Anime & Manga > Kuroko no Basket
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Autore: formerly_known_as_A    17/08/2016    1 recensioni
Daiki sta tornando a casa di sera quando incontra qualcuno che potrebbe costringerlo a fargli affrontare la realtà in modo molto diverso.
“Lo sai, piccola piattola, non tutti si fidanzano per avere una seconda mamma.” gli fece notare, cercando di non pensare troppo ai problemi morali di quel tipo di ragionamento.
Ma il bambino aveva sette anni, cosa poteva saperne lui di tutte le implicazioni dell'essere fidanzati?
“E allora per cosa?” chiese appunto, incuriosito.
Perché le persone stavano insieme?
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Daiki Aomine, Ryouta Kise
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Daiki si stava quasi addormentando.

Colpa della palestra troppo lontana dall'appartamento in cui si era stabilito, del ritardo accumulato nel festeggiare il compleanno di un compagno di squadra -a lui non erano mai importate davvero queste cose, ce l'avevano trascinato- e di quella piacevole abitudine di finire le serate addosso al proprio coinquilino, dopo una doccia destinata a ripetersi subito dopo.

Ryouta non smetteva di lamentarsi, la mattina successiva, delle occhiaie e le possibili rughe che avrebbero compromesso il suo lavoro. Lui lo fissava nascondendo il proprio divertimento nel cuscino, sprofondando del tutto quando sentiva il sonno tornare all'attacco.

Era una bella routine, quella, anche se non l'avrebbe mai ammesso.

Accelerò il passo senza rendersene conto, il borsone con i vestiti per l'allenamento su una spalla, in una posa noncurante decisamente curata. Si bloccò, guardandosi i piedi come per accusarli di una tremenda infrazione, chiedendosi come quel pensiero alla propria abitudine serale potesse spingerlo verso casa più rapidamente.

"È il sesso." si giustificò, a bassa voce, pur essendo certo di essere da solo, in quella via laterale. Chiuse gli occhi, fissando il cielo scuro con una smorfia. Avrebbe voluto godersi il momento di solitudine e camminare tranquillamente fino a casa, ignorando la propria testa che tentava di causargli il senso di colpa per il compagno abbandonato a casa con la cena.

Aveva imparato ad apprezzare i momenti di calma, seppur noiosi le prime volte. Per forza di cose si era ritrovato da solo molto più spesso di quanto era abituato e lui, semplicemente, vi si era adattato.

Era una colpa volersi allontanare dal continuo parlare di Ryouta?

"Fratellone, pensi alla tua fidanzata?"

Dall'alto del proprio metro e novantadue, Daiki fece uno scatto in avanti, voltandosi poi di centoottanta gradi per guardare chi avesse parlato. Non che avesse avuto paura, ma a mezzanotte in un vicolo buio...

C'era un bambino. Un bambino che non doveva neppure avere sette anni, con la sua divisa in miniatura e la cartella sulle spalle, i capelli neri un po' troppo lunghi sugli occhi scuri che lo fissavano dal basso con un'espressione così seria da sembrare buffa.

"Dev'essere bellissima, perché sospiravi un sacco." aggiunse il piccolo, non distogliendo un momento lo sguardo dall'adulto.

Uno: cosa ci faceva un bambino così piccolo fuori a quell'ora? Due: perché non si faceva gli affari suoi?

Si voltò di nuovo, proseguendo per la propria strada e sperando che qualcun altro lo trovasse. Non era il tipo da rassicurare i bambini. Quello era Ryouta. La sua ragazza.

Sghignazzò senza volere. Anche a voler far conversazione, non avrebbe potuto spiegare la propria situazione al bambino.

"Fratellone, perché sei così abbronzato?" chiese il bambino, aggrappandosi ai suoi pantaloni con una mano. Era fatta. Non se lo sarebbe più staccato di dosso.

"Non sono abbronzato." borbottò, cercando di accelerare il passo per seminarlo, tanto che il bambino inciampò e cadde in avanti. I riflessi di Daiki gli impedirono di sbattere per terra, afferrandolo per la cartella e sollevandolo. Non ci teneva a farlo piangere e passare per un maniaco, per quanto fosse irritato dalla sua presenza.

"Ma sei marrone come la torta al cioccolato della mia mamma!" commentò il piccolo ingrato. Per un momento meditò di lanciarlo dentro qualche cortile, ma desistette.

