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Autore: dubious3    15/08/2016    0 recensioni
"Tanto, tanto tempo fa, precisamente in quel tipico milleottocento un po’ pasticciato in cui tutte le dannate fiabe accadono sempre (o quelle che contano, per lo meno), viveva nei pressi di un villaggio mitteleuropeo una bella bambina, vivace, sorridente e amata da tutti. La bella bambina era, per l’appunto, bella e, soprattutto, candida come una montagna innevata, complice il fatto che avesse già una bella barba sericea alla tenera età di otto anni ed un’acconciatura affetta da calvizie che sembrava un barboncino spelacchiato".
La bambina si chiamava Karl Heinrich Marx; crescendo, sarebbe stato uno dei filosofi più controversi e influenti della storia dell'umanità. Ma non voi siete certo qui per questo: come indicato dal titolo, non sono certo qui per lodare o denigrare Marx, solo prenderelo per il culo. Lui e Feuerbach, Hegel, Kierkegaard e tanti altri giganti della filosofia, che si muoveranno in boschetto nei pressi Treviri dove ogni cosa (scema) è possibile, e le regole del tempo, dello spazio e del buon senso cedono dinnanzi a quelle della parodia e del citazionismo senza freni.
Leggermente adolescenziale, forse, ma magari ci si diverte pure. In ogni caso, vi auguro di cuore una buona lettura.
Genere: Parodia | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Nonsense, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Cappuccetto Rosso nel paese dei filosofi

Tanto, tanto tempo fa, precisamente in quel tipico milleottocento un po’ pasticciato in cui tutte le dannate fiabe accadono sempre (o quelle che contano, per lo meno), viveva nei pressi di un villaggio mitteleuropeo una bella bambina, vivace, sorridente e amata da tutti. La bella bambina era, per l’appunto, bella e, soprattutto, candida come una montagna innevata, complice il fatto che avesse già una bella barba sericea alla tenera età di otto anni ed un’acconciatura affetta da calvizie che sembrava un barboncino spelacchiato. La bimba si chiamava Carletta, ma, dato che andava sempre in giro con uno sgargiante cappuccio rosso, tutti la chiamavano Cappuccetto Rosso. Certo, con una faccia che la faceva assomigliare ad un Caronte dantesco nano sarebbe stato più corretto affidargli nomignoli di altro genere, tipo “Babbo Natale” o “Carletta la Principe dei Mostri”; tuttavia, Cappuccetto era troppo buona e gentile per farsi malvolere da propri compaesani, ed era anche troppo incline a portarsi dietro un archibugio sempre carico. E, per dovere di cronaca, è necessario segnalare che nel paese in Babbo Natale non ci credeva più nessuno: Carletta aveva ucciso questo mito capitalista in una sola Vigilia, minacciando di impallinare tutti i papà della media-alta borghesia se non avessero generosamente deposto i doni riservati ai loro rampolli nelle manine bimbi più poveri del villaggio. Per i piccoli proletari fu il Natale più bello di tutti; per gli altri bambini la fine dei regali, dato che nessun borghese aveva più il coraggio di fare dono nemmeno trenino scassato, e pargoli più insistenti fecero presto anche loro un incontro con l’archibugio di Cappuccetto. Malgrado ciò, Cappuccetto continuava ad essere amata da tutti: nessun’altro, dopotutto, sapeva usare così bene le armi da fuoco per difendere gli interessi del villaggio (qualche maligno sostiene in realtà nessuno nel villaggio riuscisse ad usare le armi da fuoco bene e basta, ma è non il caso di sottilizzare più di tanto…).
La grande avventura di questa graziosa bambina incominciò una mattinata di primavera. Mamma Ludovica era tornata dopo la lezione di karate del mercoledì, che si svolgeva dentro la fabbrica di ceramica abbandonata dove lei aveva investito un patrimonio. Dopo aver spaccato una cinquantina di piatti a mani nude e massacrato di botte gli il vecchio consiglio d’amministrazione della fabbrica che aveva legato personalmente a mo’ di sacco d’allenamento, in genere tornava a casa di ottimo umore; quella volta, quando aprì la cameretta della figlia, il volto fresco di rasatura (Cappuccetto era tutta sua mamma) era accigliato e scuro come il cielo la tempesta. Di contro, la bambina giocava allegramente a Street Fighter.
“Noi due dobbiamo parlare, Carletta Enrica Marx”. Disse la madre alla figlia. La bambina sbuffò: quando la mamma la chiamava per intero, voleva dire che era tempo di strigliate, compiti da fare e plusvalori da alienare in generale.
“Mamma, ti prego, sto in multiplayer con il piccolo Michelino Bakunio”, le rispose la piccola Carletta. “La connessione è costosa, e la sua famiglia è povera. Se non finisco la partita adesso il piccolo Michelino rimarrà per un mese intero con l’amarezza di una partita in sospeso”.
“Temo che il piccolo Michelino dovrà aspettare, tesoro”. Ribatté secca la mamma Ludovica. “Deve sbrigare delle commissioni urgenti: tua nonna Heghela sta male, è diventata così scorbutica che i suoi vicini mi hanno raccontato che passa le notti ad impallinare le vacche di colore nero. Consegnagli delle focaccelle al miele e del latte fresco di montone, che forse le ritorna il buon umore. L’uomo è ciò che mangia: quindi, se mangia tanti dolci, si ammorbidisce e non rompe più i coglioni”.
