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Autore: futacookies    14/08/2016    4 recensioni
{Longfic • Duncan/Courtney • accenni Trent/Gwen e Alejandro/Heather • commedia romantica}
Duncan Nelson, scapestrata rockstar, nota al pubblico e ai paparazzi per l'eccesso con cui conduce la propria esistenza, viene citato in causa dal direttore dell'Ottawa Royal Palace, di cui - si dice - avrebbe distrutto numerose stanze durante la propria permanenza.
Al suo agente non resta che rivolgersi allo studio legale Fleckman&Fleckman&Strauss&Cohen, per cui toccherà alla sua storica ex, Courtney, tirarlo fuori dai guai.
Dal capitolo 5:
Ma la voleva davvero, la sua attenzione? Oppure era unicamente uno stupido capriccio, l’ombra semisvanita di quello che una volta era stata, con lui? Non lo sapeva, ed era terrorizzata dall’idea di scoprirlo – non ci sarebbe ricascata in alcun modo, le ci erano voluti anni per liberarsi completamente di lui e adesso, che ci era finalmente riuscita, avrebbe fatto qualunque cosa per proteggersi.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Heather, Trent | Coppie: Alejandro/Heather, Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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Every breaking wave



«Every breaking wave on the shore tells the next one there’ll be one more.»

  • Capitolo I


Nulla poteva paragonarsi ad un risveglio bucolico: gli uccellini che cantavano, il sole che infastidiva appena il volto del dormiente costringendolo ad aprire gli occhi, l’aria fresca che entrava nei polmoni ad ogni respiro – peccato che non si stesse svegliando così.
Duncan allungò la mano fino al comodino e afferrò di malagrazia il telefono che squillava all’impazzata. Sapeva con assoluta certezza che il giorno dopo un concerto non esistevano ragioni abbastanza valide da svegliarlo – a prescindere dall’orario.

«Dammi un valido motivo per non licenziarti.», sentenziò rivolto al suo agente, che non poté fare a meno di sbuffare contrariato.

«Perché, Duncan, anche questa volta mi toccherà tirarti fuori dai guai.»

«Non è un valido motivo.», gli rispose, e attaccò senza pensarci due volte, con la speranza di riuscire ad addormentarsi.

Tuttavia, come in effetti si aspettava, dopo pochi secondi il telefono riprese a squillare furiosamente; valutò per un instante l’ipotesi di rispondere, poi scosse la testa e lo lanciò direttamente dalla finestra, incurante delle possibili conseguenze – in fondo davvero non c’erano motivi per disturbarlo e magari, dopo una bella dormita, avrebbe anche valutato l’ipotesi di non sbarazzarsi del suo agente.

Era finalmente riuscito a trovare una posizione comoda, quando sentì bussare alla porta della sua camera d’albergo – doveva essere qualche sorta di buffonata, magari c’era una telecamera che riprendeva la sua irritazione per mancanza di sonno ed entro la fine della settimana sarebbe finito in qualcuno di quegli show preserali dove mostravano scherzi fatti alle celebrità.

«Che c’è?», domandò irritato rivolgendosi al cameriere.

«Mi scusi, signore», cominciò cautamente quello, «ma ci sarebbe un certo signor Smith che chiede con estrema urgenza di lei.»

Pensò di mandarlo al diavolo, o di far dire a John che andasse al diavolo o qualcosa del genere, ma doveva davvero esserci qualche sorta di problema – certo, nulla di tanto importante da svegliarlo, questo era ovvio.

«Sì, certo.», gli rispose con la voce ancora impastata di sonno, «Il tempo di vestirmi.», aggiunse, indicando i soli boxer con cui dormiva.

Cinque minuti e un caffè dopo, il suo agente stava ancora sbraitando cose incomprensibili dall’altro lato della cornetta – di tutto quel discorso, che certamente nella testa di qualcuno che aveva dormito più di tre ore aveva molto più senso, captò soltanto qualche parola: Ottawa Royal Palace, denuncia, distruzione, testa di cazzo, piranha e paparazzi, o qualcosa del genere.

