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Autore: Valpur    21/08/2016    6 recensioni
Quando, per accontentare una madre apprensiva, Fedra aveva accettato di partecipare a quel dannato Conclave non aveva messo in conto molte cose.
Per esempio di riuscire a evitare il maledetto cugino Frederick.
O di scoprire che le toccava salvare il mondo.
Da imbarazzo dei Trevelyan a Inquisitore il passo è più breve di quanto la goffa, testarda Fedra potesse ipotizzare. E lo percorrerà - non senza qualche bestemmia - con dei compagni inaspettati che le cambieranno la vita.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Inquisitore, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Teste. Un oceano di teste ornate di piume, cappelli e acconciature incipriate.

E sudore. Torrenti di profumi costosi che non bastavano a nascondere il fetore di centinaia – no, migliaia – di corpi premuti l'uno contro l'altro, l'odore di sudore. Quello stesso sudore che, in quel preciso istante, rotolava giù per la schiena di Fedra e andava a sparire tra le pieghe di velluto verde dell'abito. Con un grugnito neanche tanto sommesso si passò la manica sul viso accaldato, ringraziando mentalmente la propria cocciutaggine nel rifiutare qualsivoglia forma di trucco.
La mandria di fedeli, nobili, ficcanaso e semplici imbucati la schiacciava da ogni lato; lei stessa non sapeva bene in quale categoria infilarsi – di certo non la prima, la seconda le era inevitabile e le ultime due piuttosto calzanti. Anche “vittima sacrificale” o “figlia degenere in cerca di un modo per far tacere una madre apprensiva” erano adatte.
Il tizio di fronte a lei, un vasto gentiluomo della stazza di un druffalo con una piuma rossa ricurva che arrivava a sfiorarle il naso, si mosse sul posto e le pestò il piede. Era la sesta volta nell'ultima ora.
“Ma per quella puttana di... mh”. Si morse la lingua abbastanza in fretta da non trasformare la maleducazione in blasfemia e cercò di indietreggiare contro il muro cui era già appoggiata. Le pietre lisce le sfregarono tra le scapole e Fedra roteò gli occhi; nel far ciò lo sguardo superò la calca e si perse lontano, tra le lance di luce colorata che filtravano oltre i rosoni del Tempio delle Sacre Ceneri e fino alle alte finestre che incorniciavano brandelli di cielo blu, nuvole e sprazzi di neve tra gli alberi. Una fitta di nostalgia le ricordò che in quel preciso istante sarebbe potuta essere là fuori, a cavalcare nella foresta senza alcun pensiero se non il freddo che le accendeva le guance e il desiderio di riempirsi la pancia di vino caldo speziato in taverna al suo ritorno. Ovvero il genere di cose che faceva tremolare il labbro di sua madre, avvampare le orecchie di suo padre e che sua sorella Evelyn accoglieva con la faccia di chi abbia appena mangiato un caco acerbo.
Fedra si tormentò la lunga treccia rossa – quell'acuto stratagemma di sua madre per nascondere la rasatura laterale che tanto la faceva inorridire – e cercò di capire a che punto del suo cammino fosse il sole.
Da quanto era lì? Ore che le sembravano giorni, senza niente da bere o niente da fare che non fosse aspettare e sentirsi fuori luogo. Quest'ultima, in effetti, era un'attività cui era perfettamente abituata. Tutta quella gente che la urtava e la prendeva a gomitate indifferenti era a proprio agio, entusiasta ed emozionata di essere lì, in quel tempio dove si sarebbe fatta la storia. Finalmente la pace tra maghi e templari, dicevano tutti, e giù di sermoni su sviluppi radiosi e su come la Divina Justinia fosse così vicina alla volontà del Creatore da poter plasmare un futuro felice per tutti loro.
