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Autore: KaienPhantomhive    17/08/2016    3 recensioni
[NUOVA EDIZIONE - VERSO LA PUBBLICAZIONE
Dopo 7 anni di blocco dello scrittore, riprendo in mano finalmente questo progetto, con una revision e correzione integrale dei capitoli già pubblicati, oltre a proseguire la storia.
Indispensabili lettori e recensori, aiutatemi a trasportare questo sogno da EFP alle pagine di un libro!
Completa | Prosegue in: "EXARION - Parte II"]
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"Quando i Signori della Luna penetrarono per la prima volta il nostro cielo, ciò avvenne come un monito, portando con sé il Freddo Siderale. [...] E da quel giorno il Cielo fu d'Acciaio."
Anno 2050: dopo più di un secolo, l'Umanità imparerà ad affrontare nuovamente la sua più mortale nemesi; se stessa.
Zeitland, Natasha, Helena, Arya, Misha, Màrino, Aaron: qual'è il filo invisibile chiamato 'Exarion' che lega queste anime? Quale la vera natura e il segreto del contratto che li lega alle misteriose sWARd Machines, gigantesche entità bio-meccaniche dai poteri soprannaturali? Una storia di Amore e Odio, Ricordi e Desideri, conflitti, legami, alchemiche coincidenze e destini incrociati. La Storia dell'Amore Egoista e dell'ultima Guerra del Mondo.
Genere: Guerra, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'EXARION: Tales of the EgoSelfish sWARd Machine'
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9.

 

Macchinazioni

 

Ore 18:00.

 

Una raffica di proiettili. Un’altra. Spostamento a sinistra: ecco uno degli aerei nazisti. Pressione sul grilletto. Esploso in una cascata di codici binari. Spostamento a destra: ne arriva un secondo, in virata. Grilletto. Molti 0 e 1 che spruzzano come scintille.

 

Nat avvertì il suo battito cardiaco farsi più affannoso e sonoro e sentì il suo alito tornarle indietro, nel respiratore di plastica.

 

Un sibilo alle spalle. Quel manichino stilizzato dalle forme appena abbozzate che dovrebbe rappresentare Freya si volta alle spalle, preme ancora il grilletto del mitragliatore appositamente progettato e colpisce appena in tempo un UFO nemico a pochi metri da lei. Altro suono di un rapido sciamare. Prova a voltarsi in fretta, in quella realtà virtuale fatta di esili contorni azzurri e rosa, ma i due caccia avversari stanno già facendo fuoco. Freya si scompone in una cascata di cubi.

 

Una scarica elettrica pervase ogni fibra del corpo di Nat e la visuale dai colori chiari e asettici si disfece rapidamente, lasciando il posto a un reticolato verde su fondo nero, ronzante. Il monitor le proiettava quel disegno sugli occhi, infastidendola.

Di colpo, Nat si ritrovò ad avvertire il peso del casco HMD per le simulazioni che da ormai due ore le indolenziva il collo. Tornò anche a rabbrividire per la sensazione ambigua che le dava quella sostanza vischiosa, simile a gel, in cui il suo corpo era immerso. Era come galleggiare in una vasca di miele, liquido e leggero, che le permetteva di muoversi solo a rilento. E tutto questo doveva farlo alla cieca, con gli occhi sempre impegnati da terreni computerizzati o da quel maledetto schermo fisso nero.

“Esercitazione numero trentacinque terminata. Obiettivi abbattuti: cinque.” – le risuonò nel casco una voce anonima.

“Hai impiegato 4,2 secondi per mettere a tiro l’ultimo bersaglio.” – questa era la Asimov, fredda e calma come sempre – “Cerca di ridurre il tuo gap di puntamento di altri tre quarti di secondo.”

“È inutile, non ci riesco!” – ansimò la ragazza, nella mascherina che le permetteva di respirare in quella specie di muco – “È tutto il giorno che proviamo, non ce la faccio più.”

“Soltanto un’altra prova, per favore.” – concluse la donna – “Riprendiamo tutto dalla sequenza 66; mappa urbana numero 5.”

E il visore si accese di nuovo.