«Quindi», borbottò non appena l’altro si fermò, «cosa dovrei fare, io

«Tornare a Toronto! Subito!», gli strillò in risposta.

Quello doveva essere uno scherzo, per forza. Nel pomeriggio sarebbe dovuto partire per qualche esotica località vacanziera dopo uno dei tour più lunghi che avesse mai fatto, pronto a godersi la bella vita e il meritato riposo. Non sarebbe tornato a Toronto nemmeno se l’avessero accusato di omicidio e minacciato di ributtarlo in gatta buia – figurarsi se l’avesse fatto per qualche denuncia ad opera di piranha, più o meno.

«Amico, non se ne parla.», scandì con precisione. «Sono sicuro che riuscirai a risolvere tutto, come sempre.», disse poi, cercando di sembrare quanto più ruffiano possibile.

Il suo – povero, ma mica tanto – agente aveva messo a tacere scandali ben peggiori senza necessitare la sua presenza – come quella volta che la sua ex disse in un’intervista che era incinta e che lui l’aveva lasciata per quel motivo, o quella volta in cui aveva fatto a botte con un paparazzo un po’ troppo insistente, o quella volta che era stato arrestato per possesso illecito di droga. Insomma, cosa poteva esserci di peggio del possesso illecito di droga?

«Certo che risolverò tutto, Duncan», gli rispose con stizza, «ma se non mostri almeno un po’ di interesse per la faccenda, cosa penseranno i tuoi fan? L’opinione pubblica ti farà a pezzi e…»

Era certo che i suoi fan – che lo apprezzavano soprattutto per le numerose infrazioni del codice civile – non lo avrebbero messo alla forca per qualche altra marachella, e l’opinione pubblica poteva anche mettersi in culo i pezzi in cui voleva ridurlo. Quindi decise di smettere di ascoltare e si dedicò alla brioche che era appena arrivata al tavolo, lanciando di tanto in tanto qualche occhiatina alla cameriera che si muoveva tra i tavoli – con un po’ di fortuna avrebbe ulteriormente addolcito la sua vacanza, a cui, chiaramente, non aveva ancora rinunciato.

Peccato che si fosse distratto un attimo di troppo: quando finalmente John Smith smise i blaterare, convinto di aver ormai la totale attenzione del suo cliente e gli chiese: «Quindi per te va bene?», ebbe la certezza che non avrebbe ricevuto un “no” come risposta – cosa che senz’altro sarebbe successa, se solo Duncan avesse ascoltato le sue parole. Però non lo aveva fatto e, certo che si richiedesse soltanto la sua autorizzazione a qualche mossa di tipo legale che gli avrebbe parato il di dietro, si limitò a grugnire un “sì”.

«Perfetto! Perfetto!» esclamò John, «C’è un aereo che parte tra mezz’ora, manderò un taxi per te. Entro le nove dovresti atterrare, giusto in tempo per incontrare il tuo avvocato. Sapevo che avresti capito!», disse infine, mantenendo il tono euforico usato un attimo prima.

Aereo? Atterrare? Avvocato? Doveva esserci un errore. «Senti, John, riguardo quello che ho detto prima…» tentò, ma era troppo tardi: aveva già attaccato. Il suo agente l’aveva fregato e non ci aveva pensato due volte. Adesso gli sarebbe toccato un lungo discorso con il primo avvocato da strapazzo che John fosse riuscito a trovare e soprattutto, gli sarebbe toccato partecipare ad ogni genere di talk show mai inserito nel palinsesto televisivo per discutere della sua innocenza – che poi, cos’è che aveva fatto?


***


La sveglia trillò e venne prontamente spenta.

«Gwen…», biascicò Courtney, combattendo il desiderio di chiudere le palpebre e riprendere a dormire, «quante volte ti ho detto di lasciarla squillare almeno un po’, prima di chiuderla? Così almeno mi sveglio…»

«Mai abbastanza.», sentenziò quasi brutalmente l’altra, riavvolgendosi tra le coperte.