Bello. Interessante. Per loro, forse, perché Fedra non riusciva a provare altro che inquietudine e noia. A essere onesti, e tutto di lei si poteva dire tranne che non lo fosse (brutalmente onesta, secondo suo padre; incapace di tenere la bocca chiusa secondo sua madre. Una cafona inqualificabile secondo un po' tutto il resto del mondo), partecipare a quel Conclave era in cima alla lista delle attività meno desiderabili che le venissero in mente, battendo la pulizia delle latrine dell'intero palazzo dei Trevelyan, l'estrazione da sobria di almeno quattro molari e una serata di chiacchiere mondane con le amiche di famiglia.
Si agitò contro la parete cercando invano una posizione più comoda e riuscì solo a sgualcire quel maledetto vestito che le tirava sui fianchi.
Non aveva avuto scelta, e non solo per quanto riguardava l'abbigliamento purtroppo.
“Fedra, amore mio, ti prego. Solo questa volta, ti scongiuro, fai questo regalo alla tua povera vecchia mamma!”
“Madre, povertà e vecchiaia non sono proprio le tue caratteristiche principali”.
“Ma ti chiedo così poco!”
“No, non ti rendi conto di cosa mi stai chiedendo, invece! È demenziale. Semplicemente demenziale”.
“Cosa? Scongiurarti – per una volta, una sola volta nella tua vita – di comportarti da Trevelyan?” I grandi occhi azzurri in quel viso di porcellana che l'età aveva solo addolcito erano diventati ancora più enormi e il tono si era fatto più acuto, tra il lacrimevole e il furibondo. Una garanzia di guai.
Fedra aveva lasciato cadere le braccia e peggiorato la postura, cosa che sua madre non aveva mancato di correggere mettendole una piccola, spietata mano sulla schiena.
“Si tratta di un'occasione di importanza vitale non solo per te e per tutta la famiglia. Potresti conoscere le persone giuste e... Il Conclave per te non sarà niente di così terribile, te lo garantisco, una mera formalità che...”
“Deciditi: o è importante o non lo è”.
“Oh, bambina mia, ma hai così bisogno di fare un debutto come si deve in società!”
Non che avesse tutti i torti, secondo gli standard di famiglia: Evelyn aveva quattro anni meno di lei ed era la stella di tutti i ricevimenti. Bella forza, sembrava una bambolina, bionda e con gli occhi da halla, tutti ciglia e liquide profondità di nulla cosmico. Nasino all'insù, colorito d'avorio... non come lei, Fedra dai capelli color carota e la faccia inondata di lentiggini da mandriana, con il naso severo di suo padre e le orecchie a sventola. Fedra che non sapeva tenere la schiena dritta e che aveva le spalle troppo larghe per qualsiasi moda passasse per i salotti più in voga.
“Madre, se è così importante questo Conclave perché non ci mandi Evelyn? Lei almeno farebbe bella figura”.
Ecco... sai, c'è il cugino Frederick che non è ancora sposato. Chissà che...”
“Madre, no. Non mi interessa nessun cugino Frederick, grazie”.
“Ma hai quasi venticinque anni, stai passando da fanciulla in fiore a zitella!”
“E zitella sia, allora! Non ci penso neanche a fidanzarmi con gente che non conosco neanche!”
“Fedra, amore, pensaci. Se non vuoi farlo per te fallo per tuo padre. Sai quanto ti vuole bene nonostante...”
Nonostante tu sia una delusione continua e una fonte di imbarazzo, aveva pensato Fedra. Ma era vero: i suoi genitori erano insopportabili ma non si poteva certo dire che non fossero affettuosi. Anzi, pure troppo.
“Fallo per lui. Ci tiene tanto a sapere che un domani, quando non ci sarà più, sarai sistemata e al sicuro. E poi non avresti voglia di vedere il vero mondo là fuori, per una volta?”