 

Nell’angusta saletta di osservazione, la dottoressa Asimov studiava alternativamente i computer di analisi e le vetrate frontali, oltre le quali una grottesca figura meccanica si agitava in una stanza bianca molto più grande. Una capsula simile a una crisalide conteneva il corpo di Nataša, immersa in uno strano gel verde, vestita solo di un corpetto aderente simile a un costume da bagno. Un pesante elmetto d’acciaio pendeva all’interno, coprendole metà viso; un respiratore a doppio tubo usciva direttamente dal casco e numerosi elettrodi e sensori le ricoprivano gambe, braccia e fianchi. Ai lati del sistema erano connesse quattro lunghe, esili e sgraziate strutture metalliche, che si agitavano, come un paio di gambe e braccia scheletriche. Infine, un cranio meccanico sproporzionatamente più piccolo era stato fissato sulla sommità, mentre una sacca sintetica nella giugulare si gonfiava ritmicamente, simulando il respiro della ragazza; due puntatori sottili come antenne si agitavano nelle orbite, imitando il movimento delle sue pupille.

“Il tasso di simbiosi sfiora il 36% e i livelli di stamina e pulsazioni sono positivi: tutto sommato i risultati sono promettenti, anche se ancora insufficienti.” – meditò la donna, ad alta voce.

“Lo stress psico-fisico l’ha molto provata, ma il tasso di focus medio oscilla tra il 48 e il 50%.” – disse l’operatore seduto al PC, senza smettere di digitare – “È come se si sforzasse di mantenere alta la concentrazione nonostante tutto.”

“È chiaro.” – annuì lei – “Per quanto quella ragazza detesti essere coinvolta in questa guerra sta prendendo la faccenda molto sul serio. Probabilmente lo fa solo per ripicca verso Novikov, ma se riusciamo a spingere sul suo lato psicologico potremmo ottenere un’ottima pilota.”

Guardò ancora i goffi movimenti di quell’enorme marionetta robotica: era chiaro che non avrebbe potuto migliorare ulteriormente, entro la giornata. Concluse: “Per oggi basta così, sospendi tutto.”

 

Le pareti sferiche della capsula si aprirono con un sibilo e il gel sincronico fuoriuscì denso e grumoso. Nat ne venne fuori a fatica, tossendo e cercando di ripulirsi dalla pelle e dai capelli la sostanza viscida e appiccicosa. Tre addetti tecnici le si avvicinarono per coprirla con dei teli termici, insieme alla Asimov: “Sei stata brava, Nataša. I tuoi punteggi sono aumentati di tre punti.”

“Ma non è abbastanza, lo so.” – replicò la ragazza, a denti stretti – “Se non riesco a migliorarmi finirò ammazzata.”

“Un passo alla volta. Impara a non chiedere troppo a te stessa.” – Nat apprezzò il tono comprensivo con cui, per una volta, la Asimov le si stava rivolgendo e si– “.”

Nat apprezzò il tono con cui, per una volta, la Asimov le si stava rivolgendo ma non poté fare a meno di sorprendersene, e ne fu ancora più stupita quando le fece la rara concessione di un accenno di sorriso e di un “Possiamo farcela.”

Se quello che aveva spinse la dottoressa a questo moto di comprensione fosse malinconia, rispetto o forse solo pietà, Nat non seppe dirlo.

 

*   *   *

 

Sala Macchine – Area Riparazioni; Base Lunare ‘Golgotha’.

 

Una folata di vapori che puzzavano di ferro investì le narici di Zeitland, non appena le spesse porte automatiche a tenuta stagna gli si aprirono davanti. Mosse qualche passo sulla predella metallica verso il gigante rosso che spicavva tra i fumi dei macchinari: Fafner attendeva silenzioso la prossima uscita, ancorato da una decina di blocchi di sicurezza come pareti. La piastra pettorale era sollevata, mostrando lo spazio d’alloggiamento per la Camera di Flamel e l’elmo era stato rimosso. Un cranio scheletrico ricoperto di pelle grigiastra da rettile mostrava i piccoli denti aguzzi; due occhietti azzurri ruotarono in direzione del pilota, seguendolo attentamente.

“Come procedono le riparazioni, Herr Doktor?” – domandò sollevando la voce oltre il rumore degli ingranaggi in movimento.

“Ah! Ach so!” – l’anziano e arrugginito ometto in camice chiazzato di grasso nero si rialzò dalla postazione su cui era chino, incrociando le braccia al petto – “Eccoti qui, Oberstleutenant Dietrich!”

“Dormito bene?” – chiese lui, con un finto sorriso.

“Molto divertente, Zeitland!” – borbottò il cyborg, con quella sua disfunzione del fonodizionario che gli conferiva sempre quel caratteristico accento sulla ‘r’ da Tedesco fine secolo – “Anche se fossi programmato per dormire non ne avrei il tempo, con tutto il lavoro che c’è qui!”

