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Autore: nettie    16/08/2016    0 recensioni
«Tornerai sul serio?»
«Ti pare che ti lascio solo? Farò il possibile. Tu aspettami.»
«Non scordarti di me.»
Sembrava impossibile, ed Isaiah non voleva crederci. Il suo Inverno iniziò nel bel mezzo di un lontano Luglio di vent’anni prima, non accennando a tregua alcuna. Questa storia parla di due linee incidenti, e di come, dopo essersi incontrate per la prima e l’ultima volta, abbiano passato tutta la loro vita a rincorrersi invano.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Storie brevi scritte in un lasso di tempo breve. '
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Sembrava impossibile, ed Isaiah non voleva crederci. Il suo Inverno iniziò nel bel mezzo di un lontano Luglio di vent’anni prima, non accennando a tregua alcuna. Erano le nove di mattina, l’aria afosa riempiva i polmoni della gente del posto, ed Isaiah aveva il cuore frantumato in mille pezzi. Era steso nel letto dalle coperte sfatte, e che portavano ancora l’intenso profumo di Lazar. Isaiah se lo sentiva ancora addosso. Sentiva ancora le sue caute mani carezzare la sua pelle nuda ed il suo fiato gelido sul suo collo delicato. Erano passate solo poche ore, e già sapeva che gli sarebbe mancato come l’aria da respirare. Quella stessa notte, per Isaiah fu una grande emozione sentire i rintocchi del pugno di Lazar sulla sua porta d’ingresso; non esitò ad aprirgli, e il maggiore gli si buttò addosso. Poco c’è da aggiungere, poco come le ore da spendere insieme che rimanevano ai due uomini, e non servì nient’altro che un gesto e un sorriso a far travolgere entrambi dalla passione più ardente. Isaiah tenne stretto al cuore quell’unico ricordo rimasto per i vent’anni che vennero a succedere.

E quella, fu la notte prima della dipartita di Lazar, prima che le loro vite si allontanassero per un tempo eternamente indeterminato. Il sole poi era aggiunto insieme all’alba, e il rumore d’un motore in movimento sotto la palazzina di poche anime aveva svegliato Isaiah. Sapeva cosa significava quel rumore, lo sapeva meglio di tutti, e per un attimo sentì il cuore riempirsi di nient’altro se non vuoto e freddo. Si scostò i ricci dal volto e mise alcune ciocche dietro l’orecchio, prima di poggiare i piedi a terra ed incamminarsi verso la finestra, con passo spaventato. La luce del sole accecava violentemente i suoi occhi ancora stanchi, ma non gli poteva importare un bel niente di certi inutili dettagli. Guardò giù, per strada, e vide l’ultima cosa che avrebbe mai voluto vedere. L’automobile di Lazar era lì, in moto, ed il portabagagli era spalancato. La bella Ruth sembrava sistemare alcune cose, valigie, borsoni: era evidente che fosse più che pronta all’imminente partenza. Dopo un po’, sbucò fuori Lazar. I suoi capelli biondi scintillavano sotto il cocente sole estivo, e sembravano fili d’oro ad ornare quel marmoreo viso dagli occhi azzurri. Il cuore di Isaiah saltò un battito: Lazar sembrava ancora più bello del solito, e avrebbe voluto spalancare i vetri della finestra ed urlare il suo nome, ed urlare al mondo quanto lo amasse. Si sarebbe buttato giù senza alcun timore pur di raggiungerlo al più presto prima che partisse, non aveva paura: sapeva che Lazar se ne sarebbe accorto e lo avrebbe preso. Ma era solo pura immaginazione, e gli faceva sanguinare copiosamente il cuore nel petto. La voglia di scendere d’un fiato le scale e buttarsi addosso a Lazar, pregandolo di rimanere, era tanta. Era tanta, già, ma non poteva, e in quel momento si sentiva diviso in due – da solo a lottare con sé stesso. Vide poi Lazar abbracciare Ruth e stringersela forte al petto: si sentì male dal dolore che quel gesto gli aveva inflitto. Si ricordò d’un tratto che Lazar non era stato mai suo, neanche la notte precedente, perché Lazar era un uomo sposato. Lazar apparteneva a Ruth come Ruth apparteneva a Lazar. Faceva male anche questo pensiero, e lo negò a sé stesso.