Courtney aveva sempre saputo che mettere la sveglia vicino al letto di Gwen era stata una pessima idea – nel giro di tre anni ne aveva ricomprate come minimo dieci, ognuna delle quali era stata sistematicamente distrutta dalla violenza con cui l’amica la spegneva ogni mattina. Specie il lunedì. Soprattutto il lunedì.

«Che poi», borbottò, «non capisco perché anche tu non possa chiedere un giorno libero come tutti gli esseri umani.»

Courtney rise del suo commento e scosse la testa – non aveva un giorno libero perché non ne sentiva il bisogno. Necessitava di qualcosa che riempisse la sua vita, dopo aver messo fine numerosi flirt e una relazione altalenante con Scott che andava avanti da una decina di anni, e buttarsi completamente nel lavoro era l’unica cosa che l’aiutasse.


***


Lo studio legale Fleckman&Fleckman&Strauss&Cohen non era molto distante dal suo appartamento e soltanto un quarto d’ora dopo si ritrovò nell’ascensore che conduceva al ventiduesimo piano del grattacielo che ospitava la sua sede di lavoro – le era sempre piaciuta la tranquillità con cui riusciva a lavorare lì, l’ordine con cui erano disposte le scrivanie e la precisione con cui erano sistemati gli archivi. Le sembrava quasi che la pace che regnava lì potesse quasi trasferirsi nella sua vita privata.

Una voce la sottrasse ai suoi pensieri: «Courtney! Puntuale come sempre!», esclamò Edward Fleckman, invitandola ad entrare nel suo studio – i complimenti e il tono gentile non indicavano mai nulla di buono: c’era sicuramente qualche rogna che nessuno voleva e che lei avrebbe accettato per amor di patria. E di stipendio.

«Sai, oggi ti trovo in splendida forma! Stai andando in palestra?»

«No, Edward, sono troppo impegnata per andare anche in palestra…»

«Oh, ma certo! Sei sempre così dedita al lavoro, una vera ispirazione…»

Continuò a parlare a vanvera per un po’ e lei avrebbe davvero voluto sedersi a tavolino e lasciare che continuasse a commentare la sua professionalità o il modo impeccabile con cui era sempre vestita, ma si convinse di essere troppo matura per certe cose e preferì andare dritta al nocciolo della questione – inoltre sentiva dal modo in cui la guardava che stava per dirle qualcosa di scomodo.

«…hai tagliato i capelli?», domandò infine.

Quello era decisamente troppo.

«Fammi indovinare:», mormorò, massaggiandosi le tempie, «sono tutti molto, molto, molto impegnati e non c’è proprio nessuno che possa occuparsi di questo caso.»

«Quale caso?», chiese lui, cercando di sembrare quanto più innocente possibile, ma il suo patetico tentativo fu prontamente stroncato dall’occhiataccia che Courtney gli rivolse.

«Sì, okay, hai vinto.», ammise infine, alzando le mani. «Però davvero sei l’unica libera al momento.»

«Non sono libera», grugnì con stizza, «mi sto occupando del divorzio di Heather Wilson. E l’avvocato del signor Burromuerto è davvero un demonio. Bravissima, certo. Ma un demonio.» puntualizzò. «E poi, sono sicura che Lizzie sarà più che contenta di avere il suo primo caso per le mani!», commentò, soddisfatta di sé per essere riuscita a trovare tanto rapidamente una scappatoia.

«Ma non so se sia il caso…», balbettò Edward, cercando di uscire dall’angolo in cui lo aveva messo.

«Certo che lo è.» sentenziò sbrigativa, prendendo la sua valigetta e preparandosi a terminare la conversazione, «È intelligente, sveglia e ha appena terminato il tirocinio. Da qualche parte dovrà pur iniziare.»

Si alzò e varcò gloriosamente la porta – questa volta non sarebbe riuscito a convincerla. E poi, davvero, quella Emma che difendeva i diritti di Alejandro aveva affilato le armi ed era pronta a lasciare Heather in mutande, quando in realtà sarebbe dovuta essere lei a riservare quel trattamento ad Al, quindi tutte le sue energie dovevano essere indirizzate verso quel caso.