E alla fine Fedra, sconfitta dal pietismo e dal senso di colpa e pungolata da una improvvida curiosità, si era trovata ad acconsentire a quella messinscena. Brontolando, lamentandosi, ingoiando bestemmie che avrebbero reso orgogliosi i peggiori gaglioffi della taverna, si era sottoposta all'infinita trafila di prove, misurazioni, sguardi di disapprovazione da parte di sarte - “Non sarà facile nascondere queste spalle e questo seno, lady Fedra!” - e acconciatrici - “La nuca rasata. Come se aveste i pidocchi. Non so proprio cosa vi sia saltato in testa...” - con relativa docilità. Fino a qualche anno prima quella pantomima avrebbe scatenato un putiferio di strepiti e minacce, con padre urlante da un lato, madre piangente dall'altro, sorella trionfante in mezzo e Fedra che se ne andava sbattendo la porta. Ma stava invecchiando, questo era vero, e opporsi alla sua famiglia per partito preso aveva perso un po' del suo fascino. Era stato più facile quando aveva diciott'anni, con i ragazzi dei bassifondi che la trattavano come una di loro. Prima che arrivassero le velate minacce e gli armigeri in disparte. Prima che quelli che aveva chiamato amici – se non qualcosa in più – se ne andassero a cercare maggior fortuna o a mettere su famiglia e Fedra passasse da adolescente testa calda a ventenne sfaccendata, senza qualità particolari o prospettive. Senza chissà che sogni a parte andare via. 
Ma dove?
E così eccola lì, impacchettata in metri e metri di velluto e taffetà che le tiravano sulle spalle e sul culo e sulle braccia, a incupirsi in mezzo alla folla. Con un sospiro di desiderio sbirciò di lato fino al portone secondario a una dozzina di metri da lei. Se fosse riuscita a intrufolarsi dietro al posteriore della dama in blu al suo fianco si sarebbe potuta avvicinare e prendere almeno una boccata d'aria. Il Creatore sapeva quanto ne avesse bisogno; soffiò in su verso il naso umido di sudore e nel far ciò scompigliò le ciocche sfuggite all'acconciatura, capelli troppo lisci e sottili per stare al loro posto. Si compresse il più possibile tra il muro e la dama e borbottò qualche vuota formalità mentre, con le braccia attaccate alla parete, scivolava di lato, spremuta tra i corpi ammassati.
“S-Scusate. Permesso. Grazie, eh. Scusate solo un attimo...”
Nemmeno stavano badando a lei, tutti presi dall'attività più in voga del momento: alzarsi in punta di piedi e tendere il collo come tante oche in attesa del pastone. Anche la quantità di grasso e di piume presenti, in effetti, erano paragonabili. Fedra arrancò di qualche passo con le orecchie piene di un brusio sempre meno solenne mentre la noia prendeva il sopravvento, un chiacchiericcio fatto di banalità e tedio.
“Quanto pensi possa mandare, mio caro?”
“Non so dirtelo, diletta, ma non molto. Dobbiamo perdonare alla Divina delle tempistiche non usuali, sta pur sempre cercando di far dialogare due fazioni che hanno passato gli ultimi anni a spiccarsi reciprocamente le teste dal collo. Non certo un compito facile, mh?”
Una risatina sciocca. 
“Presto comunque la luce del Creatore brillerà su di noi tramite le parole della Divina, e allora...”
Fedra, per l'ennesima volta, alzò gli occhi alla volta ad archi e represse il desiderio di dar voce a quel disprezzo per tutto ciò che era riti e devozione. Uno dei tanti motivi di attrito con la famiglia. Ciò che non riuscì a reprimere fu lo schiocco della lingua, che fece voltare la coppia verso di lei con palese e ben nota disapprovazione nello sguardo. 
Era il momento di sfoderare l'arma perfetta per l'occasione: un ampio, vacuo sorriso e uno sbattere di ciglia che facesse sembrare i suoi occhi ancora più tondi e pallati. Ancora più stupidi. 
Funzionò. Funzionava sempre, tranne che con i suoi genitori, s'intende.
I due sconosciuti si concessero il dubbio di aver frainteso e, dopo un sorriso freddo, tornarono a conversare, mentre Fedra riprese il tuo stoico tentativo di evasione.