“Ma mamma!” Cappuccetto Rosso sbuffò. “Le analisi di nonna indicano chiaramente che se ingoia un altro grammo di zuccheri con le sue urine ci possiamo preparare le paste. E poi sono tre anni che è allettata, e tutte le volte che ti ha chiamato le hai sbattuto il telefono in faccia dandole della “teologa invertita”! Perché devo andare proprio adesso”.
“Figliola, ci sono tante cose che devi ancora comprendere, e sei troppo piccola per farlo. Qualche volta devi lasciare i grandi a pensare”. Spiegò la mamma con tano paterno. Cappuccetto roteò gli occhi e mormorò arrabbiata:
“D’accordo mamma, però ti faccio io la dichiarazione dei redditi tutti i mesi, elaboro io contratti collettivi per il sindacato di cui tu saresti presidente, e sono sempre io che organizzo gli appuntamenti dal dentista! Tu non mi spieghi mai niente, parti sempre delle conclusioni, come con la teoria dell’alienazione religiosa…”
L’ultima frase fu pronunciata a voce bassissima, poco più di un respiro; ma mamma Ludovica, che pure non sapeva fare due più due, per le critiche alle proprie elaborazione filosofiche aveva l’udito di un cane da caccia. Con un slancio fulmineo si posizionò tra la figlia e la PS4, e colpì il tasto d’accensione del televisore con una mossa che gli avevano insegnato a karate, quella del “spegni-questo-schermo-infernale-che-ti-rincoglionisce-oppure-lavi-i-piatti-per-un-mese-intero”. La piccola era sconfortata.
“Mamma no! Dopo tutto quello che ho lavorato per regalare al piccolo Michelino una consolle! E poi gli stavo insegnando i rudimenti di Street Fighter: senza di me è una scamorza ammuffita e se gioca con un altro in multiplayer tutta la community lo prenderà in giro”. L’ultima affermazione in realtà non era vera per niente: il Vega del piccolo Michelino stava massacrando lo Zangief di Carletta due round a zero. Per la quinta partita di fila. Senza spammare combo nemmeno una volta.
“Tesoro, l’uomo per l’uomo è un dio, e tu sei un dio contro due. Porta immediatamente i dolciumi a tua nonna malata!”
Cappuccetto sbuffò, si lamentò e imploro; non aveva però l’archibugio. Partì in quinta con il cestello, spinta dal senso del dovere verso la madre e da un calcio volante della madre verso di lei. Planò fino a metà foresta, ma poi si perse, perché il posto era buono e pieno di alberi alti e Cappuccetto non si era mai curata di studiare le mappe, con la rivoluzione proletaria in città da fare. Le indicazioni le aveva tutte strappate il vecchio professor Emanuele Cantone il giorno in cui era impazzito nel bosco, quando, al rientrare a casa dopo la consueta passeggiata mattutina, si era reso conto di essersi attardato per più di un cinquantesimo di secondo. Sola e sperduta nel bosco, doveva arrangiarsi con il proprio coraggio di bimba curiosa, l’amore che la legava alla nonna, ed un arsenale da far tremare i polsi ad un plotone di paramilitari colombiani. Se sulla strada avesse incontrato il Lupo Cattivo, il suo amico di penna Mao e loro cricca in Cina avrebbero avuto carne fresca per un mese.
Il Lupo Cattivo, però, sapeva di lei, sapeva della nonna malata; soprattutto, sapeva dell’archibugio. Se voleva avere qualche speranza di salvare le ossa e rimediarci un pranzo succulento, doveva mostrarsi amico e compagno, circuire la preda con discorsi sull’alienazione e giusto un po’ di surrealismo se capitava, con una mano chiusa in pugno a lodare le virtù del comunismo e con l’altra ad artiglio pronta ad afferrare la pappa. Fortuna che lui era un attore diplomato, consumato in teatri piccoli e grandi e applaudito dalla critica di tutta Treviri. Per prepararsi si dipinse tutto di rosso, canticchiò mezza dozzina di motivetti partigiani e memorizzò frasi dei compianti (perché non ancora nati) Gramsci, Engels ed Ernst Bloch. Fintosi bolscevico più del cugino fanatico di Stachanov, approcciò la preda barcollando:
Compagna mia! Er cammino che fa la civiltà/ s’impone a Papi, Imperatori e Re! / La borghesia precipita da sé, / spinta dar soffio de la Libbertà, / e se trova a combatte a tu per tu / co’ l’ideale de la schiavitù!
Cappuccetto rosso puntò sul muso del lupo l’archibugio.
“Brutto Lupo Cattivo, vedo oltre i tuoi inganni! Ti vuoi fingere il compagno e mi citi una poesia di Trilussa che ironizza sulla dabbenaggine del proletariato? Dovrei appenderti su di una parete per molto meno”.
Il lupo maledisse le notti passate all’osteria a conquistare quella nobile lupa capitolina amante dell’Arte Barocca, della storia di Augusto, di Pasquino e della pasta alla carbonara. Anche agli attori più bravi, purtroppo, capitavano giorni di scarsa potenza creativa; tuttavia, i grandi trovano sempre il modo di salvare la faccia e la carriera, attingendo alla straordinaria forza dell’improvvisazione. La sua mente predatrice elaborò subito altre strategie per ribaltare i rapporti di forza.