Un crimine avrebbe compromesso di sicuro la sua carriera. Inoltre non ci teneva affatto a sentire Ryouta lamentarsi e piangere ad ogni visita al parlatorio, vestito come una vedova.

L'immagine gli fece sfuggire una risatina, che il bambino intercettò immediatamente.

"Anche io voglio essere grande e sposarmi, fratellone!" esclamò, ben lontano dal capire effettivamente perché ridesse. Daiki lo sollevò e lo guardò in modo severo.

“La tua fidanzata te le fa le torte al cioccolato?” chiese il bambino, ignorando completamente il pericolo immediato in cui si trovava.

Daiki cercò di non pensare a Ryouta intento a preparare una torta al cioccolato, con tanto di grembiule rosa, sguardo sognante e guance rosse mentre gli presentava una cosa informe e bruciacchiata -l'immaginazione poteva arrivare solo fino ad un certo punto- sperando l'accettasse, in un tipico esempio di karma che si vendicava per tutte le volte che alle medie il modello era stato sommerso da dolci per San Valentino.

Sghignazzò, ma i tacchetti del bambino sul cemento lo distrassero immediatamente.

“Lo sai, piccola piattola, non tutti si fidanzano per avere una seconda mamma.” gli fece notare, cercando di non pensare troppo ai problemi morali di quel tipo di ragionamento.

Ma il bambino aveva sette anni, cosa poteva saperne lui di tutte le implicazioni dell'essere fidanzati?

“E allora per cosa?” chiese appunto, incuriosito.

Lo lasciò andare, visto che ormai penzolava a mezzo metro da terra da un bel po' e il mostro pensò bene di imbronciarsi, invece di esserne sollevato.

Non aveva proprio nessun senso del pericolo.

Rimase a fissarlo con occhi immensi, così fissi da ricordargli un po' Tetsu -un po' troppo, la somiglianza lo metteva a disagio- e Daiki sbuffò, ficcando le mani in tasca.

"Non ce l'hai una casa?" domandò, irritato. Sentiva il bisogno di arrivare a casa e lanciarsi nel futon a faccia in giù, mandando al diavolo la routine, per quanto piacevole.

“La mia casa è bellissima!” esclamò il bambino, facendo finalmente qualche passo verso casa. “Però non mi hai ancora detto perché le persone si fidanzano!” aggiunse, con un sorriso fin troppo innocente. Gli tolse completamente la voglia di traumatizzarlo parlando di sesso.

Perché le persone stavano insieme?

Intorno a lui vedeva solo coppie formate da un povero martire e la persona insopportabile con cui stavano, certo non poteva essere solo per sesso?

Di certo non era il motivo per cui Midorima aveva un ragazzo. Almeno così credeva. Sperava.
Non si sarebbe messo a pensare a Midorima e sesso nella stessa frase. Mai. Nossignore.

Ravanelli al vapore. Quello sì che era un pensiero molto più invitante. E odiava i ravanelli.

“Fratellone?” lo chiamò il bambino, riappendendosi ai suoi pantaloni.

Ryouta. Ryouta, Ryouta, Ryouta.

Le giornate non erano del tutto insopportabili. Certo, Ryouta era rumoroso e probabilmente avrebbero fatto meglio a scegliere un appartamento con due bagni, perché impiegava la bellezza di tre quarti d'ora ogni mattina a prepararsi -entrando e uscendo dalla stanza identico a prima, tra l'altro- lasciandolo fuori come se non l'avesse mai visto appena sveglio, ma...

C'erano giornate in cui entrambi erano liberi e Ryouta, nonostante vi avesse rinunciato da tempo, gli chiedeva di giocare a basket con lo stesso entusiasmo di quando avevano quattordici anni.

C'era il modo in cui se ne stava in silenzio quando era troppo stanco o depresso per parlare, dopo che il lavoro era andato male o qualche contratto a cui teneva era saltato, accoccolato al suo fianco come se tentasse di tenere meno spazio possibile, seduti entrambi sul divano a guardare qualcosa di stupido in televisione.

E se davvero si sforzava, c'era il modo in cui gli occhi di Ryouta si illuminavano quando andava a trovarlo sul set di un nuovo drama di cui non aveva ben capito la trama e quel buffo non riuscire a smettere di muovere le mani quando gli parlava delle scene che aveva appena girato, prima che la sua manager lo trascinasse di nuovo a recitare.

“Le persone stanno insieme quando hanno qualcosa in comune, da condividere. Credo. E quando non si annoiano l'uno dell'altro. E non è male nemmeno stare in silenzio ogni tanto a non fare niente di speciale.” cercò di spiegare, anche se non era troppo chiaro nemmeno a lui.