D'altro canto cosa ci poteva fare se odiava le situazioni mondane, se era sgraziata e vittima dell'imbarazzo perenne? Se gli anni di danza che erano stati parte della rigida educazione Trevelyan avevano trasformato Evelyn in un giunco flessuoso e invece a lei avevano dato gambe robuste e caviglie grosse? Certo, forse c'entrava il fatto che Evelyn si era limitata alla polonnaise e all'allemanda, mentre Fedra aveva scovato quel tal libro di remota origine Tevinter in cui si descriveva nel dettaglio la danza delle lame... libro che, per altro, era durato molto poco dopo la scoperta da parte di suo padre, arrivato comunque troppo tardi per impedirle di imparare qualcos'altro di indecoroso. Sua sorella aveva la grazia di una rondine e il canto soave di un usignolo. Fedra era più simile a un falco, ma con la voce di un pollo di cattivo umore. Anni di fughe e cattive frequentazioni erano stati causa e risultato delle innumerevoli liti in famiglia. Almeno però aveva imparato molto di ciò che l'educazione di corte non prevedeva; principalmente a fare a botte e barare a carte, ma erano dettagli irrilevanti.
Chissà perché il suo passato decideva di scorrerle davanti agli occhi proprio in quel momento, impegnata com'era a sgattaiolare tra corpi eleganti e voci composte verso un portone che ormai non distava più di un braccio da lei.
Con la punta delle dita incontrò le assi consunte e sentì la speranza sorgerle nel petto. Si aggrappò allo stipite della porta e si trascinò per l'ultimo tratto, arrivando finalmente a spingere il battente con un gomito e a socchiuderlo quanto bastava per uscire.
La prima boccata d'aria gelida e pura le strappò un mugolio di piacere. Restò un istante a occhi chiusi, a godersi quel vento tagliente d'inverno e quella quiete dopo il brusio del Tempio, quindi accostò la porta alle proprie spalle e vi si appoggiò con una mezza risata muta.
Mamma non si potrà lamentare. Alla fine sono venuta come avevo promesso, ho messo il vestito che voleva lei e mi sono persino pettinata come una scolaretta. Non può certo pretendere che muoia soffocata!
Si stava bene lì fuori, senza la prospettiva di nessun cugino Frederick nei paraggi e la minaccia di un sermone lungo mezza giornata. C'era pace sotto il cielo terso.
C'era silenzio.
O quasi, almeno. Qualche uccellino fuori stagione cinguettava tra le guglie, un uomo cantava in lontananza e una donna gemeva.
Fedra spalancò gli occhi e sollevò la testa.
Una donna che gemeva? No, quello decisamente non rientrava nella sua definizione di quiete. Il torpore annoiato di poco prima e quella nota di sollievo fisico si tinsero di cupo. Fedra si guardò in giro nel cortile deserto e sentì il sudore gelarsi sulle tempie.
Il suono non cessava e non prometteva niente di buono. 
E adesso cosa cazzo faccio?
Quel posto pullulava di gente armata, pensò nel voltarsi verso il Tempio. Tutte persone addestrate a ogni tipo di emergenza. Non come lei, che con tutto il suo vantato studio sapeva cavarsela se c'era da minacciare qualcuno con un coltello e poco altro. Si sarebbe potuta affacciare nella folla e dare l'allarme.
E fare la figura dell'idiota quando si scoprirà che non stava succedendo niente e che ho frainteso, come al solito.
Il verso si ripeté. Fedra trasalì e lanciò un ennesimo sguardo disperato in giro.
Certo, poteva non essere niente, ma poteva anche essere qualcosa che richiedeva l'intervento di qualcuno che non fosse lei. Il tipico adulto responsabile, insomma. L'unica cosa che poteva fare era andare a dare un'occhiata e nella peggiore delle ipotesi chiedere aiuto.