Teneva il volto schiacciato contro il vetro e una mano su di esso, gli occhi verdi puntati solo ed unicamente sulla figura lontana dell’uomo che gli aveva ridotto a brandelli il cuore. Una volta che Ruth entrò in macchina, poi, lui chiuse il portabagagli con un colpo secco, e sembrò quasi sospirare. Isaiah aveva battito e respiro sospesi. Arrivò, in seguito, il momento che tanto Isaiah aveva temuto quanto aspettato. Lazar alzò il capo, e gettò lo sguardo alla finestra dell’abitazione di Isaiah. Il bel professore sapeva di aver lasciato un marchio a fuoco sul cuore del giovane, e si sentiva pieno di sensi di colpa. Incontrò il volto roseo del più piccolo, il naso e le guance macchiati di deliziose lentiggini, e rimase a guardarlo per un po’. Era consapevole che anche Isaiah lo stesse guardando, e per un attimo sentì l’impulso di tornare indietro e buttarsi fra le braccia di quel giovane ragazzo. I loro occhi si incrociarono da lontano, ed il più giovane vide Lazar mordersi il labbro e stringere i pugni. Fu un solo unico sguardo che durò pochi attimi, non ci volle molto prima che Isaiah avvertisse calde lacrime percorrere tutto il suo viso. Lazar abbassò lo sguardo facendo un passo indietro verso la macchina, ed Isaiah nascose il viso rigato dalle lacrime dietro la tenda di quella triste camera. Fu così il loro addio, silenzioso com’era nato il loro amore. Isaiah, che ancora teneva la mano sul vetro, guardò malinconico Lazar entrare dentro la macchina ed allontanarsi una volta per tutte, come se niente fra loro due fosse mai successo. Non perse alcun tempo per disperarsi, e diede libero sfogo a tutto il vuoto frustrante che si portava già dentro, a meno di cinque minuti dalla dipartita dell’amato. Sarebbe mai tornato? Lo sperava con tutto il suo cuore.

Si buttò di peso sul materasso dalle lenzuola disordinate, e per un momento, stringendo il cuscino al petto e affondandoci il viso sopra, sentì il profumo di Lazar inondargli i polmoni attraverso le narici: era una sensazione paradisiaca. Ripensò a tutte quelle parole che gli furono dette dal più grande, e sentì il cuore far male. Strinse fra le dita le lenzuola leggere; anche quest’ultime ricordavano tutto di lui, portavano il suo sapore ed avevano lo stesso colore dei suoi occhi. Rotolò più volte fra le coperte a braccia larghe ed occhi chiusi, immaginava di stringere la sua mano e di averlo ancora lì con sé. Poi tornava alla realtà ma il cuore continuava a negare, così cercava d’ingannarsi ancora sperando di sentir bussare alla propria porta, aprire e ritrovarsi quella marmorea figura dinanzi a sé. Non successe mai. Guardò il muro, c’era appesa una bozza di un quadro mai finito che li ritraeva: si ripromise di finirlo al più presto per riportare a galla sensazioni che sembravano già antiche. Così, torturato fra pensieri e lacrime, finì per addormentarsi come un bambino, annegando nei propri brutti incubi. Inchiodò tutti quei ricordi e quel buon profumo al cuore, li rinchiuse in un cassetto e non li fece mai più uscire. Furono loro a svanire nel tempo, sotto cumuli e cumuli di polvere.

