[Questa storia è stata scritta per il drabble event del 12 agosto 2016 sul gruppo Facebook “We are out for prompt”]
Colpevolezza e necessità
Non
aveva fatto in tempo ad entrare nell'appartamento che già si diceva
che avrebbe fatto qualcosa di stupido. Anzi, avrebbe dovuto fare
necessariamente qualcosa di stupido perché non riusciva
proprio a pensare che quella fosse una situazione normale. Renderla
il meno usuale possibile sarebbe stato il suo scopo primario. Per
questo calciò con tutta la sua forza la poltrona - la sua
poltrona, per altro -, come se volesse farle provare tutto il male
che in quel momento gli stava attraversando il corpo. Il risultato fu
piuttosto deludente: la poltrona si mosse appena, troppo pesante per
essere spostata da una persona vagamente sconvolta, e il suo piede
sentì sicuramente più dolore di quanto avesse sperato.
Uggiolando
per non imprecare sonoramente, si lasciò cadere contro l'oggetto che
aveva malmenato, la testa tra le mani e il respiro ansante.
«John,
per l'amor del Cielo, smettila!»
esclamò Sherlock, entrando solo in quel momento
nell'appartamento. «Ti stai comportando come un bambino»
completò, piuttosto asciutto, togliendosi la sciarpa con un gesto
veloce e posandola sul tavolo.
Se l'invito a piantarla con
quell'atteggiamento non aveva sortito alcun effetto emotivo nel
dottore, il commento finale gli fece perdere tutto l'autocontrollo
che era riuscito a rimettere insieme nei brevi secondi di
riflessione.
«TU SEI PAZZO!»
strillò isterico, alzandosi di scatto pur senza fare alcun passo.
«Pazzo! Del tutto! Cosa diavolo ti è saltato in mente?»
Di
fronte al silenzio dell'interlocutore, si costrinse ad aggiungere:
«Sherlock, rispondimi!«
Il consulente investigativo gli piantò
addosso gli occhi, guardandolo come se si trattasse di una bestia da
studiare in laboratorio. «Ho risolto un caso»
disse con la semplicità di un bambino. John poteva immaginare a
chiare lettere il pensiero che aveva attraversato la mente brillante
dell'altro uomo: la signora Hudson era stata gentilissima a passare
per lasciare dei biscotti sul tavolo, perciò ne avrebbe approfittato
e ne avrebbe mangiato uno. Così fece, indifferente, come se per lui
il discorso fosse chiuso. Ma per John la questione era più che
aperta perché Sherlock non aveva alcun diritto di fargli prendere un
infarto per ogni santo caso che gli si presentasse alla porta. John
non sapeva i particolari di quell'ultima follia, ma conosceva ogni
singolo sparo, ogni maledetta pallottola che Sherlock aveva rischiato
di prendere in pieno petto. Le aveva sentite tutte, una per una, al
ritmo del suo cuore che batteva contro le costole con la frenesia di
un uccello in gabbia. John aveva la netta sensazione che un'altra
mossa del genere lo avrebbe fatto fuori, e non era certo di riferirsi
a Sherlock, stavolta.
«Per te è una cosa da niente»
disse, sperando di non aver dato un'inclinazione interrogativa
all'affermazione buttata lì con sincerità. Sherlock masticò
allegramente il suo biscotto, potenzialmente ignaro del fatto che
John stesse parlando. Futili quisquilie, per lui, ovvio.
«Va
bene. Sherlock, sentimi. Ascoltami, per favore!»
Il
detective lo guardò negli occhi, interrompendosi nell'atto di
mangiucchiare. «Cosa c'è ancora, John?»
Il
dottore fece finta di ignorare quel tono noncurante. «Voglio vedere
fin dove puoi arrivare, voglio che tu deduca cosa sto provando in
questo momento»
Era la
richiesta più bizzarra che John gli avesse mai fatto. Si sentì
pungere gli occhi, ma si sforzò in tutti i modi di non darlo a
vedere, dandosi subito dopo dell'idiota: c'era Sherlock davanti a sé,
non Lestrade o la padrona di casa. Se magari lo avesse capito da
solo, il detective sarebbe stato più comprensivo nei suoi riguardi,
no?
Il moro lo guardò attentamente per un secondo, magari
aspettandosi che gli venisse rivelato lo scherzo dietro alla domanda.