Si vide staccarsi dalla porta e camminare sul lindo selciato, la gonna sollevata in una mano e le scarpette verde scuro che ticchettavano sui sassi. Scomode, strette. 
Il suono era arrivato da quella direzione, no? Da quell'edificio secondario lì, a ridosso del muro principale, che...


Boato.
Orecchie che sanguinano, pietre vive che arrancano contro la pelle, si sgretolano contro la guancia.
Luce. Verde e irreale e troppo vivida, un alone attorno al corpo, lame di dolore negli occhi e il cranio che si spacca.
E poi passi. Innumerevoli piccoli passi frenetici, piedi – no, zampe – che grattano, scatto di mascelle.
Troppi.
Occhi.
Nel buio di paura e grida mute una mano tesa, bianca e splendente. Un volto senza lineamenti, senza occhi, solo luce per un istante prima che verde e tenebre ingoiassero di nuovo tutto.
Prima che tornasse a sentire il proprio corpo.
Distesa a faccia in giù con il naso pieno di puzzo di sangue e bruciato Fedra provò a muoversi. Le palpebre, gonfie e troppo pesanti, si aprirono di uno spiraglio. Un mondo di fumo e macerie.
L'odore di morte le risaliva fino al cervello, anch'esso annebbiato e confuso.
Qualcosa le toccava la faccia, qualcosa di caldo e che sapeva di casa? No, anzi, quasi: di cucina. Di carne lasciata troppo a lungo sullo spiedo. Qualcosa di appiccicoso, viscido. Fedra riuscì a voltare lo sguardo fino a quell'oggetto.
Sarebbe stato meglio non farlo. La mano che la sfiorava era nera di carbone, brandelli di pelle penzolanti dalle ossa bruciate. Non c'era un braccio attaccato.
Nessun pensiero in testa, solo caos e vuoto e l'incapacità di distogliere lo sguardo. Neppure l'orrore crudo e purissimo di quella scena riusciva a penetrare il muro dell'assurdità e dello shock.
Respirare, unico istinto. Anche se faceva male, anche se ogni rantolo d'aria le dilatava le costole incrinate e le strappava un sibilo. Un soffio di vento le sfiorò la schiena nuda e i polpacci e fece danzare stracci di stoffa lacera.
Ho strappato l'abito. Evelyn non lo avrebbe fatto. Evelyn doveva venire. Evelyn, non io. Nostro padre sarà arrabbiato. Scusate. Mi dispiace.
Nella testa imbottita e sconvolta si formarono e inseguirono frammenti di pensieri, una lacrima all'angolo dell'occhio pesto; sulle labbra spaccate e livide una parola, la preghiera di ogni bambino smarrito, di ogni creatura in pericolo.
M-Madre...”
Dopo i pensieri le sensazioni.
Anzi, una sola.
Dolore. Di nuovo, troppo. Schegge di fuoco verde nella mano sinistra e su fino al gomito. Fedra non riuscì a trattenere un gemito, un lungo verso continuo e inarticolato di pura sofferenza.
Udì l'eco del proprio grido, o forse lo sognò solo. Voci che si chiamavano, passi sferraglianti che si inseguivano e clangore di armi prima che un velo abbagliante, di quello stesso verde malsano che sembrava profilare ogni cosa nel nuovo mondo in rovina in cui si era svegliata, le avvolgesse i sensi e la trascinasse giù, sempre più giù in un buio senza pace.

 

Era un sogno davvero strano. Il palazzo di suo padre a Ostwick era identico a come lo ricordava – e perché mai sarebbe dovuto essere altrimenti? Era stata lontana solo qualche giorno e a nessuno interessava quel palazzotto di un ramo cadetto spuntato da altri rami cadetti. C'erano i soliti arazzi tarlati alle pareti e i trofei di caccia che la guardavano con i loro occhietti di vetro impolverato. Pure suo padre era sempre lo stesso, con il naso Trevelyan troppo lungo per il suo viso squadrato e la bocca troppo larga nascosta dalla barba che aveva perso il rosso fiammante della gioventù in favore di un grigio sfumato di giallo. La stessa bocca e lo stesso naso, persino le stesse orecchie a sventola che Fedra vedeva ogni volta che si specchiava al mattino.