“Andiamo bella bimba, conosco comunisti sfegatati che vanno matti per Trilussa, e nessuno li ha mai accusati di eversione e di contaminazione con i borghesi…”
“Sarebbe d’obbligo, invece. La poesia non impegnata e qualunquista va schiacciata dagli ingranaggi del progresso, terrorizzata a morte dal fantasma della rivoluzione, lasciata a morire d’inedia dalla vera e liberata arte figlia del progresso; uccisa di peste, presa a calci negli stinchi, denigrata, fustigata, vituperata, esposta al pubblico ludibrio, guardata con occhi molto sbiechi; sculacciata, insultata, scacciata dalla Repubblica, messa alla berlina, messa alla gogna, messa a guardare il Grande Fratello tutto il giorno…”
Il Lupo rigirò gli occhi dentro le orbite: piuttosto che sentire un altro secondo di polpettone macabro sul ruolo della cultura nelle società post-capitaliste, la morte gli sembrò un dolce fato. Quale creatura perversa ed orrenda poteva concepire di costringere qualsiasi cosa a seguire il Grande Fratello? Sennonché, proprio sul punto di collasso, quando lo strazio raggiunse l’apice, la bestia venne illuminata da un lampo di genio puro:
“Guarda caso, bimba mia, ho trovato dei capi sezione con tendenze artistiche alquanto eterodosse. Questi finti compagni, queste serpi in seno lettrici di Borges e Celine, condurrebbero le loro bravate proprio nel confine est di questo bosco…”
Carletta divenne paonazza. Colpita e affondata, scappò via lanciando granate ed inneggiando morte a Pound e a Casa Pound. Non trovò nessun Giuda Iscariota da uccidere; in compenso, si dedicò corpo ed anima ad istruire un alveare sull’inutilità e sul parassitismo delle api regini e sulla necessità ineluttabile di una divisione del nettare esclusivamente secondo il bisogno di ciascuno. Ci vollero ore estenuanti di discussione per farle capire quale fosse il vero ruolo dell’ape regina e di come le peculiarità biologiche della loro specie mal si sposassero con i concetti umani di ridistribuzione delle ricchezze. Delusa e avvilita, tornò sui suoi passi e si diresse verso casa di nonna Hegela canticchiando l’Internazionale. Al lettore che si domanda di come la piccola fosse riuscita a ritrovare la meta in quel dedalo d’alberi senza uno straccio di segnaletica, dico solo che un tocco di napalm sa fare miracoli per il senso dell’orientamento.
Giunta alla porta, Cappuccetto si meravigliò di trovarla spalancata, pensando ad un possibile tiro mancino da parte del lupo. La sorpresa scomparve quando vide sul capezzale di nonna Hegela Sorella Severina Kierkegaarda, famosa religiosa del nord europa e donna dai principi duri ed inflessibili come la cotta di maglia che soleva sempre portarsi addosso. La donna pregava in religioso silenzio, salmodiando forse qualche frase in latino delle quali a Carletta non importava un fico secco, quindi non importerà nemmeno a noi. Nonna Hegela dormiva profondamente, russava come un trombone sparando qualche occasionale insulto in prussiano contro le vacche nottambule. Cappuccetto si avvicinò lentamente e con cautela, non perché non volesse svegliare la nonna, che tanto sarebbe rimasta a poltrire nel mezzo dell’apocalisse, ma perché in tutte le case in cui passava sorella Kierkegaarda le finestre dovevano essere chiuse per dare l’atmosfera di sala gotica, quindi la bimba non ci vedeva ad un palmo dai baffi.
“Sorella Severina Kierkagaarda”. Disse la bimba. “Come sta nonna Hegela?”
“Ci sta lasciando come ha vissuto, bimba mia”. Le rispose la suora. “Dorme, mangia e spara una montagna di idiozie senza fine”.
La nonna, quasi in risposta all’affermazione della religiosa, scatarrò tre volte da far crollare una basilica (fortuna che i muri portanti della casetta erano rinforzati in cemento armato); poi ripeté paro un pezzo uno dei pezzi della Fenomenologia dello Spirito testo che, assieme alla summa enciclopedica su come cucinare i würstel (in ben tre alla terza modi diversi), le aveva assicurato fama e fortuna presso tutti gli intellettuali della Germania ed oltre. Era più o meno questo:
Questa coscienza infelice scissa entro sé stessa è così costituita che, essendo tale contraddizione della sua essenza una coscienza, la sua prima coscienza deve sempre avere insieme anche l'altra. In tal modo, mentre essa ritiene di aver conseguito la vittoria e la quiete dell'unità, deve immediatamente venire cacciata da ciascuna delle due coscienze […] Porche Vacche!
Frasi del genere avevano messo in crisi studenti, sapienti e poser della cultura in generale, specie l’ultima sulle vacche. Le opinioni di suor Severina e la piccola Carletta sui brani di Hegela, perfettamente concordi, si potevano riassumere in un questa breve sentenza:
Tutte minchiate. Meglio per la nonnina dedicarsi solo ai würstel”.
“Se spara scemenze simili, vuol dire che sta bene, sorella Severina. Ho portato un pacco di dolci, da parte di mamma Ludovica, per ingentilire un po’ i momenti di malattia di nonna Hegela”.
Claretta fece per poggiare il pacco di dolciumi davanti al letto della nonna; suor Kierkegaarda la bloccò poggiandole sulla gola il filo di una zweihänder alta sei pollici.