Era come se, improvvisamente, avesse realizzato che si stava prendendo in giro da troppo tempo.

Non sarebbe mai andato a vivere con qualcuno di insopportabile, che non aveva nulla in comune con lui o con cui non andava d'accordo. Non era stupido, eppure fino ad allora aveva finto di esserlo.

Uno stupido che viveva con un'insopportabile inquilino con cui faceva solo sesso. Uno stupido che giocava a basket in una squadra che non lo interessava.

Non era un po' troppo vecchio per questo genere di bugia?

Scosse la testa, sentendo nuovamente la presa del bambino sul pantalone.

“Gli adulti sono strani.” sentenziò e Daiki ridacchiò, scuotendo la testa. Aveva davvero provato a spiegare qualcosa di tanto complicato ad un bambino delle elementari?

“Alcuni si fidanzano con persone che un po' ricordano delle mamme preoccupate, però.” aggiunse, spingendo appena il bambino in avanti per fargli accelerare il passo.

La suoneria dei messaggi del telefono risuonò nella via vuota come se qualcuno avesse letto nei suoi pensieri, ma decise di ignorarla. Il commissariato di polizia non era lontano, la casa era poco distante da esso, avrebbe portato la piccola piattola dove non poteva seguirlo e non ci sarebbe stato bisogno di avvertire.

"La mamma sarà triste perché non riesco a tornare." mormorò il bambino, rattristato, abbassando lo sguardo.

Il giocatore di basket si chinò appena per posargli la mano sul casco giallo, facendoglielo cadere sugli occhi. Non aveva idea di come trattare un bambino triste e risolse superandolo e sperando lo seguisse senza fare ulteriori domande filosofiche.

Neppure un chilometro. Poteva farcela.

Cominciò a camminare, sentendo le scarpette del bambino seguirlo con un ritmo regolare. Peccato che il silenzio non fosse destinato a durare più di un minuto.

"La mia mamma dice sempre che se mangio tanto diventerò altissimo! Tu cos'hai mangiato? Quando piove senti tutte le gocce?" chiese a raffica il bambino, tornando ad aggrapparsi ai suoi pantaloni.

Daiki lo ignorò, chiedendosi se ci fosse la possibilità che quelle stupidaggini fossero ereditarie e che quello fosse un figlio segreto di Ryouta.

Il telefono suonò di nuovo: un nuovo messaggio. Non era nella natura del suo coinquilino quella di non telefonare e non tentare di invadere i suoi spazi, quindi, per un momento, pensò che non fosse lui e che potesse essere davvero importante.

Frugò in tasca, camminando e guardò lo schermo del telefono. Sette nuovi messaggi, nessuna chiamata, un solo mittente.

Quattro messaggi erano quanto di più melenso esistesse sul pianeta, inviati durante l'allenamento. Gli altri chiedevano in modo più serio della cena e di dare notizie.

Ryouta serio era un avvenimento piuttosto raro e gli ultimi messaggi stridevano con i soliti sentimentalismi e le mille faccine con cui farciva i suoi messaggi inutili. Era davvero così preoccupato? In fondo era passato l'orario per l'ultimo treno...

"Anche io ho un telefono!" esclamò il bambino, estraendo dalla tasca un giocattolo che prese a suonare in tredici modi diversi nel giro di un minuto.

Glielo rinfilò in tasca alla velocità della luce, chiedendosi che cosa avesse fatto di male per meritarsi una punizione del genere.

"Fratellone, la tua ragazza è triste perché è tardi?" chiese il piccolo, di nuovo improvvisamente malinconico. Quel continuo passare da un clima allegro ad uno troppo triste per essere adatto ad un bambino tanto piccolo gli fece storcere le labbra. Certo, era una rottura, ma non poteva comportarsi troppo male con lui, in fondo doveva essere spaventato e forse parlare gli avrebbe fatto bene?

Fissò la strada, corrucciandosi.

"Credo. Non so, piagnucola sempre un sacco. Tu piagnucoli molto?" domandò, dando un calcio ad un sasso e colpendo un palo della luce.

"Io n-non piango!" sbottò il bambino, tirando la stoffa dei pantaloni con forza. "Sono grande e i grandi non piangono!"

"Vaglielo a spiegare." borbottò, con un mezzo ghigno che un po' stonava in mezzo a quell'espressione così lontana dal divertimento. Il bambino non sentì, ma allentò un po' la presa.