Tutto come al solito.
O quasi.
La lucida stempiatura di suo padre ora, però, brillava sotto una sinistra luce verde. La stessa luminosità che inondava tutto il resto della casa, immobile e innaturale.

Fedra si mosse piano. Goffa, lenta, le pareva di essere immersa in una melassa così densa da impedirle di abbassare lo sguardo sul proprio stesso corpo. Verde e ombre a perdita d'occhio, sua madre e sua sorella sedute al posto che competeva loro, di fianco a suo padre – ma c'era una sedia vuota, la sua, come sempre. Sembravano tutti concentrati su qualcosa che Fedra non riusciva a vedere.
Sembravano tutti annegati, incolori e perfetti nella loro fragilità.
“Non morirai. Non ancora, almeno, finché ci sarò io qui con te. Devi seguirmi però, perché la mia magia non servirà a molto senza la tua collaborazione”.
Una voce ignota. Fedra si voltò – ci provò, volle farlo – verso la fonte di quelle parole calme e fredde, stranamente confortanti. Nell'aria spessa le parve di intravedere in lontananza una sagoma sottile, dai grandi occhi tristi.
Poi un profondo respiro le vibrò nel petto e le immagini sparirono all'improvviso.
Al loro posto Fedra ritrovò il proprio corpo. Di nuovo quel dolore ustionante al braccio e la certezza che le ossa fossero diventate schegge di vetro in fiamme, con l'aggravante di qualcosa di freddo e mortalmente pesante che le tratteneva i polsi.
Con cautela riuscì ad aprire gli occhi. Attraverso le ciglia filtrò la luce delle torce, abbastanza forte da spaccarle in due la testa per il dolore. Gemette e, rannicchiata sul fianco com'era, si portò ancor di più le ginocchia al petto. Attorno a lei il mondo – quello vero, quello normale – assumeva consistenza e definizione.
“Si sta riprendendo”. Voce di donna, sommessa, musicale. Ignota tanto quanto quella che le rispose, anch'essa femminile ma aspra, dura quanto la mano guantata che afferrò Fedra per la collottola,
“Bene. Se è sveglia vuol dire che è viva, se è viva allora può rispondere e spiegare cosa è successo”.
Senza tanti complimenti Fedra si trovò trascinata in ginocchio; il mal di testa scemò più in fretta di quanto avesse pensato ma il braccio continuò a pulsare. Batté le palpebre fino a che il mondo non smise di ruotare e sdoppiarsi davanti a lei.
“D-Dove... cosa...”
La stessa mano violenta la prese per la gola e diede uno strattone verso l'alto; annaspando Fedra mise a fuoco il viso di una donna, zigomi audaci e occhi grigi e allungati. Feroci.
“Prima di cominciare mettiamo le cose in chiaro: io faccio le domande, tu mi dai risposte soddisfacenti. In alternativa dovrò farti male. Quindi cominciamo: chi sei? Cosa hai fatto? Perché hai ucciso la Divina?”
La voce aspra ebbe un cedimento sul finale ma non si spezzò.
Fedra, soffocata, cercò di sollevare le mani per liberarsi dalla stretta ma le manette di metallo che la trattenevano erano pesanti.
Dall'ombra emerse una seconda figura incappucciata, la fonte della voce dolce e sommessa. Ancora più spaventosa della prima.
“Cassandra – mh  Cercatrice. Ricordati che ci serve viva e in condizioni di parlare. Se le sfondi la trachea non potrà parlare, sai?”
Cassandra – quello doveva essere il nome – digrignò i denti come un lupo e allentò la presa. Fedra ricadde in avanti e tossì fino a farsi dolere il torace.
“Mph. Ripeterò la domanda solo un'altra volta prima di passare alle maniere forti: chi sei?”