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Quella stessa notte, Lazar si alzò mentre la luna troneggiava ancora alta nel cielo e nella casa regnava il silenzio più completo. Aprì gli occhi azzurri e lasciò che si abituassero al buio, fino a quando le forme accanto a lui iniziarono a delinearsi nelle tenebre. Tutto regolare: era nella sua stanza di sempre, quella stanza dalle pareti e dal pavimento in legno, quella stanza calda che per tanto tempo l’aveva riparato dalle intemperie della vita. Accanto a lui, nel letto, era stesa una bella donna che non dimostrava più di cinquant’anni. Era Ruth, sua moglie, che dormiva rannicchiata nell’altro capo del letto, sommersa dal piumone pesante e beata come fosse una bambina. Le guance ambrate risaltavano nella notte, il volto era illuminato dalla fioca luce lunare che penetrava dalle finestre, e le spesse e calde coperte delineavano le forme generose del suo corpo. Lazar la guardò con gli occhi pieni di malinconia, ma gli venne spontaneo abbozzare un sorriso, e lo fece piegando appena gli angoli delle labbra. Era una brava donna, brava tanto quanto bella, ma non era quello che aveva sempre desiderato. Certo, tutti quegli anni carichi di responsabilità gli avevano insegnato ad essere giudizioso, ma quella notte la pura follia si impossessò di lui, ed uno solo era il desiderio che ardeva nel suo petto, svelto e scottante: Isaiah. Non s’era mai scordato di quel giovane tanto bello e curioso, il pensiero suo era sempre presente nella mente di Lazar, e lo accompagnò per anni interi mentre il rimorso cresceva. Non s’era mai scordato dell’ultimo messaggio che il minore gli inviò anni prima, e si era tenuto scritta ogni singola informazione che lo avrebbe portato a casa di Isaiah. Sempre se la casa fosse stata ancora la stessa. Ma Lazar non aveva né timore né paura: dopo vent’anni d’oppressione sentiva il bisogno di fare una pazzia, almeno una, e tornare da quel ragazzo con i capelli rossi, in quella notte nella quale anche le stelle erano coperte da uno spesso strato di nubi, la luna sembrava più lontana che mai, e fuori tutto taceva immerso nel buio.

Già, ragazzo. Lui se lo ricordava come un ragazzo, ma non sapeva come fosse diventato, e soprattutto chi. Non avrebbe mai potuto prevedere la reazione di Isaiah quando se lo sarebbe ritrovato davanti dopo vent’anni. Aveva paura d’esser stato dimenticato dall’unica persona amata in quegli amari e grami cinquant’anni, e non sapeva a cos’altro andava incontro. Lui manteneva stretto al cuore e alla mente il ricordo di un giovane e vitale Isaiah, non dell’uomo stanco e burbero che era diventato, ma come avrebbe mai potuto saperlo?

Scacciò ogni tipo di pensiero che lo facesse anche solo esitare di poco, e, dando un’ultima carezza al viso di sua moglie dalla pelle morbida, si alzò tentando di fare il minimo rumore possibile. Poggiò i piedi sul pavimento gelido e rabbrividì appena, sentiva il vento battere contro la finestra quasi come fosse un rimprovero alle sue peccaminose azioni. Aveva il respiro sospeso, e non solo: lui stesso si sentiva sospeso su di un filo, prossimo alla caduta. Mosse alcuni passi verso l’armadio e lo aprì senza fare il minimo rumore. Tirò fuori uno zaino un po’ usurato, e buttò dentro quest’ultimo beni di prima necessità: documenti, e vestiti. Non gli serviva nient’altro. Poi calzò le sue scarpe e allacciò i lacci con cura in modo da non farli sciogliere. Aveva pianificato già da un po’ di tornare per un certo periodo in Francia, e la negazione datagli dalla moglie, solo poche ore prima di dormire, lo aveva fatto andare su tutte le furie: ora nel suo stomaco ribolliva acido che ne bucava le pareti.  Salutò la bella donna con un ultimo sguardo, niente di più, e infilandosi il cappotto si mise lo zaino in spalla. Si sentiva un verme, ma aveva bisogno di raggiungere quella libertà tanto agognata che portava – e aveva sempre portato – il nome di Isaiah. L’aveva capito solo in quel momento, che follia.