“Cara figliuola, è forse ammattita? Il medico di nonna Hegela ha vietato i dolci come la lebbra e il peccato. Una vita intera a mangiare torte senza farle a fette e polli arrosto inghiottendo pure gli ossicini- perché le cose nonna Hegela o le mangiava intere oppure per lei non esistevano proprio- ha portato il suo corpo al limite estremo di obesità, da rivaleggiare con i cetacei spiaggiati sulle coste di Copenaghen. Tu e tua madre vorreste farla crepare di diabete o farle commettere un peccato di gola, che è infinitamente peggio?”
“Avete ragione sorella Kierkegaarda”. Ammise Cappuccetto. “Solo che mamma ha minacciato di togliermi Street Fighter ad aeternitatem se non le obbedisco. E poi, se mi permettete, non è che il regime alimentare e di allenamento a cui sostenete i vostri assistiti sia molto più salutare…”
L’ultima frase fu solo un pensiero- Cappuccetto lo giura ancora-; ciononostante, sorella Kierkegaarda drizzò le orecchie come un pipistrello. La bimba si chiese perché di tutto quello che diceva a bassa non sfuggiva mai un cazzo, specie ai filosofi armati fino ai denti.
“Cosa, vuoi dire, cara bimba Bafomett… volevo dire baffuta?” Si corresse la religiosa con un sorriso da squalo.
“Voglio dire sorella mia, che una dieta anche abbastanza severa può anche passare, ma mettersi a nuotare nel mar Baltico d’inverno, correre la maratona con una cassaforte legata dietro alla schiena, recitare tremila padrenostro di fila su chiodi arrugginiti e indossare tutta la biancheria intima di cilicio lo trovo, francamente, un po’ eccessivo…”
“Il cilicio risolve ogni prurito, bimba cara”. Spiegò la suora. “E dovresti provare gratitudine per il mio modo di accudire spartano e puritano: l’ho liberata dal vizio e dall’orribile civetta che stava sulla mensola”.
Cappuccetto guardò in alto. Notò l’assenza di quella nottola impallinata che nonna Hegela aveva cacciato da giovane a Berlino. La bestiola faceva da guardia alla sua stanza da letto con due occhi di vetro smerigliato, così freddi e brillanti da ricordare la versione strigide della bambola assassina. Nell’ultimo periodo di follia un po’ acuta del normale nonna Hegela l’accudiva come la una creaturina vera: le insegnava a volare a tutti i tramonti e per tre volte al giorno le dava in pasto la pappetta di vermi, masticata amorevolmente con la dentiera buona. Cappuccetto dovette riconoscere che distruggere la civetta inquietante era un punto a favore dello stile di vita di sora Kierkegaarda. Uno a zero per la religiosa ghiacciola, palla al centro. La bimba passò al contrattacco
 “Questa è effettivamente un punto a sua favore, sorella Kierkegaarda. Nonna Hegela è una vecchia pazza che odia i francesi, gli idealisti, i numeri oltre al tre e i bovini di colore scuro, ma proprio per questa ragione avrebbe bisogno di un trattamento sanitario in un ospedale vero, rivolgersi a del personale veramente competente e darle delle cure vere…”
Cappuccetto tossicchiò un poco le parole “Dio, Gesù Cristo, Chiesa, Preti e Preghiera”.  Nessun riferimento era puramente casuale. Da qui fu scontro aperto e senza esclusione di colpi, che iniziò sora Kierkegaarda con una delle armi preferite da ogni pensatore esaltato: il sermone.
“Generalista e serva della conformità: a che cosa serve essere sani e felici quando si ha fede? Una vita di privazioni e castità ed autolesionismo infinito può sembrare agli occhi dei don Giovanni una follia assurda, ma il mondo stesso è follia, è assurdità più assurda dell’assurdità dell’asceta che assorda sé stesso. Bisogna gettarsi nel vuoto, avere senza bisogno di ragione, andare contro la vita comune che vuole sempre avere la botte piena e la moglie ubriaca; bisogna saper scegliere, osare, temere e tremare, sacrificare tutto, ma solo nel Calvario vi è la salvezza dall’angoscia e dalla disperazione a cui porta l’esistenza dei libertini e dei lavoratori! La vita vera richiede mettersi di fronte all’infinito in piena solitudine, e piena di voglia di obbedire ciecamente al Signore e di darsi ogni giorno martellate sulle palle!”
Il discorso era un capolavoro di retorica trionfalistica: Cappuccetto Rosso poteva solo risponderle in modo più retorico e trionfalistico.
“Balle, irrazionalista maledetta! Opporsi alla vita dell’uomo comune è bene, ma non barattiamo assurdità per assurdità! L’esistenza di noi mortali è materia caotica e amorfa, senza mano né padrone. Scappare in fughe di fede è puro oppiaceo. L’unico senso possibile sarà quello collettivo che i lavoratori daranno alla terra, con il sudore della fronte e senza niente e nessuno che lucri sulle loro fatiche. Creeremo noi cieli e terre nuovi, spazzeremo via questo mondo corrotto fatto di ladri proprietari e poveri inetti che vivono facendosi i casi degli altri tra reality shows e social networks, quando il popolo proletario dovrebbe essere l’unico a farsi i casi di tutti!”
Il primo round, la misurazione degli attributi filosofico-politici, era terminato; nessuno dei contendenti era disposto a mollare. La suora e la bimba squadrarono l’un l’altra con furore, muovendosi in cerchio come leonesse affamate in cerca di un momento di debolezza della preda. Ebbe inizio il round 2: metodo di dialogo filosofico sgarbiano (molto più antico e famoso di quello maieutico), volée di insulti.
 “Blasfema rinnegatrice di Dio!” Ruggì suor Kierkegaarda.
“Venditrice d’illusioni!” Ululò Cappuccetto.
“Carogna teutonica!”
“Affabulatrice danese!”
“Finta antiteologa repressa!”
“Stilita oscurantista!”
“Fanfarona totalitaria!”
“Bigotta retrograda!”
“Cicciona barbuta, bestemmiatrice e berciante!”
“Stecco folle, fanatico e frigido!”
“IUVENTINA CAPRA DI MERDA!”
L’ultimo insulto di suor Kierkegaarda fece tremare il cielo e nascondere il sole. Cappuccetto era livida: passi l’essere una cagna sovversiva, passi l’essere una grassa borghese, ma iuventina mai. Un simile affronto doveva essere lavato con il sangue; l’unica compensazione possibile le monete che la sorella avrebbe offerto a Caronte nell’aldilà che tra l’altro non esisteva. Ecco, dulcis in fundo, il round terzo: dibattito in botte da orbi.
Nell’angolo destro, duecento di chili di capelli, barba, cartucce e fucili semiautomatici, si posizionò il Fantasma Rosso del Paese, il Martello della Borghesia, Carletta “Cappuccetto Rosso” Enrica Marx; all’angolo sinistro, trecento libbre di armatura, bibbie, spadoni a due mani ed una versione aggiornata dell’Excalibur, fece il suo ingresso la Cavaliera della Fede, la Spada Maledetta, sorella Severina “Ahia-ahia-“ Kierkegaarda.
Niente colpi bassi, finisce tutto al quinto round. Suonò l’idea di gong nell’Iperuranio; il combattimento ebbe inizio.
I combattenti rimasero ognuno ai lati della casetta, studiando mosse e contromosse dell’avversario prima di partire alla carica. La mente della piccola Cappuccetto, turbinava di idee e scene di potenziali andamenti della mischia come una cinepresa al rallentatore: tutti gli anni passati in Inghilterra con Sherlock Holmes le avevano dato un’abilità calcolatrice di ferro. Kiekegaarda pregava imperturbabile, un’asceta dedicata alla guerra santa con la stessa devozione con cui un francescano dedica sé stesso all’elemosina.
E a questo punto vi aspetterete un piano d’azione elaborato e letale, uno scontro all’ultimo sangue con violenza degna del miglior Tarantino, un mezzogiorno infuocato e grondante del sangue e delle budella dei due contendenti, strategia e valore ed effetti visivi da cardiopalma e musica da film epico distruzione e un’escalation che sarebbe esplosa in un vortice di epicità da far crollare le dimore dei numi fin sopra il Monte Olimpo.  La risposta? No. Parodia o meno, questa restava sempre una fiaba, mica Kill Bill: si avvicinarono, sora Kierkegaarda diede uno schiaffo a Cappuccetto, Cappuccetto diede uno schiaffo a sora Kierkegaarda, sora Kierkegaarda ridiede uno schiaffo a Cappuccetto e così per ore ed ore, a lottare come gatte in calore dal pelo bagnato. Una noia mortale; tanto è che il Lupo Cattivo, che aveva passato tutto il tempo ad imitare l’accento prussiano e fare le cose trine, che si era intrufolato nella cascina e che aveva accoppato nonna Hegela prendendone il suo posto, si ritrovò con i lupeschi coglioni parecchio gonfi.
Dovette fare qualche cosa: si alzò dal letto, si levò la cuffia, inspirò al punto di rompere la camicia da notte con la sola forza del torace, gettò via i duecento chili che aveva acquisito per interpretare la parte ed ululò come un indemoniato.
“Ora il bicchiere è colmo, piccole filosofe citrulle! Passi che io rimanga qui per ore ad aspettare la bimba, passi che faccia sforzi d’interpretazione della nonna dialettica che a confronto Robert de Niro quando ha fatto Jake la Motta sembrava un cane obeso, passi che l’autore abbia inserito un Original Character in questa storia solo per prendere per il culo un altro filosofo; ma che io rimanga qui, a vedervi dare buffetti come donnicciole azzimate fino a ridurmi i genitali in prugne senza nocciolo, supera ogni misura e limite di sopportazione umana ed animale! Ora è il turno del Lupo Cattivo di entrare nel ring, e parola mia scorreranno le vostre vite su questo parchè!”
Cappuccetto e suor Kieerkegaarda si fermarono per un attimo; guardarono il lupo per un minuto buono, si riguardarono guardandosi profondamente negli occhi.
Ritornarono a darsi schiaffetti sul volto.  
“MI VOLETE ASCOLTARE, P…” Il lupo, spastico di collera, tirò insulti peggio di uno scaricatore di porto inglese. Le due donne rimasero raccapricciate.
“Insomma, lupo screanzato, come ti permetti di usare del turpiloquio in una storiella per minori!” Ammonì suor Kierkegaarda.