"La mia mamma dice che faccio i capricci ed un po' è vero... Ma quando arrivo a casa chiedo scusa e tutto torna a posto! La tua ragazza ti chiede scusa?" domandò, pescando una caramella dalla tasca e mettendosela in bocca.

Se... gli chiedeva scusa? Certo, il suo piagnucolare e stargli addosso lo irritava, ma... non era una ragione per chiedere scusa, non era un capriccio. Erano cose diverse, faceva parte del suo carattere e ormai l'aveva accettato. Tutte le volte in cui Ryouta cercava di nascondersi nel suo petto per lamentarsi di aver perso questa o quella ricorrenza o restava sveglio quando arrivava in ritardo a casa, lamentandosi poi per il sonno, non erano motivi per cui chiedere scusa.

Erano -odiava ammetterlo- gesti teneri che facevano parte della loro quotidianità, come coppia. Ecco, l'aveva pensato. Di nuovo.

"Ieri pomeriggio ho fatto i capricci, volevo un nuovo robot. Stamattina mi ha portato a scuola papà e mi sono sentito triste." raccontò il bambino, con un tono così demoralizzato da fargli abbassare la testa.

Che cos'era quello? Si sentì a disagio, per un lungo momento, come se quella tristezza non fosse quella di un bambino che si sentiva in colpa, ma qualcosa di più grande, di più pesante, più adatto ad un adulto o un vecchio con la schiena piegata dai rimpianti.

Rabbrividì, inconsapevole della sensazione precisa che l'avesse portato a quella reazione, ma ormai vicino al commissariato.

"Fratellone... io non posso seguirti lì." mormorò il bambino, lasciandogli i pantaloni. Chissà perché non aveva alcun dubbio che ci sarebbero stati altri problemi, prima di arrivare a destinazione. Sbuffò, voltandosi verso il marmocchio.

Ma quello era sparito.

Si guardò intorno, tornò persino indietro alla prima stradina verso sinistra che si inoltrava tra altre case, ma non trovò nulla.

"Hai incontrato Hikaru."

Si voltò di scatto, scontrandosi con un poliziotto. Barcollò appena, il più del danno ricevuto dalla spalla dell'uomo, decisamente più basso di lui. Si scusò a bassa voce, cercando di defilarsi rapidamente.

“Hikaru?”

Ecco, non sarebbe mai più tornato a casa, ma la sensazione di freddo che l'aveva accompagnato per quel chilometro scarso che l'aveva separato dalla stazione di polizia non se n'era andata e, sul serio, il bambino doveva essere un teppista rinomato, se anche i poliziotti lo conoscevano.

Palpò le tasche alla ricerca del portafogli e del cellulare, sperando che non gli avesse rubato nulla. Il che era stupido, visto che non arrivava al suo ginocchio, ma non si poteva mai sapere.

“Hikaru è il fantasma del quartiere.”

Il gelo che sentiva nelle ossa fu sostituito da una stretta allo stomaco che lo fece barcollare decisamente di più dello scontro precedente.

Lui non credeva ai fantasmi. Era più probabile che si fosse addormentato a metà strada, visto quanto aveva sonno e che avesse percorso la casa verso casa da sonnambulo, immaginando la piattola nana e i propri personali rimpianti.

Anche perché era mattina.

“Cosa...?!”

Era mattina presto, il cielo che già era passato dal rosa al tenue azzurro che segue l'alba, gli uccellini, tutte quelle cose fastidiose che annunciavano un nuovo giorno erano lì, sotto gli occhi di Daiki.

Di preciso, quanto aveva bevuto, al compleanno? Ricordava due bicchieri scarsi di una sottomarca della Coca-Cola, possibile che qualcuno potesse averglielo drogato?

Il poliziotto lo stava osservando con interesse, né divertito né preoccupato, probabilmente abituato ai soliti alcolizzati del... mercoledì notte? No, niente stava andando per il verso giusto.

“Hikaru è morto due anni fa al ritorno da scuola. Una brutta storia, fu ritrovato impigliato a dei rami in riva al fiume, l'indagine non portò a nulla, a parte disgregare la famiglia. Non è cattivo, ma tende a far fare alle sue vittime la strada più lunga per tornare a casa, sarà meglio che tu avverta casa.” spiegò, dandogli una pacca sulla schiena. Evidentemente doveva avere un'espressione ben più stupita di quanto volesse far trapelare.