“Non mi dirà che non è in grado di rimetterlo in sesto, vero?”

“Che domanda inutile!” – sbuffò con sommo disappunto; uno dei pochissimi passatempi che Zeit si concedeva era far inviperire Zwei Stein. – “Certo che sono in grado, ich bin ein Wissenschaftler![1]Ma aggiustare Fafner richiederà tempo.”

“Quanto?”

“I danni all’armatura sono ingenti, ma nulla che non si possa riparare.” – Stein scuoteva la testa come se ci stesse riflettendo solo ora – “Tuttavia, l’autorigenerazione del braccio impiegherà non meno di due mesi.”

“Non si può accelerare?”

“Dannazione, nein! Questa non è una macchina come le altre! Questa…” – e puntò il dito contro il gigante rosso, con tutta l’indignazione che i suoi muscoli artificiali gli consentivano – “…è una sWARd Machine, Zeitland Dietrich!”

“E sarebbe preferibile farla rientrare tutta d’un pezzo.” – una voce femminile lo colse alle spalle.

Zeit ruotò gli occhi al cielo: “Helena.”

La solita ficcanaso impertinente. Eppure, era lei, dopo Herr Doktor, la coordinatrice del Progetto per lo studio e l’impiego delle Divinità Metalliche.

“Ben svegliato, Zeit. Oggi non passi a trovare quella noiosa Siren?” – chiese con il solito tono saccente di cui non poteva fare a meno.

“Non sono affari tuoi e comunque no.” – la trovava veramente fastidiosa – “Sono qui per Fafner.”

“Ah, già.” – si fermò a pochi centimetri da lui, che la superava nettamente in altezza – “Certo che è ridotto male, poverino. Il Secondo Soggetto Designato che riporta alla base la sua Unità in questo stato…non è proprio da te.”

“Hai ragione, sono una delusione.” – ribatté lui, con un falsissimo cruccio – “Ma tu sei più fortunata di me. Se dovessi perdere, nessuno se la prenderebbe più di tanto.”

 

Helena si sentì pietrificare. Di tutte le ingiurie che avrebbe potuto sputarle addosso, aveva scelto davvero la peggiore: insinuare addirittura di non essere in grado di ottenere alcun successo. Che stronzo. Però, ai suoi occhi, lui era così perfetto, così inarrivabile! Talmente tanto – talmente bello – che ogni cosa spiacevole sembrava perdere consistenza paragonata a lui. E lei si sentiva sempre così disarmata, davanti a tanta perfezione.

 

“È inutile che scarichi su di me i tuoi demeriti.” – la ragazza alzò il mento con aria di sfida – “La mia Machine non è pronta, quindi non azzardare pronostici!”

“Insomma, basta voi due!” – inveì Stein, separandoli e agitando nervosamente le mani – “Mi farete fondere i circuiti! Helena, tu piantala. E tu, Dietrich, vedi di farti bastare il tuo blackbird per le prossime uscite. Ora vieni con me, voglio mostrarti una cosa.”

 

Herr Doktor li scortò attraverso i Livelli adiacenti inferiori del Settore-2, oltrepassando l’area di produzione in serie dei velivoli militari, tra cui Zeitland riconobbe il Siegried: un blackbird dalle ampie ali ricurve e ripiegate verticalmente, come ali di un chirottero, mentre il collo era sollevato da un sistema a scorrimento, rivelando la cabina interna. Poggiava su carrelli d’atterraggio simili più ad artigli, che a ruote.

Superate le piattaforme di smistamento degli Haunebu, e raggiunta la sezione destinata all’industria pesante, si ritrovarono a fronteggiare l’immensa mole di un cannone di calibro spropositato, che svettava oltre gli eterni vapori e le scintille di Golgotha. Lungo oltre duecento metri, era sorretto da due equilibratori e da un sistema di sollevamento alti come palazzine e tempestato di enormi bulloni e rivetti. Gru e bracci meccanici si contorcevano dal soffitto, disponendo grandi piastre di ferro sulla copertura superiore della canna. Una ventina di uomini era abbarbicata sui pioli e sulle predelle disposte ovunque sulla sua struttura, rinforzando saldature o lanciandosi ordini attraverso la sala.