«Ma la pressione mediatica?», chiese Edward e lei si bloccò a metà strada – il suo primo caso a grande impatto mediatico era arrivato quando già aveva qualche anno di esperienza, eppure l’aveva quasi distrutta. Non avrebbe permesso che quella povera ragazza passasse quello che aveva passato lei. Fregata.

Emise un verso arrabbiato e ritornò sui suoi passi, maledicendo mentalmente quel suo eccesso di pietà – in fondo, avrebbe anche potuto lasciare che Lizzie se la sbrigasse da sola e che imparasse sin da subito a tenere a bada paparazzi e capricciose stelline dello spettacolo.

«Mi auguro almeno», ringhiò, «che sia qualcosa di semplice risoluzione.»

«Oh, sì, certo!» esclamò Fleckman, raggiante per la vittoria appena ottenuta. «Più o meno», sussurrò poi a mezza voce, pregando che lei non lo sentisse.

Così comincio a raccontarle di come ci fosse questa rockstar che aveva distrutto alcune tra le più lussuose camere dell’Ottawa Royal Palace e di come aveva poi lasciato l’albergo senza battere ciglio, incurante dei danni da diversi milioni che si era lasciato alle spalle e di quanti pezzi di antiquariato insostituibili fossero andati ormai persi – da vero appassionato di mobili antichi si dilungò sul prezzo effettivo di ogni singolo cassettone, sull’età di ogni singolo armadio, sul pregiatissimo legno di cui era fatto ogni singolo letto. Fu un racconto per lo più soporifero e quasi del tutto privo di attinenza al caso, cosa che invece divenne nel momento in cui raccontò dei toni furiosi e minacciosi con cui il direttore dell’hotel aveva chiamato l’agente della rockstar in questione non essendo riuscito in alcun modo a contattarla personalmente.

«Non potevano risolvere alla vecchia maniera? Sai, della serie “Io non ti denuncio, tu mi rimborsi per i danni e blablabla”.»

«Mi hanno detto che è stata una questione di principio.», le rispose bonariamente Edward, nascondendo un sorriso.

«Pft.», brontolò Courtney, «non ci sono principi che i soldi non possano vincere.»

«Dicono che non sia la prima volta che questo increscioso incidente si verifica.»

«Mh, recidivo. Che bello.», commentò ironicamente. «Che poi, ancora non mi hai detto chi sia il colpevole. Perché tanto mistero?»

Fleckman, chiaramente a disagio, si allentò il nodo della cravatta e si limitò a passarle il fascicolo, dove campeggiavano nome e cognome del turbolento musicista – Duncan Nelson.
“Oh”, pensò lei, “non esiste”.

«Tu!», esclamò furiosa, puntando il dito contro il suo interlocutore.

«Io…», le rispose, cercando di dissimulare la consapevolezza di quello che stava per accadere.

«Non se ne parla!», strillò, alzandosi in piedi per dare forza alla sua affermazione, «Non sprecherò un solo istante della mia vita per difendere quello scellerato!» ruggì, e in quel momento sembrava davvero una leonessa pronta a divorare chiunque le avesse dato torto.

Doveva essere uno scherzo, per forza. Nessun essere con un briciolo di sanità mentale le avrebbe mai affidato la difesa di Duncan – al massimo, sarebbe stata più che entusiasta di collaborare con gli avvocati dell’accusa. Edward non solo le aveva fatto perdere quasi mezz’ora per spiegarle i dettagli di un caso che non avrebbe mai – mai – accettato, ma le aveva anche, potenzialmente, rovinato la giornata.

«Andiamo, Courtney! Pensaci! Non ci sarà giornale che non parlerà di questo caso, e se dovessi vincerlo – cosa di cui sono sicuro – la tua fama aumenterebbe a dismisura! Non ti tenta nemmeno un po’, la gloria?»

Ovvio che la gloria la tentava – più di quanto le piacesse ammettere. Indubbiamente, sarebbe stata capace di sopportare l’idea di lavorare per quel cretino pur di raggiungere il suo obiettivo –, tuttavia, non voleva dimostrarsi così debole e facilmente manipolabile.

«Mettiamo il caso che accetti», disse con tono di sfida, «potrei avere una settimana in più di vacanze, quest’estate?»

«Sai che il numero di separazioni in estate incrementa spaventosamente?»

«Sì, lo so. Sai che Duncan ha baciato la mia migliore amica in mondovisione, umiliandomi in mondovisione

All’altro non rimase che una resa dignitosa: «E va bene.», sbuffò infine.

«Perfetto! E voglio anche il lunedì libero», aggiunse, ricordando la conversione avuta con Gwen poche ore prima.

«Sono sicuro che Lizzie sarà contentissima di avere questo caso.», affermò lui, cercando di farle capire che forse non era il caso di tirare troppo la corda – eppure bastò che la ragazza alzasse sarcasticamente un sopracciglio per ottenere anche quell’ulteriore concessione.

«Splendido!», esclamò, battendo le mani per sottolineare la contentezza. «Tra quanto dovrebbero arrivare?», chiese poi, ricordando dell’appuntamento che aveva alle undici.
Fleckman guardò pensieroso l’orologio e mormorò: «Dieci minuti, più o meno.»


***


Intrappolato tra un bambino capriccioso, incapace di stare fermo per più di due minuti e una vecchietta sorda che strillava alle hostess di ripetere più forte qualunque cosa stessero dicendo: quella appena trascorsa era stata decisamente una delle ore peggiori della sua vita – perché, ovviamente, con così poco preavviso John era riuscito a trovare dei posti liberi soltanto nella classe economica, costringendolo inoltre, per non essere riconosciuto, ad indossare un berretto che nascondeva sgraziatamente la cresta verde e degli occhiali da sole enormi e orrendi.

Inoltre, erano venuti a prenderlo con un’anonima utilitaria grigia – “per seminare i paparazzi in incognito”, avrebbe poi spiegato John, che non era stato molto contento della perplessità del suo cliente al momento dell’atterraggio. Quando lo aveva trovato all’uscita dell’aeroporto, aveva cominciato a strillare furioso delle cose assurde su vecchiette sorde e vacanze annullate – sembrava sull’orlo di una crisi di nervi – e sul fatto che non avesse effettivamente alcuna idea sul motivo della sua rapida convocazione.

Lungo il tragitto verso casa dovette sorbirsi di nuovo il racconto ascoltato con distrazione a prima mattina, restando comunque dell’opinione che non era poi qualcosa di così grave.

«Bah, che sarà mai! La festa è semplicemente degenerata, pagherò i danni e blablabla…»

Il karma aveva evidentemente un conto in sospeso con John Smith, che fu costretto – per l’ennesima volta in quella giornata – a spiegare la situazione.

«…quindi ho dovuto assumere un avvocato.», terminò, lanciando un’occhiata in tralice al suo cliente.

«Mh. Chi?», chiese con aria distratta.

«Non ne ho idea, ma lo studio è quello di Fleckman&Fleckman&Strauss&Cohen.», gli ripose.

Duncan sentì una strana – fastidiosa – sensazione alla bocca dello stomaco, che tuttavia non seppe riconoscere. Borbottò qualcosa sul fatto di aver già sentito quel nome e si risistemò a disagio sul sedile. La sensazione svanì e continuò tranquillo il viaggio.

Passarono l’ultima curva che li separava dalla destinazione – Duncan riusciva già a sentire il tepore della doccia che non aveva avuto il tempo di fare quella mattina – quando apparve di fronte ai loro occhi l’orribile immagine di decine di paparazzi riuniti in gruppo sotto l’ingresso di casa sua.

«Deve essere un incubo…», brontolò irritato, «Non avevi detto che c’era bisogno di non farlo sapere alla stampa?», ringhiò verso il suo agente.

L’altro aveva preso la saggia decisione di ignorarlo e di ordinare immediatamente all’autista di portarli nel suo appartamento fuori città.

«Sono trenta minuti di viaggio, John! Più altri cinquanta al ritorno! Non ho alcuna intenzione di restarmene ancora chiuso in questa scatola!», protestò Duncan, che già pensava di farsi strada a suon i calci e pugni fino all’ingresso – nessuno dei due stava pensavo che avrebbero fatto un ritardo colossale all’appuntamento con l’avvocato.