Aveva male alle gambe, in effetti e il bisogno di essere a casa era più forte che mai.

Ryouta.

Si congedò rapidamente dal poliziotto, accelerando il passo mentre cercava il cellulare in tasca e sbloccava lo schermo.

Aveva un solo messaggio non letto, ma, aprendolo, invece di essere sollevato che il suo coinquilino non avesse chiamato polizia, il gelo che l'aveva accompagnato per tutta la notte -non riusciva a crederci, doveva esserci un'altra spiegazione- tornò a penetrargli fin nelle ossa.

I messaggi inviati da Ryouta erano molti di più, perché Daiki aveva risposto, da mezzanotte e quarantasette alle quattro e trentadue.


Daiki, qualunque cosa sia successa, dovunque tu sia, dimmi solo che stai bene.


Mi dispiace.


Grazie al cielo! Stai bene? Fa un po' strano leggere le tue scuse, Aominecchi!


Mi dispiace.


Aominecchi?


Mi dispiace. Non posso più tornare a casa. Scusami.


Hai perso l'ultimo treno?


Non sono stato buono con te. Non posso più tornare a casa. Mi dispiace.


Ok, a volte sei veramente una spina nel fianco, per non dire altro, però non esagerare.


Mi dispiace.


Aominecchi, se torni a casa puoi dirmi che ti dispiace anche in ginocchio, lo sai?


Mi dispiace.


Ho appena sentito il tuo capitano, ti ha mandato a casa due ore fa. Cosa sta succedendo?


Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace.


Daiki? Rispondi al telefono!


Non aveva mandato quei messaggi. Non aveva fatto nemmeno i chilometri che l'avevano fatto arrivare a casa con sei ore di ritardo e gli bruciavano i polpacci, eppure con un terrore inspiegabile coprì gli ultimi metri che lo separavano da casa di corsa.

Fece le scale con la stessa fretta e ignorò il tremore alle mani mentre apriva la porta di casa.

Mollò la borsa e le scarpe all'ingresso, affannato. Non era l'incontro con qualcosa di sovrannaturale a terrorizzarlo. Non era quello che gli ghiacciava le vene.

Era qualcosa di più profondo e inspiegabile, che aveva origine laddove, nascoste, erano tutte le proprie paure.

La paura di trovare una casa vuota, al ritorno.

E allora fingere che non importa, ignorare l'istinto che lo portava a circondare con le braccia Ryouta quando cercava in silenzio il suo supporto, chiudere gli occhi quando era il primo a svegliarsi e le ciglia di Ryouta erano lunghissime, non ridere quando il suo ragazzo, un rinomato modello, si svegliava con le pieghe del cuscino sulla guancia e, in fondo, era un essere umano come gli altri.

Ignorare la stretta al cuore nel sentire la voce rotta di Ryouta provenire dalla camera, stanca, segnata da una disfatta che nemmeno lui poteva accettare.

“...hai ragione, Kurokocchi. Magari si è solo addormentato da qualche parte. Però...”

“Sono a casa!”

Non era riuscito a non gridare, Daiki. La fretta di soffocare quel tono troppo grave, così poco adatto a Ryouta.

Davanti alla porta socchiusa della camera esitò solo un momento. Non sapeva cosa avrebbe detto o come avrebbe reagito una volta di fronte a Ryouta, se il terrore sarebbe tornato e con esso il bisogno di fingere non gli importasse.

“Daiki?”

La voce rotta di Ryouta era vicina, ora, appena dietro la porta. Era già così diversa da quando l'aveva sentita entrando, piena di una speranza che sembrava completamente persa, di un'attesa che per Ryouta non sembrava esaurirsi mai, quando si trattava di Daiki.

Era un terrore diverso, ma per natura simile al suo.

E fu tutto quello che servì per spingere la porta e fare un passo avanti.



Note dell'autrice

Sono letteralmente anni che non scrivo in questo fandom, ma qualche mese fa sono tornata a fissarmi con la serie e ho deciso di riprendere alcune trame abbandonate... e ovviamente ho scelto quella più strana per cominciare!

Mi ricordo che quando ho cominciato a impostare la storia avevo un'idea molto diversa di Aomine e della coppia in generale (abbastanza diversa dal carattere che hanno effettivamente nella serie), rileggere gli appunti mi ha sorpresa moltissimo.

Era un po' che volevo cimentarmi con una storia di fantasmi tradizionale e sono abbastanza soddisfatta del risultato, però lascio tutti i commenti a voi!

   
 
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