“F-Fedra. Fedra Trevelyan, ramo di Ostwick, e non ho idea di dove io sia finita né perché! Allora, cos'è successo? Cosa ci faccio qui?”
La donna incappucciata si sporse in avanti. Doveva avere una decina d'anni più di lei ma accidenti se era bella, con quel viso da statua sacra, sereno e liscio, e le labbra morbide.
“Io sono sorella Leliana. Davvero non ricordi niente di quello che è successo?”
La confusione si tinse di rabbia impotente. Fedra si agitò sulle ginocchia e le catene sferragliarono.
Non costringetemi a far pesare i titoli nobiliari, non sono abituata. Volete rispondermi o no? Un attimo fa ero lì che aspettavo il Conclave e quella Divina del cazzo non voleva saperne di arr-”
Il colpo le si abbatté il piena faccia. Ne aveva presi di peggiori durante le risse ma questo andava ad aggiungersi a una collezione di dolori di tutto rispetto. Cadde distesa sulla schiena con la bocca che sapeva di sangue e tante lucine che le danzavano davanti agli occhi.
“Tu non parlerai così della Divina Justinia”, scandì la voce di Cassandra, gelida e sempre più simile a un ringhio. Fedra riuscì a scivolare di nuovo in ginocchio, piena di rabbia mista a vergogna e confusione. Il tutto condito dal dolore, s'intende. Sputò per terra una boccata di saliva rossastra e fissò Cassandra con odio.
“Ma sei completamente pazza? Come ti permetti? Mio padre...”
“Fossi in te non farei il gioco del chi è il nobile col titolo più altisonante con Cassandra Pentaghast, Fedra. Non ne usciresti bene”, disse Leliana. Per un attimo – ma doveva esser colpa della botta presa – Fedra fu convinta che stesse quasi sorridendo. “Vai avanti, per favore, e cerca di portare rispetto. Grazie”.
Cassandra era acciaio temprato. Leliana diamante, gelido e infrangibile. Fedra non osò contraddirla e obbedì.
“U-Un attimo fa ero nel Tempio delle Sacre Ceneri con tutta quella gente. Sono uscita per prendere una boccata d'aria e... e...”
Solo in quel momento si accorse di non riconoscere gli abiti che indossava: braghe di pelle e una giubba imbottita troppo larga che odorava parecchio del precedente proprietario. 
“Un attimo parecchio lungo, Fedra. Sei stata svenuta per una giornata”, disse Leliana sotto voce.
“Cosa? Non scherzare...”
“Ti sembriamo due giullari di corte per caso?” ringhiò Cassandra. “Qualcosa – il Creatore sa cosa – succede al Conclave, il Tempio delle Sacre Ceneri viene raso al suolo in un'esplosione e c'è una sola sopravvissuta: tu”.
Il mal di testa tornò peggiore di prima, accompagnato da un brutale capogiro. Fedra si sedette pesantemente sui talloni e fissò Cassandra. Era irreale, una creatura soprannaturale con la guancia sfregiata e i capelli corti arruffati. La guardava senza riuscire a vederla.
“Come... come sarebbe a dire che sono l'unica sopravvissuta?” chiese debolmente. Le labbra formicolavano.
Silenzio a parte il mormorio del sangue che le pulsava nelle orecchie. 
Morti.
Tutti morti.
Quegli sconosciuti che l'avevano tanto infastidita, il fantomatico e ignoto cugino Frederick. 
Se fosse andata Evelyn forse sarebbe morta anche lei.
Il sudore le si gelò sulla pelle e le braccia si coprirono di pelle d'oca mentre i denti iniziavano a sbattere tra di loro.
Cassandra le si inginocchiò davanti – la superava di mezza testa, una gigantessa di cuoio e metallo cui una paura remota stava donando una parvenza di umanità – e la fissò da molto vicino.
“Ora dimmi, Fedra Trevelyan di Ostwick, per quale motivo non dovrei giustiziarti qui e ora come responsabile della strage”.
