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Autore: definitelymaybe_    28/08/2016    5 recensioni
"La vita umana è così fugace. Mentre lui e quella ragazza bionda caduti dal cielo per tutto il tempo avevano giocato a fare Dio. Nulla poteva raggiungerli e nulla poteva sconfiggerli davvero. Lui era il dio della notte, dell’oscurità e della violenza; lei la dea dei cieli, degli inganni e della morte. Eppure di fronte alla fine del mondo, erano quello che erano: due semplici esseri umani, il Re e la Principessa di una terra sconfitta."
Genere: Avventura, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bellamy Blake, Clarke Griffin, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The day the smoke starts rising
And all the bombs fall down
Don’t wanna be the ones caught hiding
I wanna see the sky when it hits the ground
Imagine it’s a warning sign
I don't wanna lose more time
Darling, don't you close your eyes
Keep listening - are you listening?
I'm sorry we don't have forever
But come die with me

Luke Sital-Singh, ‘Benediction’





Come die with me





Il mondo tremò. Il cielo era rosso sangue, squarciato da comete che si schiantavano sulla Terra. Quello che restava dell’umanità impazzava e correva, mentre urla strazianti tagliavano l’aria come spade che trafiggono pelle nuda.
Era la fine del mondo.
Le centrali nucleari stanno iniziando a fondere. Ci sono più di una dozzina di impianti a rischio in tutto il mondo. I livelli di radiazione globale sono già in aumento. In meno di sei mesi, il 96% della superficie terrestre sarà inabitabile. Anche per coloro che sono nati nello spazio.
Le parole di A.L.I.E. continuavano a rincorrersi nella sua testa. Clarke osservò il cielo schiantarsi sulla terra, proprio come lei e il resto dei cento si erano staccati dalla stazione Arca ed erano piovuti sulla terra ferma.
Delle lacrime si incastrarono tra le sue ciglia. Le lacrime di una guerriera, le quali, ferendo le stelle, ripiovevano su di lei sotto forma di stille di sangue. Le lacrime di una ragazzina. Diciotto anni appena compiuti. La treccia bionda, i grandi occhi azzurri. Questa ragazzina coraggiosa e altruista che si era fatta carico di un popolo intero. Un’assassina.
Cominciò con una fitta alla testa. