesso non lo so più. Ma non riesco a dirglielo, mi si blocca la lingua e non ho più voce in gola. Deglutisco solo per constatare quando mi faccia male dopo aver urlato per tutto il giorno.

« Posso portarti in un autosalone qui vicino. » e comincia a camminare prima ancora che possa annuire o fare qualsiasi altra cosa che non sia andargli dietro. « Ho visto qualche moto, ma non so se funzionano ancora. Sapresti farle partire? »

« Considerando il fatto che ho dovuto abbandonare la mia in autostrada, direi di no. »

E mi viene fuori una smorfia di dolore e insoddisfazione per Roxas ride. È quasi un sollievo sentirlo ridere. Mi piace.

« Allora speriamo che funzionino. »

 

Camminiamo in silenzio, fianco a fianco, per un tempo che mi sembra infinito. Il suo passo è diverso dal mio, e sono sicuro che pensi di me la stessa cosa, perché cerchiamo entrambi di adattarci finendo con l'avanzare a singhiozzi nel tentativo di aspettarci a vicenda.

Le sue gambe corte impiegano il doppio dello sforzo per seguire le mie più lunghe, e decelerare perché non debba corrermi dietro mi è quasi doloroso. Sono abituato a muovermi velocemente, su qualsiasi terreno, non che lui non lo sia ma...è diverso.

Non parliamo durante il tragitto, sembra che non ce ne sia bisogno.

Di tanto in tanto Roxas mi indica un negozio da cui potrei rifornirmi, una farmacia che non ha ancora rifornito. Non so cosa sia l'ospitalità, ma credo che questo si avvicini molto a quel concetto. Mi sta mostrando la sua città come si mostrerebbero le stanze di una casa.

Mi mette in guardia su alcune zone che definisce “selvatiche”: pare che i cani, lasciati a loro stessi, abbiano formato un branco piuttosto aggressivo e non sia il caso di avvicinarsi al loro territorio.

Da come si muove – con tutta la tranquillità di chi sa benissimo cosa fare e dove andare – non mi risulta difficile capire come abbia fatto a sopravvivere per tutto questo tempo, nonostante sia più giovane di me di due anni. Lo ammiro per questo.

Ci scambiamo informazioni come fossimo studiosi esperti. Gli racconto di come ho curato un brutto sfogo cutaneo venutomi dopo aver toccato una pianta evidentemente velenosa, e lui mi illustra i rimedi per le intossicazioni alimentari da cibo avariato; gli spiego come succhiare dai serbatoi delle auto un po' di necessaria benzina, e come rimediare se nel processo se ne ingerisce un po', e lui mi offre trucchetti ingegnosi per raccogliere pioggia e condensa per trasformarla in acqua potabile.

Le mie conoscenze sono quelle di un nomade, abituato a dover fare tutto in fretta e nel miglior modo possibile, le sue sono quelle di chi ha dovuto fare tanti tentativi prima di capire come funziona.

Insieme ci completiamo.

Arrivati all'autosalone mi sento come un bambino e, forse contagiato dal mio entusiasmo, Roxas mi saltella dietro.

Anche se le vetrate sono sfondate, se ci sono documenti ingialliti sparsi ovunque, se banconote spiegazzate e monete sono sparpagliate ai piedi di una cassaforte spalancata, se alcune delle macchine più lussuose hanno i vetri in frantumi o sono state smantellate, mi sembra il posto più bello del pianeta.

Non dobbiamo cercare troppo a lungo per trovare le moto. Qualcuna è rovesciata sul pavimento, altre sono in frantumi, ma quelle in piedi sembrano in buono stato.

Mentre gironzolo accanto ai modelli più adatti a ciò che mi serve, Roxas recupera una manciata di chiavi da dietro un bancone.

Io so solo guidare questi aggeggi, non so niente di modelli, cilindrate, consumi, per cui se non ci fossero dettagliate etichette su ogni chiave non saprei a quale modello corrispondono.

Salto in groppa alla prima e provo ad accenderla. Di solito questi affari in concessionaria hanno sempre un po' di benzina, e benché siano vecchi di dieci anni sono speranzoso: si tratta di modo ultimo modello...ultimo modello dieci anni fa.

Il motore non resuscita al primo tentativo e neanche al secondo, tossisce e si spegne in una nuvola di fumo nero.

Roxas ridacchia e provo la seconda.

Stavolta sono fortunato. Il rombo del motore che sale di giri mi fa venire brividi di piacere.

« Salta su! »

Urlo a lui, superando lo scoppiettio arrabbiato di pistoni e cilindri che hanno dormito per tutto questo tempo.

Non se lo fa ripetere due volte: si accomoda dietro di me e mi stringe le braccia intorno alla vita.

Non ho il tempo di pensare a quella sensazione, a quel primo contatto, perché lui mi urla:

« Dove andiamo? »

« Dove vuoi! »

« A casa mia! »

« Okay! »

L'euforia che ci ha preso sarebbe esprimibile con una serie infinita di punti esclamativi, o con il suono delle nostre risate che rimane come un'eco a lungo anche dopo che siamo sfrecciati via.

 

Il vento ha reso i nostri capelli indomabili più di quanto non lo fossero prima. Vedo riflessa negli occhi blu di Roxas quanto la mia chioma rossa si sia scompigliata, sparata verso l'alto come se fosse stata risucchiata da un tornado, e sono sicuro che lui possa vedere nei miei di occhi come i suoi capelli biondi siano diventati una massa spinosa tesa tutta da un lato. Ma non ci importa.

Casa sua non è lontana dal centro, ma è ben nascosta in un vicolo tra due palazzi più grandi, in un seminterrato asciutto e fresco che sembra l'ideale per nascondersi e per superare i freddi inverni e le torride estati.

Ma la cosa più stupefacente è l'elettricità.

Con una serie di batterie per auto, alcuni lunghi fili di lucine di natale, qualche lampadina a basso consumo energetico, Roxas è riuscito ad avere la luce.

Quella serie di lampeggianti riflessi colorati misti alla fioca illuminazione delle lampadine rendono quel seminterrato un posto magico, avvolto da un'aura soffusa che mi fanno esclamare un “wow” di ammirazione.

« Non è niente di che. »

Si giustifica subito lui, ma per me è decisamente “qualcosa di che”.

Ha arredato quel piccolo spazio quadrato con le cose che piacciono ai ragazzi – o almeno penso –: c'è un divano bello grande al centro su un tappeto morbido su cui sarebbe magnifico camminare a piedi nudi, un'enorme libreria zeppa di libri è addossata alla parete, il letto è matrimoniale e di fianco c'è una pila di lenzuola ancora chiuse nel loro imballaggio – deve averle prese da poco da qualche negozio –. Il bagno è ricavato in un'altra stanza, e anche se dovesse essere grande un metro per un metro sarebbe comunque la cosa migliore che abbia visto fin ora.

« Hai fatto tutto questo da solo? »

Gli chiedo, sollevando le sopracciglia, in ammirazione.

Lui si toglie le scarpe e si butta sul divano. C'è un libro aperto sul bracciolo. Asimov. Sorrido per la coincidenza.

« Beh, non proprio tutto. I contatti elettrici c'erano già, probabilmente chi viveva qui era allacciato illegalmente al sistema elettrico del palazzo, ho dovuto solo ricollegare qualche filo. Portare dentro i mobili è stata la parte più difficile, ma ho scelto solo quello che potevo smontare e trasportare in parti più piccole. Ho impiegato cinque giorni per portare il divano dal negozio fino a qui e poi sistemarlo, però né è valsa la pena. »

Tocca con una mano il posto accanto a lui e mi sento così strano strano sedermi su un divano. È una cosa così normale.

« È fantastico! È tutto fantastico. » gli sorrido, e credo di non sapere bene come si fa, perché mi fanno male le guance. « Non vedevo una luce accesa da... » scuoto la testa, ancora allibito. « Da anni! »

Sorride tanto quanto sorrido io e vederlo sorridere amplia il mio sorriso. Probabilmente sembriamo due idioti, ma chi può giudicarci? Siamo solo noi. Per quanto ne sappiamo potremmo essere soli al mondo.

« Ti va di mangiare qualcosa di caldo? »

« Assolutamente sì. »

Non importa che fuori ci siano 40° gradi, qui giù sembra esserci il clima ideale per “qualcosa di caldo”.