Ebbene sì, Lazar era folle, un folle che correva contro l’irraggiungibile sogno della felicità. Era determinato; l’avrebbe ottenuta. Uscì dalla stanza camminando sulle punte dei piedi, ma prima di chiudersi in modo definitivo la porta d’ingresso alle spalle, passò in camera del figlio. Tutto taceva nel silenzio della notte, e il giovane Rapahel era lì, sotto le coperte, a dormire nel suo letto. Lazar sentì una morsa stringergli il cuore nel petto: come avrebbe mai potuto abbandonare Raphael? O forse, suo figlio avrebbe semplicemente capito? Capito il bisogno del padre, certo, ma come avrebbe mai potuto capire senza conoscere il bisogno? La verità era che né Ruth né Raphael conoscevano Lazar, nonostante fossero le persone più legate a lui. Lazar conosceva a stento se stesso, come potevano gli altri analizzare il suo complesso animo?

Rimase poggiato con la spalla allo stipite della porta mentre sentiva il cuore farsi piccolo piccolo nel petto, quasi a scomparire. Il giovane dormiva avvolto fra calde e morbide coperte, il suo respiro mozzato da un lieve russare che fece sorridere in modo alquanto tenero Lazar. Non ebbe il coraggio di avvicinarsi a lui, era troppa la paura di svegliarlo o anche solo disturbare il suo sonno, seppur profondo. Era suo figlio, solo in quel momento lo capiva davvero, ed era la creatura più bella del mondo. Avrebbe voluto portarlo con sé, ma ormai non era più un bambino di cinque anni: lì in Svezia aveva una vita, e Lazar non poteva renderlo privo della sua autonomia. Si morse il labbro e strinse appena gli occhi, socchiudendoli in due mezzelune. I capelli ricci e scuri di Raphael brillavano al buio, e Lazar avrebbe voluto vedere i propri occhi in quelli del figlio ancora una volta – quelle due perle che tanto somigliavano alle sue. Trattenne un sospiro gonfiando il petto, che bruciava intensamente, bruciava di dolore con il cuore che martellava al suo interno. Restò per ancora qualche minuto a contemplare la visione del proprio figlio, poi, decise che era il momento di andare. Sperò con tutto se stesso nella comprensione di Raphael, lui, che era l’unico motivo per cui era ancora in vita, e uno dei motivi per cui aveva deciso di partire e scomparire nel nulla. L’aveva cresciuto, il gioco era fatto. Era diventato grande, bello e in forze – Lazar non era più presente come una volta nella vita di Raphael. L’uomo sperò ancora una volta che Raphael non ne soffrisse la mancanza, e dopo questi ultimi pensieri, si legò bene alcuni ricordi al petto: il sorriso della donna che gli era stata accanto e che aveva illuso per interi anni; e gli occhi del figlio tanto amato che aveva la stessa luce negli occhi di quando il padre era solo un giovane scalmanato. Sperò poi nella felicità del giovane Raphael e nella sua buona stella, e immerso nel silenzio mosse i primi passi verso la porta d’ingresso. La aprì delicatamente e se la richiuse alle spalle, coprendosi poi il capo con il cappuccio foderato in pelliccia. Prese la sua motocicletta e camminò con lei nel gelo scandinavo; poi, quando fu abbastanza lontano da quella che era stata per tanto tempo casa sua, accese il motore e scappò via, verso il primo volo diretto in Francia.

Nel frattempo, Ruth s’era alzata, e vedendo le coperte sfatte al posto di suo marito, capì che le sue più grandi paure s’erano realizzate. Ad una donna non sfugge niente, mai, né tantomeno a Ruth. Non ne capiva ancora il motivo, e probabilmente non lo capì mai, ma conosceva Lazar. Se aveva deciso di fare qualcosa, era perché ci aveva pensato a lungo e bene: una ragione c’era, non importava quale fosse. Lo guardò allontanarsi in silenzio da dietro la tenda, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. Non disse niente, ma quando lo vide scomparire al buio orizzonte iniziò a piangere. Calde lacrime iniziarono a solcare il suo viso, goccia dopo goccia, e non c’è niente più straziante del pianto d’una donna delusa e confusa, quei lamenti che ti dilaniano l’anima. Lei, però, non si sentì tradita, si sentì semplicemente confusa, tanto. Non era colpa sua, non era colpa di nessuno dei due, eppure sentiva in cuor suo di essere molto vicina alla soluzione. Rimase a guardare fuori dalla finestra fino alle prime luci dell’alba, non si stancò mai di vegliare per un improbabile ed improvviso ritorno di Lazar.