***


«Un’ora, Edward, un’ora! Sono in ritardo di un’ora! Oh, ma se pensa di potersi comportare così con me – con me! – si sbaglia di grosso!», sbraitò Courtney nell’ufficio del suo collega, «E tra poco dovrebbe pure arrivare Heather…», aggiunse sconsolata.

Nel momento in cui quello scemo avrebbe messo piede nel suo ufficio, gli avrebbe fatto a pezzi quella brutta cresta verde che non le era mai piaciuta, poi lo avrebbe preso a calci fino ad accompagnarlo alla finestra più vicina, dalla quale poi lo avrebbe spinto – non si può intentare causa contro un uomo morto. Era furiosa – furiosa era riduttivo, schiumava letteralmente di rabbia. Era quasi disposta a rinunciare a tutto: alla settimana in più di vacanze, al lunedì libero, alla gloria, a tutto, pur di liberarsi di quel caso.

Un atteggiamento del genere non era accettabile: poteva comportarsi da viziata stella del rock con chiunque volesse, ma non con lei – se Heather fosse arrivata prima di lui, cosa in cui sperava fortemente, lo avrebbe fatto aspettare e lo avrebbe lasciato con un palmo di naso. Se poi il suo colloquio con Heather si fosse protratto fino alla pausa pranzo, altra cosa in cui sperava fortemente, Duncan avrebbe dovuto attendere quasi tre ore. Così imparava ad arrivare in ritardo.

Riconobbe quella sensazione alla bocca dello stomaco che provava tutte le volte che la faceva arrabbiare e si impensierì. Non vedeva Duncan da quell’ultima, strampalata edizione del reality, aveva completamente chiuso con lui e sperava fosse una pagina della sua vita che non avrebbe mai dovuto rileggere – tuttavia, sembrava destinata a non potersi liberare di quell’essere in nessun modo.

Il povero Edward Fleckman, dal canto suo, non poteva fare altro che darle dei leggeri colpetti sulla spalla.

Erano le dieci e mezza, Heather sarebbe dovuta arrivare alle undici – in quel momento, però, contava sulla brutta abitudine di Heather ad arrivare con dieci minuti d’anticipo soltanto per il gusto d’accusare altri d’essere in ritardo.

Aveva lasciato l’ufficio di Edward – che aveva un’espressione più che sollevata all’idea di poter finalmente lavorare in pace – per raggiungere il proprio e adesso marciava incessantemente, lanciando continui sguardi all’orologio.

Dieci e trentacinque, undici meno venti, undici meno un quarto, undici meno dieci, undici meno cinque.

Sebbene si sentisse tradita da Heather, che aveva scelto il giorno sbagliato per rinunciare alle sue manie di protagonismo, era ormai convinta che Duncan avrebbe fatto un ritardo colossale – o, meglio ancora, per quel giorno non si sarebbe proprio presentato.

Non ebbe nemmeno il tempo di formulare quel pensiero che sentì le porte dell’ascensore che si aprivano. Lanciò rapidamente uno sguardo al soffitto e giunse le mani: «Ti prego», sussurrò a mezza voce, «ti prego, ti prego, ti prego, fa’ che sia Heather.»

Tuttavia, le sue preghiere vennero ignorate. Infatti, non sentì la voce trillante di Lizzie che accoglieva un’accigliata signora Wilson, bensì sentì Edward – traditore! – che accoglieva il signor Nelson e il signor Smith. Contemplò per un glorioso istante l’idea di chiudersi a chiave e lasciare il palazzo attraverso le scale antincendio, poi però pensò alla settimana di ferie in più, al lunedì libero e alla gloria e prese un respiro profondo – avrebbe mascherato l’indignazione e il desiderio di prenderlo a pugni, e avrebbe trovato un modo molto raffinato per fargli pagare quel primo affronto.