Il lupo diede ancora più fondo alla sua riserva d’improperi, arrivando ai livelli di uno scaricatore di porto livornese. Cappuccetto, che la gente maleducata l’avrebbe mandata tutta affanculo, gli si avvicinò di soppiatto e gli diede una martellata sui testicoli con un maglio da venti chili. Suor Kierkegaarda la seguì come un lampo sfilando dalla sottana una lancia di frassino lunga quasi due metri, che palleggiò come un’asta prima di scagliarla con il canide cattivo. Il giavellotto trapassò la spalla del lupo, incagliandosi nelle scapole; il Lupo Cattivo venne impalato al muro retrostante come un succulento cosciotto di un girarrosto.
“Caro Lupo Cattivo, lascia che ti spieghi una cosa”. Parlò Kierkegaarda. “La storia di cui noi siamo protagoniste è una fiaba, che porta con sé ovvie limitazioni in termini di rating e violenza permessa ad un pubblico giovanile. Noi due saremmo anche talmente fanatiche che per vincere un dibattito venderemmo i nostri ipotetici figli in tranci al mercato del pesce di Århus, ma il PG-13 è una regola ferrea e indissolubile per i buoni delle fiabe.  Nei casi peggiori si muore di inedia e gelo, come la Piccola Fiammiferaia o la Rondine di Oscar Wilde; oppure ci si trasforma in spuma, come la Sirenetta”.
 “Esiste però una categoria di soggetti a cui il basso tasso di violenza obbligatorio non si applica: e in quella categoria fanno parte gli antagonisti come te, lupacchio”. Proseguì Cappuccetto Rosso. “Voi cattivi potete essere squartati, spappolati o cotti a puntino senza infrangere alcuna convenzione fiabesca. Perciò, brutto canide spelacchiato, se interrompi ancora il nostro duello ideologico kid-friendly, saremo legittimate a non usare alcuna pietà ed a ammazzarti in tanti modi originali, crudeli e divertenti. Hai capito bene?”
Il lupo restò in silenzio per un lungo, lungo tempo (la martellata sui gioielli di famiglia sicuramente c’entrava molto). Aveva avuto la violenza videoludica che desiderava, sebbene fosse il classico tipo di desiderio che ti si rivolta contro, che come quelli che ti esaudisce un genio della lampada o un gruppo terroristico in un paese straniero. Non era però scontento; un lampo di eccitazione gli fibrillò gli occhi. Questa lotta non lo trovava impreparato, ed aveva portato con sé un cospicuo equipaggiamento.
Partì al contrattacco. Da non so quale dimensione tascabile o universo alternativo evocò in rapida successione cinquanta pezzi di A-47 Kalashnikov, duecento fucili automatici, semiautomatici e automatici manco per nulla; cinquanta granate a frammentazione, dieci scudi antisommossa, dieci carri armati, sei arei da bombardamento, quattro corazzate, otto fregate ed una portaerei in omaggio;  nove bazooka, sette fucili da precisione, tre balestre, un arco lungo inglese, due trabocchi, tre per due baliste, quattro per tre onagri; una schiera di picchieri, due schiere di alabardieri, quattro schiere di fucilieri, squadre di artiglieri, bersaglieri, cavalieri e fanti di ieri (fanti vecchi); la Strega di Hansel e Gretel, il Gigante di Jack e il fagiolo magico, l’Orco Cattivo di Pollicino, l’Orco Selvatico di una fiaba di cui non ricordo il nome, ma è russa e quindi so’ dolori; basilischi, viverne, manticore, petardi cinesi, spinati ungari, il cugino cattivo del drago Smaug dalle più turpi fanfiction dell’Hobbit, il drago Glaurung con ali posticce in mithril, i tre draghi di Daeneris in Game of Thrones; il resto del khalasar di Daeneris in Game of Thrones, i Guardiani della Notte, gli orchetti di Mordor, i Trecento Spartani in 300, Robocop, tutti i Terminator, Rocky sdoppiato con Rambo, il sergente Hartman, Alex e i suoi drughi, Frank Underwood, Walter White che knocca; poi una batteria di testate nucleari all’idrogeno, una bomba sperimentale all’antimateria, una squadra black ops di un paese il cui nome è segreto e se ve lo rivelassi mi ucciderebbero, uno Zidane incazzato, un Gordon Ramsey particolarmente incazzato e, per finire, un Liam Neeson in tutti i ruoli fighi che abbia mai interpretato (tranne Oskar Schindler, per ovvie ragioni, ed Aslan, che scorrazzava comodo comodo  nel suo paradiso di Narnia).
Un’armata del genere avrebbe portato forse chiunque alla sottomissione totale. Cappuccetto e suor Kierkegaarda si guardarono ancora negli occhi, guardarono l’armata del lupo, passarono tre giorni a farsi scrivere autografi e fare selfie; consumati una ventina di quadernini e la memoria di tre cellulari, ricominciarono a darsi schiaffetti come nulla fosse.
Il lupo era basito. Tirò fuori la sua arma più segreta e letale: una copia della Rivolta d’Atlante. Le due donnette divennero di ghiaccio, poi urlarono e poi si strinsero l’una all’altra come pitoni spinti di fronte ad un venditore di borse.