Già, Lazar. Quell’uomo che già stava volando su un aereo, lontano dalla realtà e immerso nei ricordi che lentamente si facevano sempre più vicini. Chiuse gli occhi e si sentì libero di respirare.

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Isaiah, dopo aver navigato ancora una volta nei propri sbiaditi ricordi, si addormentò di sasso sul materasso morbido ed accogliente. Era Estate, già, ma continuava a sentire freddo: sentiva d’aver bisogno d’un paio di braccia grandi a stringerlo ed esorcizzare ogni suo male; ma solo quelle di Lazar avevano quel potere così prezioso del quale l’uomo sentiva il bisogno. Poi si svegliò presto, alle prime luci dell’alba. Aprì pigramente gli occhi, accorgendosi suo malgrado d’essersi addormentato vestito, con la camicia nera appena sbottonata. Sbadigliò pigramente e si portò un cuscino sul volto, a coprire quei raggi che tanto gli disturbavano il riposo.

Ma in fondo, non erano veramente i raggi ad irritarlo, ma i tanti ricordi che, semplicemente, non riusciva a ricordare come un tempo. Lo irritava l’ombra di quest’ultimi, lo irritava l’ombra di lui e Lazar. Si chiese per la milionesima volta che fine avesse mai potuto fare, e la risposta stavolta arrivò al cuore colpendolo dritto come una freccia: s’era scordato di lui. Cosa avrebbe mai potuto aspettarsi, dopo tutto, da un uomo adulto e sposato?

Per la prima volta in quarant’anni si sentì viscidamente usato, e si sentì sporco. Certo, la sua vita aveva avuto un lungo continuo anche senza Lazar, ma la Vita, quella vera con la V maiuscola, non aveva mai avuto un inizio. Sentì improvvisamente d’aver vissuto a vuoto, e non capì il senso di rimanere a galleggiare nel nulla più totale, in balia delle sue confuse emozioni e sciape sensazioni. Ricordò l’ultimo messaggio scritto a Lazar, diciott’anni prima: lo annunciava dell’acquisto di una nuova casa, e speranzoso, aveva allegato l’indirizzo nella speranza che un giorno il maggiore sarebbe venuto a trovarlo. Si sentì un perfetto illuso, per giunta con tutte le carte in regola per esserlo più di tutti gli illusi messi insieme. Ed era questa sua lotta interiore a farlo stare male, il continuo conflitto tra cuore e mente, quel conflitto che durava da ormai vent’anni e per il quale mai aveva desiderato aiuto da esterni.

Isaiah e Lazar erano una cosa sola, lo erano stati per poco e breve tempo, perché il rosso avrebbe dovuto esporre a gente estranea tutto quello che era stato loro, suo e di Lazar? Isaiah non aveva bisogno d’aiuto. Isaiah aveva bisogno di Lazar.

E se Lazar fosse cambiato? Isaiah dubitava che si trattasse dell’uomo di sempre, quel giovane scaltro che gli aveva fatto perdere la testa. Erano cambiati, certo, è naturale, ma non erano cambiati insieme. Ciò rendeva Isaiah terribilmente confuso, continuava a chiedersi se ne valesse davvero la pena piangere su una cosa passata, e continuava a non riuscire a darsi una risposta.  