Sentendo che Edward blaterava ancora sulla sua estrema affidabilità, aprì appena la porta del proprio ufficio, così da poter sbirciare fuori: Duncan sarebbe potuto sembrare pressappoco identico al ragazzo che aveva conosciuto anni prima, se non fosse stato per quel cipiglio antipatico e scocciato che aveva stampato in volto – brutto scemo che non era altro. Non potendo rimandare ancora di molto quello spiacevole incontro, decise di tagliare la testa al toro e fare il primo passo: superò l’ingresso del suo ufficio e probabilmente si sarebbe diretta verso loro con la furia di una valchiria, se Edward non l’avesse chiamata con tanto entusiasmo.

«Courtney! Stavamo parlando proprio di te!», esclamò, avvicinandosi a lei e sospingendola con leggera insistenza e malcelata preoccupazione verso i suoi futuri clienti.

Lei gli lanciò un’occhiataccia e Duncan sollevò un sopracciglio in segno di disappunto – Courtney notò come stesse cercando di nascondere il desiderio di voltarsi e scappare nell’ascensore al solo pensiero della loro collaborazione potenzialmente disastrosa.

«Signori, permettetemi di presentarvi Courtney Barlow, il migliore avvocato che avremmo potuto offrirvi!»

Mentre Duncan accoglieva la presentazione con un grugnito, John Smith le strinse calorosamente la mano, aggiungendo: «Signorina Barlow, le parole del suo collega ci fanno ben sperare!»
Courtney non poté fare altro che sorridergli a disagio: «Il mio collega», affermò, lanciandogli un’altra occhiata in tralice, «deve ancora imparare a…», non riuscì a termine la frase, perché le porte dell’ascensore si aprirono e apparve Heather – non questo, pensò, non adesso!

Sperando di evitare che Duncan e Heather si accorgessero della reciproca presenza – e, soprattutto, sperando di impartire una lezione a quel delinquente –, si fiondò sulla ragazza.

«Heather!», esclamò, bloccando a visuale che l’altra aveva dell’ingresso – tuttavia, Heather era sempre stata più altra di lei, quindi il suo non sembrò altro che un patetico tentativo di nascondere qualcosa, cosa che, in effetti, era.

«Duncan?», chiese l’altra, alzando un sopracciglio.

«Courtney?», rispose invece lui, indicando Heather e chiedendo cosa ci facesse lì.

Non le restò che alzare gli occhi al cielo e borbottare che fosse davvero una cosa ridicola. Poi si rivolse a Duncan e al signor Smith mentre trascinava Heather verso il suo ufficio: «Mi dispiace, ma la signora Wilson…»

«Quasi signorina», proruppe ferocemente l’altra.

«Be’, la quasi signorina Wilson aveva un appuntamento alle undici ed è stata più che puntuale – cosa che non si può dire di voi – e dobbiamo discutere di cose importantissime per il nostro caso. Quindi vi toccherà attendere.»

Edward e Duncan esclamarono all’unisono: «Courtney!», il primo scandalizzato e il secondo palesemente irritato, mentre John Smith li seguì con un: «Signorina Barlow!», che sembrava più che altro una preghiera desolata.

Heather, dal canto suo, si fermò un istante sull’uscio dell’ufficio di Courtney e fece una linguaccia a tutti e tre.


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Note dell’Autrice:
Salve a tutti!
Se siete giunti fino alle note, spero davvero che il capitolo vi sia piaciuto!
Questa long-fic segna un po’ il mio ritorno nel fandom, dopo averlo abbandonato per più di due anni – quindi potrei essere parecchio arrugginita u.u
La storia, come già specificato nel capitolo, è ambientata all’incirca una decina d’anni dopo l’ultima edizione del reality – non ho specificato quale perché non si sa mai (e la speranza è l’ultima a morire), ma indicativamente si fa riferimento ad All-Stars.
Per alcune altre cose che potrebbero non essere chiare, non preoccupatevi, si spiegherà tutto nel corso dei capitoli!
Non credo di aver altro da aggiungere, se non che son abbastanza fiduciosa per questa storia e quindi credo di riuscire ad aggiornare ogni settimana (se mai qualcuno fosse interessato xD).
A presto!
Fede

(La canzone che ispira la storia è “Every breaking wave”, degli U2.)
  
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