“Eccolo qua. Un cannone al cui confronto Gustav e Dora sono solo timide fantasie infantili!” – la voce di Herr Doktor, così ben programmata per esprimere costante tripudio verso il Reich, sovrastava appena il rumore del cantiere. – “L’Arma Finale che ci garantirà la vittoria! Il Gravitonenpartikelkonzentration-Superschwerekanonen[2]!”

“Un’arma in grado di uccidere anche gli Dèi…” – mormorò Zeitland, studiandolo – “…proprio come richiesto dal Kaiser.”

Il mustaccio bianco di Zwei Stein si incurvò in un sorrisetto: “Götterdämmerung.”

Poi, mentre procedevano per i ballatoi laterali, spostò l’attenzione verso la sezione della gigantesca camera di scoppio, dove la culatta aperta rivelava un reattore connesso a spessi tubi e cavi che pendevano fino al suolo.

“Gli studi condotti dal Terzo Reich non si fermavano al Motore a Vuoto Perpetuo degli Haunebu e al Cancello di Trasporto Materico. Anche la scoperta dei gravitoni è una loro eredità e ora che siamo finalmente riusciti a realizzare la camera di scoppio tensoriale potremmo finalmente renderle giustizia.”

“Un’arma del genere avrà bisogno di molta forza per essere manovrata.” – puntualizzò Dietrich – “A che punto è la creazione del Nidhoggr?”

“Sta venendo ultimato nel sito di costruzione nascosto nel Mare della Serenità.” – rispose Helena – “Data la distanza che lo separa del resto della base, siamo stati costretti a cannibalizzare componenti del Wichtig Wotan schiantatosi sul Lato Chiaro, compreso il motore degenerativo.”

“Il solo equipaggio umano non sarà sufficiente a riattivare il motore del Wotan, dopo oltre un secolo.” – continuò ancora Stein – “Quest’arma è stata pensata per essere utilizzata in combinazione con almeno due Machines.”

E nella mente di Zeit iniziarono a farsi largo fantasie di vittorie e di riscatto: “Dobbiamo accelerare il Risveglio delle altre Unità.”

 

*   *   *

 

Ore 21:35. Mosca, Russia.

 

“...no. Non lo farò. Non scendo a patti di questo tipo.”

Nel buio della stanza, rischiarato solo da una lampada al neon, Edvard Novikov era chino sulla scrivania in metallo. Se ne stava in piedi, troppo teso per sedersi sulla seggiola a rotelle che aveva scansato di lato, e reggeva in mano il telefono cordless a linea criptata. Nonostante sapesse che le parenti in cemento armato di quel posto erano state insonorizzate, non riusciva a combattere l’istinto di trattenere il più possibile la voce.

“Non ha molte alternative.” – dal telefono venne la vece di uomo, sfrigolante e distorta, come stesse chiamando da un luogo molto lontano – “E le altre sono tutte peggiori.”

“Ma in un centro abitato?!” – Edvard strinse i denti e assottigliò la voce ancora di più, se possibile – “No, non posso farlo. I danni sarebbero enormi e io…”

“Perderebbe credibilità.” – l’uomo al telefono non sembrava sorpreso – “E quella Machine di certo verrebbe sigillata dalle Nazioni Unite.”

“E crede di privarmi così della mia miglior difesa?” –Novikov azzardò un tono di sfida – “Per mettermi con le spalle al muro di mia volontà?!”

“Sappiamo entrambi che la politica non cambierà l’esito di questa guerra.”

Breve pausa.

“No, infatti. È per via dei ragazzi, ovvio.” – Novikov si sentì improvvisamente seccare la bocca.

“Uno, in particolare.” – precisò la voce – “Sistemato lui tutto sarà concluso. L’Umanità sarà salva.”

“Ma per quel giorno…dovremmo aver concluso il Progetto, giusto?”

“Esatto. Se la sua Unità verrà presa in custodia gli studi procederanno molto più in fretta, ma una cessione volontaria insospettirebbe chiunque. Quando le conoscenze saranno adeguate anche l’Arma Risolutiva potrà essere conclusa.”

Ancora i sospiri a capo chino del Presidente.

“Faccia come le dico e avrà ciò che vuole.” – e l’altro chiuse la conversazione.

Novikov riagganciò il telefono nell’alloggiamento scavato nella scrivania e girò i tacchi. Attraversò il miniappartamento, tra computer, pannelli domotici e scaffalature cariche di cibi a lunga conservazione. Raggiunse la porta blindata, digitò il codice e l’aprì, salì in fretta i pochi gradini di cemento nudo subito dopo e spinse una sezione quadrata del basso soffitto che aveva sulla testa. La botola sul pavimento della stanza di disimpegno si sollevò, l’uomo ne emerse e se la richiuse dietro, quindi uscì nell’aria della sera. Attraversò il breve tratto di giardino che separava la finta dépendance dall’ingresso della residenza Novikov e rincasò.