“UN OGGETTIVISTA! ORRORE!!!” Gridarono
Il lupo sghignazzò, quasi ebbro del terrore delle sue vittime: non c’è nessun incubo, per un filosofo affermato e rispettato delle accademie, che possa competere con il morire per mano di un seguace di Ayn Rand. Partì con la sua versione del pippone ideologico autocelebrativo:
“Massaie massificatrici, spacciatrici di mendacità! La menzogna infinita della vostra ossessione per paradisi collettivi ha portato solo la lebbra di un conformismo dilagante! Per secoli le vostre ideologie hanno propagato il mito della pietà e dell’altruismo come somme virtù di una civiltà, distribuendo i gioghi di morale oppressiva ai membri dotati di passione talento. Avete inquinato la parola “libertà” con concetti insensati come “virtù” o “obbedienza a disegni superiori”, quando l’unica vera e somma libertà è quella di ogni uomo di fare quel che cazzo gli pare, fregandosene degli altri. Questa giornata cambierà ogni cosa: voi morirete, e con voi svaniranno le perniciose esaltazioni della generosità e del sacrificio. Ogni singolo sarà finalmente senza più catene, libero di vivere, di morire, di mercanteggiare, di ubriacarsi e di non dare nemmeno un centesimo della sua proprietà a nessuno. Quest’oggi il mondo saprà che togliere ad un uomo un’arancia per non far morire davanti a lui un bimbo di fame è abominio puro! Viva l’avarizia pura, viva i diritti individuali senza freno e nessun obbligo nei confronti dei vicini, viva l’ultraliberismo, viva la povertà degli sciocchi e dei parassiti, viva l’eccellenza degli uomini grandi. E non vivano più le ideologie che santifichino il martirio, gli inganni religiosi, le utopie socialiste e non viviate più voi! Non vedrete l’alba di domani, povere illuse. Ma prima…”
Volse lo sguardo verso Cappuccetto. La bimba era appiccicata alla religiosa manco fosse spalmata di Attack; faceva a gara con lei a chi per prima fosse riuscita ad usare l’altra come scudo umano.
“Cosa vuoi l-Lupo Cattivo borghese?” Chiese la bimba tutta tremante.
Il lupo rispose sarcastico “Hai detto che la fiaba deve andare in certo modo, bimba cara, o mi sbagliooo? Giocheremo alle regole dell’opera originale, e divorerò te seguendo tutto il copione della fiaba come ogni cattivo che si rispetti. Quindi, Cappuccetto, dimmi - Oh nonna, ma che orecchie grandi che hai! - e ripeti tutte le frasi fino al punto in cui ti mangio”.
Cappuccetto era troppo spaventata per rispondere. Il lupo minacciò di mostrare Una fonte meravigliosa: le due persero due terzi dell’acqua sprecabile dall’uomo in attività che il lettore smaliziato avrà già ben capito (mamma Ludovica avrebbe avuto tanta biancheria da lavare). Alla minaccia non vi era scampo: Cappuccetto ripeté la celeberrima frase, con una dizione stentata e innaturale che avrebbe fatto vomitare metà Broadway. Malgrado ciò, la storia era lunga e il lupo era stanco: la costrinse a provare giusto per un altro paio d’ore, e solo dopo essersi arreso le fece dire tutte le frasi per intero.
Oh nonna, ma che orecchie grandi che hai”.
È per sentirti meglio, bimba cara”.
Oh nonna, ma che occhi grandi che hai”.
È per vederti meglio, bimba cara”.
Oh nonna, ma che mani grandi che hai”.
È per accarezzarti meglio, bimba cara”.
Oh nonna, ma che grande bocca che hai”.
È per mangiarti meglio!” Il lupo si leccò i baffi. “Come attrice sei stata veramente un cane, come politica anche peggio, ma sono certo che come secondo farai un figurone!”
Ed ora cari lettori, intuisco il vostro dilemma: da una parte vi aspettate un deus ex machina proprio delle favole classiche, dall’altra pensate che, con il mio gusto per le parodie, avrei fatto sbranare le due cornacchie al lupacchio, che se ne sarebbe tornato a casa sazio e felice giusto per l’unica volta nella sua carriera dai tempi di Gubbio. Però le regole della fiaba parodia sono vincolanti anche per me, e c’è ancora un attore fondamentale che deve svolgere la sua parte, un altro filosofo su cui ridere sopra: ecco voi, dunque, signori e signori, Federico Guglielmo Nicce, il Cacciatore.
Il rombo di una Harley Davidson. Elmetto militare con in punta uno spillo d’acciaio inossidabile lungo venti centimetri, da cuocere i pesci allo spiedo. L’idea di Wagner che intonava dall’alto dell’Iperuranio la Cavalcata delle Valchirie ad un volume da far crollare il Valhalla intero. Giubbotto e guanti e pantaloni in pelle di pantera nera. Una maglietta su cui era scritta, a caratteri fiammeggianti, la frase “Così parlò Zarathustra: Dio è morto, io l’ho ucciso e mo’ ammazzo pure te!”. Occhiali da sole Ray-Ban, lucidissimi, lampeggianti d’acciaio sotto sole. E dopo i leggendari baffi tutti impomatati, foltissimi, suntuosi e forti come rami da quercia, da appenderci i cappotti di un’intera famiglia del sud Italia riunita per il pranzo di Natale. Federico Guglielmo entrò in scena come un tuono, sfondò la finestra a vetri in una scena al rallentatore da urlo (così da urlo che i vetri rimasero ad applaudirlo, invece di sfregiarlo a vita oppure ridurlo in un puntaspilli); sgommò tra l’armata del Lupo Cattivo, che era tutta rimasta con la bocca spalancata dalla fighaggine, facendosi firmare nell’arco di una decina di secondi la giacca con le dediche dei presenti. Ecco a voi il die Donner, il grande e immenso Federico Guglielmo, cacciatore di mostri di ogni risma e taglia, specialmente quelli filosofici.