Da un mobiletto tira fuori un fornello da campeggio, grande abbastanza da cucinare per uno, e ci mette su una pentola dentro cui versa una busta di noodles precotti. Basta che l'acqua si riscaldi perché siano pronti. Con le mie barrette e le mie mele raggrinzite quello mi sembra un pasto da re.

« Parlami di te. » mi dice, mentre con un vecchio cucchiaio di legno rimesta nella pentola. « Come sei arrivato qui? Cosa hai visto? Come hai fatto a sopravvivere? »

Sembra disposto a rispondere a quelle stesse domande non appena l'avrò fatto io, per questo prendo a raccontare la mia storia come se fosse un romanzo di avventura, o un film d'azione, o qualcosa per cui vale la pena prestare attenzione. Ma per quanto noiosa la mia vita di vagabondaggio possa essere, lui smette di guardarmi per la manciata di secondi necessari per girare i noodles nella pentola. I suoi occhi blu sono pietre preziose, brillanti e curiose. Vorrei non smettesse mai di guardarmi così.

Finito il mio racconto il pranzo è pronto e lui lo versa in piatti di plastica in parti uguali, e mi porge una forchetta.

Rimaniamo un attimo a fissare i piatti fumanti sul tavolino di fronte al divano su cui siamo seduti.

È forse in questo momento che realizziamo quello che sta succedendo.

Dopo una vita di solitudine abbiamo finalmente trovato qualcuno. Siamo sopravvissuti alla Morte tante di quelle volte che abbiamo perso il conto. Abbiamo ucciso le nostre paura, la nostra infanzia. Ci siamo adattati al cambiamento per non soccombere.

Siamo i figli della Tragedia, della Fine.

E siamo seduti su un divano in un seminterrato di una città distrutta, illuminata da colorate lucine di natale mentre il profumo del noodles al curry si espande tutto intorno.

La mia mano cerca la sua, per istinto, perché mi gira la testa, sento tutto diventare opaco e traballante, come se dovesse crollarmi il soffitto addosso da un momento all'altro.

Le sue dita si intrecciano alle mie, forte. Si aggrappa a me.

Nei suoi occhi vedo i miei occhi, nella sua paura vedo la mia paura, nel suo sollievo vedo il mio sollievo.

Siamo due lontanissimi pianeti sperduti nello spazio entrati in collisione per sbaglio. Tutto intorno a noi la desolazione dell'Universo ci ha fatto credere di non aver bisogno di altro, così adesso che nei nostri cieli si staglia un corpo celeste estraneo ce ne sentiamo schiacciati.

Siamo stati troppo a lungo da soli desiderando di essere soli perché avevamo paura di accorgerci di desiderare altro.

Mentre mi avvicino per poggiare le labbra sulle sue, penso a quanto sia stato difficile fin adesso, a quanto sono stato stupido a ignorarmi, a isolarmi persino da me stesso per non dover affrontare il vuoto dentro e intorno a me.

Penso se ci sia una soluzione a questa solitudine, se non sia come una malattia che ci ha ormai infettato tanto e tanto a lungo da essere letale, se mai ci abitueremo alla presenza di qualcun altro.

Quando scorgo il suo sorriso e il brillare dei suoi occhi blu capisco che sì, è possibile, è accettabile.

Perché la nostra è una solitudine a due.

 

 

 

 

*Esiste una parola in lingua tedesca che è semanticamente intraducibile in italiano: Zweisamkeit. Letteralmente “la solitudine a due”.

È il sentimento più antico del mondo: la coppia, l'amore, l'essere in due, il chiudersi in un mondo in cui solo l'altro conta, il senso di completezza nel dividere con l'altro un'unica sfera, l'isolamento della coppia dal resto del mondo.


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The Corner 

Ciao a tutti e buon Akuroku day! 
Questa storia mi ha preso talmente tanto che l'ho scritta in pochi giorni,
avrei voluto pubblicarla ieri notte ma sono stata impossibilitata ghhhh
comunque, eccola qui!
La dedico ad una personcina speciale, tanto tanto speciale, che si arrabbia per le mie Akusai 
ma che in fondo mi ama tanto quanto la amo io <3
Tutta per te, è un piccolo regalo, spero che lo accetterai.

Chii

 

 

 

   
 
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