 

Poco dopo, Edvard Novikov si abbandonava sul letto matrimoniale, sul quale trovò ad attenderlo sua moglie, nel suo pigiama rosa salmone, con un libro in mano alquanto denso. Novikov si lasciò andare a un sospiro di sollievo mentre si infilava sotto il lenzuolo, inforcava gli occhiali da presbite che aveva imparato ad accettare con l’età, e accendeva il tablet sul comodino.

“Tutto bene?” – chiese Arina, con lo stesso trasporto di un lettore vocale e senza staccare gli occhi dal suo libro.

“Ora che sono a letto, sì.”

“Di che si trattava?”

“Mah, niente di che.” – nemmeno lui traboccava d’entusiasmo, mentre si accingeva a scorrere le ultime notizie di finanza internazionale – “Le solite rotture di lavoro.”

“Certo.” – quella parola suonò venata di indiscutibile sarcasmo – “Niente che posso capire.”

Edvard si staccò solo un po’ dal telefono, guardandola da sopra l’asticella degli occhiali: “Non ho detto questo.”

“Non c’è bisogno che lo dici.” – sua moglie continuava a fingere di leggere – “In fondo io sono brava solo a fare da cena e salutare in pubblico.”

“Ma che stai dic-?” – a quel punto Novikov aveva lasciato andare lo smartsquare, mentre il sesto senso maritale iniziava ad avvertirlo che la serata sarebbe andata in bianco – “Ora qual è il problema?”

“Non lo so, dimmelo tu. Non mi dici mai nulla.”

“Ma…ma non è vero!” – anche gli occhiali iniziavano a pesare troppo, sul naso di Edvard – “Ti racconto tutto, ci diciamo ogni cosa!”

Ogni cosa?” – ripeté lei, fissandolo negli occhi.

“Tutte quelle che contano.” – e lui sostenne il suo sguardo, duramente.

“Bene.” – anche lei decise che posare il libro sarebbe stato più comodo – “Allora dimmi di cosa parlavi al telefono.”

Lui continuò a tenerle gli occhi ancorati addosso, ma non per audacia. Lo aveva interdetto, quella domanda, quasi come se un piccolo cortocircuito fosse avvenuto dentro di lui e non potesse muovere un solo muscolo per qualche istante. Lei annuì molto lentamente con la testa, con un ghigno amaro ad incresparle la bocca.

“Perché questo terzo grado, adesso?” – le chiese, sconfitto.

“Perché sento di non sapere più niente, Edvard.” – la voce le si era fatta più debole, gli occhi struccati più gonfi – “Sento che non ti conosco più. L’uomo che ho sposato, che ha pianto davanti ai risultati dell’ecografia, non avrebbe mai anche solo pensato di poter decidere della vita di sua figlia.”

L’uomo si tirò a sedere sul letto, facendo appello a tutte le poche forze e autocontrollo che gli erano rimasti quella sera: “Ancora questa storia? Arina, ti prego! È già abbastanza difficile così. Te l’ho detto e ripetuto, te l’ho giurato sulla mia vita. Devi. Fidarti. Di me. Andrà tutto bene. Io amo Nat, amo Luka…e amo te!”

E cercò i suoi capelli, sfiorandoli: “Capito? E tu, invece?”

Lei fissò un punto nel vuoto, tra le sue gambe coperte dalle lenzuola, e con la voce impastata da lacrime trattenute sfoggiò la più diplomatica delle risposte, con quel tono artefatto che la vita da first lady russa le aveva insegnato tanto bene: “Ma certo che ti amo.”

Lui fece per baciarla, sfiorandole con le dita la mascella, ma lei si retrasse.

“No.” – era tornata a non guardarlo – “Sono mesi che dici che non sei in vena, ora non usarlo per farmi stare zitta. Buona notte, Edvard.”

E si coricò, dandogli le spalle. Lui fece lo stesso e il sonno ebbe pietà di loro.

 

 

 

 

[1] Dal Tedesco; lett.: “io sono uno scienziato!”

[2] Dal Tedesco; lett. “Cannone super pesante a concetrazione particellare gravitonica.”

   
 
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