Le due donne erano sbalordite; il Lupo Cattivo quasi andò in catatonia dallo shock. Come tutti i darwinisti sociali e gli anticonformisti ad ogni costo, Nicce era per lui un mito assoluto, un profeta della fine delle illusioni, una bomba contro le opprimenti costruzioni mentali dei drogati di sistemi. Trovarselo lì davanti era meglio che recitare di fronte a Scorsese e mangiare dieci fiorentine nell’intervallo. Il Cacciatore gli ricambiò lo sguardo, o così sembrava, dato che dagli occhiali neri non si poteva vedere un tubo di nulla; rimaneva fisso, le braccia conserte e l’odore penetrante di asfalto caldo e di ruote arroventate per la sgommata pazzesca. Ragazzi, che uomo; anzi, che oltresuperuomo.
Poi, dopo un’attesa che parve durare decenni, sebbene in realtà fossero giusto un paio di settimane, afferrò dalla cintura un fucile da caccia che avrebbe dato seri problemi di indigestione anche ad un elefante. Lo puntò sulle donzelle per un altro tempo interminabile, di quattro giorni circa. Per le due sembrava essere giunta la fine: chiusero gli occhi, contente almeno di crepare sotto i colpi di un filosofo che contasse qualche cosa presso le università, mica Ayn Rand.
Federico Guglielmo sparò. Al lupo, in mezzo alla fronte.
Poi sparò all’idea di Wagner e a tutta l’orchestra che ancora intonava la Cavalcata delle Valkyrie.
E poi si sparò da solo, in mezzo alle palle.
La marmaglia evocata dal Lupo si disperse come vento. Cappuccetto e sor Kierkegaarda videro il loro cacciatore diventare sempre più pallido mentre il cavallo dei jeans si tingeva sempre di più di rosso. Fu Cappuccetto che ebbe il coraggio di parlare.
“Ma cacciatore Federico Guglielmo, perché hai un compiuto un gesto così insensatamente pericoloso e masochistico?”
“Dolci donne da frusta”. Rispose Federico Guglielmo con una cadenza da far sciogliere Goethe. “Non scrissi un tempo che la logica in realtà non era altro che uno dei tiranni da abbattere per permettere alla vita di penetrare nel pensiero degli uomini? Nulla in questo mondo ha senso tranne quello che noi ogni giorno sappiamo dare, ogni nostra scelta è una vibrazione che fa riecheggiare l’universo intero di gioia per l’eternità intera. Inoltre gli ultra-capitalisti, quelli che usano il mio lavoro per giustificare il fatto che pensino tutto il giorno a riempirsi di tasche e ad andare a mignotte e consumarsi il naso in cocaina, mi stanno veramente sui coglioni…”
“Ma vi era proprio necessità di dirigere la vostra attività su quelle parti, cacciatore?” Chiese accorata sor Kierkegaarda. “Vi ringraziamo per averci salvato da quel lupo ciarlatano, ma non c’era alcuna necessità di farvi una violenza tale sugli organi genitali maschili, e nemmeno di uccidere poveri musicisti ultraterreni… è una stupidaggine (autocensura) pazzesca!”
“Così volli che fosse!” Se ne andò il cacciatore con queste ultime, grandi parole, accompagnato dalle note di Vita spericolata, senza alcun rimpianto, solo un sacco di conti in sospeso con tutti gli psichiatri di Jena.
Capuccetto rimase a pensare a corto, da sola. Nonna Heghela era morta, Federico Guglielmo Nicce era morto, il lupo oggettivista aveva le cervella crivellate. La mamma a quell’ora gli aveva sicuramente già bruciato la PS4.
Guardò negli occhi sora Kierkegaarda. Kierkegaarda guardò negli occhi la bimba. Raccolsero tutto il loro fiato, tendendo in muscoli in una posa da battaglia wushu…
E ricominciarono a prendersi a buffetti come donnicciole azzimate, finché un rospo di nome Giampaolo, che lavorava come cameriere a Parigi, non le mise d’accordo buttando Kierkegaarda dall’alto di un fiordo (la quale comunque alla fine sopravvisse, accademicamente, dopo di lui). Mamma Ludovica non pensò al destino della bimba: era troppo occupata a giocare a Street Fighter.

 
FINE

Post scriptum: avessi inserito Schopenhauer, non avrebbe fatto comunque nulla: se nulla si crea e nulla si distrugge, perché sbattersi?
Post post scriptum: nella parte del primo Lupo Cattivo avrei voluto scegliere Thomas Hobbes, ma aveva già preso un impegno come licantropo per il video di Thriller.
Post post post scriptum: era anche previsto un cameo con Bertrand Russell come cavaliere errante: peccato che il cugino di Smaug se lo fosse già mangiato in pre-produzione…
P.P.P.P.S. (famo prima): mi sarebbe piaciuto trovare un modo per fare la parodia di Bergson e Popper, ma li ho trovati entrambi infalsificabili. Probabilmente, Andreotti docet, non ho cercato su di loro abbastanza…
  
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