“Cosa? No! Io non ho fatto niente, lo giuro! Dovete credermi!” Provò a voltare lo sguardo verso Leliana ma incontro solo le ombra del cappuccio.
“Ah no? Allora come lo spieghi questo?” sibilò Cassandra. Le prese il braccio sinistro e lo scrollò.
E solo allora Fedra lo vide. Un bagliore verde, quel verde maledetto del sogno, dell'incubo, che le avvolgeva il palmo. Non era una ferita quella da cui fuoriusciva, più... un marchio? Qualcosa di simile. Qualcosa che non sapeva spiegare neanche a se stessa.
La luce pulsò una volta e Fedra trattenne a stento un grido di dolore.
“Ti ho detto di spiegarlo!” urlò di nuovo Cassandra.
“Basta così, Cassandra. Smettila di malmenare la prigioniera”. Leliana si avvicinò e la stretta sul polso di Fedra sparì. Ricadde in avanti, cullandosi il braccio lucente in grembo; non riusciva a sentire le parole delle due donne, a parte un sospiro affranto di Cassandra, Leliana che le diceva "so quanto fa male, ma questa non sei tu". Quando emerse dal delirio della propria sofferenza e riuscì a lanciare loro uno sguardo vide paura e incertezza sui loro volti, non odio. Alla fine Cassandra afflosciò le spalle e e annuì una volta.
“Va bene. Fedra, devi venire con me. Sono stata brusca ma se sapessi cosa sta succedendo lì fuori..”
“Perché? Cosa sta succedendo?” chiese con una nota febbrile nel tono. Leliana era di nuovo imperscrutabile, mentre Cassandra le si inginocchiò ancora una volta davanti. 
Fedra si ritrasse per puro istinto di conservazione ma la donna scosse la testa una volta.
“Non ti farò più del male, te lo prometto, ma devi seguirmi”. Le mani avvolte in guanti di cuoio armeggiarono con le manette e presto il metallo arrugginito fu sostituito da parecchi giri di corda. Fedra si lasciò aiutare a rialzarsi e scoprì di avere le ginocchia deboli.
“Mi-Mi volete dire cosa sta succedendo, per favore? Vi prego...”
Suonava patetica, sull'orlo delle lacrime. Non aveva importanza. Cassandra la guardò a lungo negli occhi e per un istante Fedra non vide acciaio o minaccia. Era solo una donna con il viso sfregiato e la paura dipinta sui lineamenti affilati. Non aveva neanche una briciola del talento di Leliana per l'impassibilità.
Le prese le mani e la sostenne mentre uscivano dal cerchio di torce accese verso una vecchia porta borchiata.
“Posso mostrartelo. Vieni con me”.




Certe storie sono troppo belle per lasciarle confinate in un gioco. Dragon Age: Inquisition ricade in questa categoria, con il suo cast di personaggi meravigliosi e l'intreccio di vicende, sentimenti e dolore che offre.
Tanto, tanto dolore.
Meraviglioso dolore **
Questa sarà la versione di Fedra, una che di fare l'eroina non aveva per niente voglia e che invece si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato. Discretamente sfigata, del tutto inadatta al titolo nobiliare con cui è nata e con le orecchie a sventola: non proprio la stoffa di cui sono fatti i condottieri. Ma l'eroismo si impara - anche a suon di cazzotti in faccia e traumi psicologici - e là fuori c'è pur sempre un mondo da salvare...
Un paio di voci rimarrano in silenzio (ahimé, esigenze narrative), ma spero di ricreare l'atmosfera del Thedas. Con qualcosa in più, perché altrimenti che gusto ci sarebbe?
Il titolo è "rubato" da una delle meravigliose, criptiche frasi mormorate dal mio personaggio preferito in assoluto della serie. Qualcuno dal buffo cappello che non vedo l'ora di poter far parlare.

 

Buona lettura!

Val

 



   
 
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