Passata mezz’ora inerme su quel letto, quando i raggi del sole finalmente lo toccarono scaldandogli il corpo, Isaiah decise di alzarsi. Scese le scale come tutte le mattine, ma invece d’andare al lavoro dietro quell’odiosa cattedra, rimase a casa: era Domenica. Lui, non aveva nessuno con cui trascorrerla, se non se stesso, e quanto doleva questa condizione?

Passò per la cucina dopo aver attraversato il corridoio, e si avvicinò alla macchinetta del caffè. La accese, inserì una cialda e aspettò la sua piccola pozione si preparasse da sola. Poi poggiò la tazzina bollente sul tavolo, e si mise seduto dietro questo, su una sedia intrecciata in vimini. Osservò il sole sorgere all’orizzonte e farsi alto nel cielo limpido, mentre sorseggiava la tazza di caffè bollente. Allungò le gambe sotto il tavolo e provò a rilassarsi invano. Gli occhi vitrei e il volto inespressivo: sentiva il cuore in subbuglio e avrebbe tanto voluto strapparselo dal petto.

Poche ore dopo, decise di uscire a prendere una boccata d’aria; sperava tanto gli avrebbe fatto bene. Così si cambiò i vestiti, si pettinò con cura i capelli mandando le ciocche indietro, e provò a rendersi presentabile almeno un po’. Si guardò allo specchio e inarcò un sopracciglio, sistemandosi appena il colletto della camicia. Allacciò i primi due bottoni, poi fece una smorfia e preferì lasciarli slacciati: gli dava un senso di libertà.

Prese il portafogli e si buttò le chiavi di casa in tasca, poi si chiuse la porta d’ingresso alle spalle, con un grande colpo secco. Iniziò a respirare l’aria del mare limpido e gli sembrò quasi di sentire le onde sbattere contro gli scogli fin lì. Sorrise di sbieco piegando gli angoli delle labbra, ed iniziò a muovere i primi passi verso la bella costa di Nizza. Scese in strada, e vide un gran movimento ovunque. Si sentì solo, ma non volle farci caso e lo negò a se stesso; mise quella spiacevole sensazione sopra il mucchio di emozioni che aveva accartocciato e buttato in un angolo. Iniziò a passeggiare lentamente e senza nessuna fretta, dopotutto nessuno gli correva dietro, il sole splendeva alto e voleva godersi quella bella giornata. Magari, se solo avesse potuto, senza pensieri. Camminò senza meta per lungo tempo, noncurante del rischio di perdere la strada – non ne aveva alcuna paura. Conosceva quella città come le sue tasche, e lì, il suo senso dell’orientamento era straordinariamente acuto.

Solo quando raggiunse uno stato di completo rilassamento, gli sembrò che ci fosse qualcosa a non andare. In lontananza, scorgeva un uomo camminare con passo svelto, che gli mise non poca insicurezza addosso. Un brivido gli percorse la schiena, e mise a fuoco la vista, ma lui era ancora troppo lontano per esser visto bene. Isaiah scosse la testa e alzò il polso per controllare l’orario sull’orologio: mancavano cinque minuti alle dieci.

Passo dopo passo, entrambi gli uomini si fecero più vicini, ed Isaiah iniziò ad avvertire un’irritante sensazione che scombussolava il suo stomaco, facendolo ritorcere su se stesso. Quando furono abbastanza vicini l’uno all’altro, osservò l’uomo con la coda dell’occhio per non farsi notare. Era alto, e aveva dei capelli leggermente mossi, d’un biondo sbiadito ed ingrigito ai lati. Sembrava li tenesse legati in un disordinato codino dietro la nuca, ed una ciocca ribelle era sfuggita alla presa dell’elastico. Qualche ruga solcava il suo volto, ai lati degli occhi e alla bocca, poi qualche piega sulla fronte. Aveva il fiato corto, sembrava avesse quasi esaurito tutte le sue forze. Il fisico era sfatto, forse sotto quella camicia a maniche lunghe nascondeva un po’ di pancia lasciata andare a se stessa. Gli venne spontaneo pensare quale razza di pazzo si sarebbe mai messo una camicia a maniche lunghe in pieno Luglio, ma cercò di non fare smorfie strane per nascondere i suoi pensieri. Quasi si vergognò per il solo fatto di star analizzando da capo a piedi un perfetto sconosciuto, ma ormai iniziare gli era quasi venuto spontaneo. Camminava parallelo a lui, nella sua direzione, e aveva le spalle molto larghe. Aveva la mascella spigolosa e ben marcata, il naso sembrava grande ma straordinariamente dritto, e le labbra erano secche e fini. Un pizzetto curato ornava il mento, mentre un velo di barba incolta fra il biondo e il grigiastro stonava di gran lunga con la cura del suo viso. Le sopracciglia non erano troppo folte, e nell’insieme, dava l’idea d’essere un uomo curato. Portava uno zaino che gli pendeva da una spalla, nero, e non era troppo pieno. S’avvicinarono, e Isaiah venne colto da un’improvvisa agitazione.