John non comprese bene il senso dell'esitazione, ma non ebbe poi
tanto tempo per chiederselo: Sherlock non si tirava indietro,
mai.
«John, sei palesemente agitato e profondamente paranoico.
Shockato, direi. Non ti sei neanche tolto la giacca, sporca e
sudicia, nonostante tu sia qui da almeno dieci minuti. No, dodici.
Senza contare quello che hai fatto appena sei entrato - e qui sorrise
sardonico -: hai attaccato (pateticamente, perdomani se te lo dico)
la poltrona. Non una qualsiasi, bada, ma la tua. Tua, non mia,
eppure sono io il ragazzino da rimprovare per la sua sconsideratezza.
Ma no, niente da fare, lo spirito del dottore ti fa sentire in colpa
perché hai rischiato di non arrivare in tempo, no? Ti stai
colpevolizzando, John, credi che la colpa sia tua. Anzi, no, non lo
credi davvero, è mia, in fondo lo sai anche tu, ma vuoi addossartela
perché tu salvi le persone e sei quasi riuscito a non salvare me.
Tremi: hai paura. Paura di cosa? Ma è ovvio: delle tue mancanze, dei
tuoi ritardi (e per questo, davvero, la colpa non è mia:
dovresti spiegare a Mary cosa ritieni primario per te, se lo shopping
- puzzi di boutique, chiudi quella bocca - o il tuo...- esitò
profondamente, prima di concludere, assottigliando la voce, -
migliore amico. Stai trattenendo le lacrime: di nuovo il rimorso, la
colpa, la paura, la disperazione. Potrei andare avanti ad elencare
tutti i tuoi tremori, ma ti annoieresti e, onestamente, mi stancherei
anch'io di ripetere sempre le stesse cose. C'è un'ultima cosa,
tuttavia, che senti in questo momento. È un bisogno»
John
era a bocca aperta. Annaspò per trovare l'aria per poter articolare
qualche suono, ma gli uscì solo una specie di rantolo, per di più
vagamente ammirato. In una circostanza diversa, ne era sicuro, si
sarebbe complimentato. In quell'istante ebbe la buona creanza di
evitare una cosa del genere: era stato sottilmente insultato o era
stata una sua impressione?
«Oh, Dio»
Finalmente ritrovò la voce. «Quale sarebbe, dunque, questo
bisogno?» chiese,
cercando di risultare scettico, come a mettere (inutilmente) alla
prova il suo detective.
Sherlock non rispose. Finì di mangiare il
biscotto - di cui rimaneva un morso scarso - e si avvicinò ad ampie
falcate. John sentì chiaramente il suo cuore perdere un paio di
battiti quando le mani dell'altro uomo gli si posarono una sulla
schiena e una dietro la nuca. Poi, Sherlock lo strinse a sé,
lasciandolo senza fiato. Soltanto quando il detective rimase lì
troppo a lungo per un normale abbraccio John sentì la necessità di
ricambiare quella stretta più forte che poteva, abbastanza da
inspirare il suo odore e provare a se stesso che fosse vivo.
Trattenne a stento l'impulso di nascondere il viso nella camicia
dell'altro e piangere a dirotto. Quello sarebbe stato troppo per
tutti e due, lo sapeva.
Sherlock gli diede una pacca sulla schiena
e si separarono. John si sentì privato di qualcosa di davvero
importante, come di un pezzo di sé, ma non protestò - si sentiva
spossato anche solo per pensare di farlo. Dal canto suo, il detective
non disse una parola: lo oltrepassò senza guardarlo negli occhi e si
dileguò verso la sua stanza. Soltanto quando la portà sbatté,
quando Sherlock non poteva vederlo, soltanto allora John si concesse
di essere scosso dai singhiozzi, un interrogativo nella mente: cosa
gli stava succedendo?
Angolo
dell'autrice: Salve a tutti!
Questa
storia è nata praticamente da un lampo di ispirazione giunto con il
prompt «Voglio
vedere fin dove puoi arrivare, voglio che tu deduca cosa sto provando
in questo momento».
Tra le possibilità, avevo anche optato per una scelta molto
romantica, poi sono stata deviata dalla malinconia!
Ringrazio
di cuore Jessica per avermi fornito il prompt, i lettori silenziosi e
coloro che vorranno lasciare il proprio parere!
Un
abbraccio e alla prossima.
Menade Danzante