Le loro mani si avvicinarono, si sfiorarono appena l’una con l’altra, e scoppiò una piccola scintilla fra i due, che immerse i loro cuori in una meravigliosa nostalgia. Le dita sembrarono intrecciarsi per un attimo, ma fu solo una loro triste impressione. Non si guardarono neanche in faccia, semplicemente, si passarono accanto nella più totale indifferenza. S’erano incontrati pur non incontrandosi veramente, e la cosa aprì una grande ferita nel cuore di Lazar quando, pochi minuti dopo, capì il perché del suo battito così accelerato. Quell’ossessione per Isaiah diventata così tirannica era ormai al limite del possibile: l’aveva ritrovato e aveva avuto il coraggio di non accorgersene. Isaiah era già dall’altro lato della strada, sul marciapiede opposto, che camminava come se non si fosse accorto di niente.

Lazar si fermò. Si fermò, e in quel momento gli passò tutta la sua vita davanti gli occhi d’un azzurro velato – poi, sentì come se stesse bruciando vivo, e sentì la spontanea voglia di gridare, forte, gridare a tutti quanto fosse inutile la sua esistenza. Ma non lo fece, no, e cercò in tutti i modi di mantenere il controllo. Un grande freddo gli entrò nello stomaco, passando per le vene e poi fin dentro le ossa. Era lì, paralizzato in mezzo alla gente che gli passava di fianco dandogli brusche spallate, come se non esistesse. Isaiah aveva già svoltato l’angolo, ma non rincorrerlo non avrebbe mai portato a niente di buono. Ormai lui continuava la sua passeggiata senza meta, beato, come se nulla fosse mai successo. Ma li aveva incontrati anche lui, quei due occhi che un tempo gli mettevano tanta suggestione, e capì che il Lazar del quale era stato innamorato per vent’anni era scomparso. Ora era un altro uomo, un’altra persona totalmente diversa – l’avrebbe dovuto accettare, prima o poi.

Lazar, tuttavia, non fece mai in tempo a tornare a casa. Il suo cuore, troppo debole ed emozionato dal brutto accaduto, lo abbandonò a metà viaggio. Non soffrì, né si lamentò: vide gli occhi azzurri di suo figlio e il sorriso luminoso di sua moglie. Poi, i ricci rossi di Isaiah. Cadde a terra, ma nessuno fece in tempo a soccorrerlo per via del maledetto fato che, ahimè, aveva deciso la triste sorte dell’uomo. Era una vita impossibile, e finì in modo degno. Si rimpianse solo tante di quelle cose che nessuno riuscirebbe mai ad elencarle tutte, se non nel giro di venti Inverni. Isaiah non seppe mai niente, e rimase all’oscuro della morte del suo primo ed unico amore. Un amore iniziato, così come finito. Un amore durato un eterno attimo, un attimo che fece male come una spada dritta nel petto. Ma nessuno dei due avrebbe mai potuto deviare ciò che era già scritto; s’erano incontrati una volta, e se la sarebbero dovuta far bastare. Come due linee incidenti, che nel loro triste corso collidono, per poi separarsi e non rincontrarsi mai più.

 
   
 
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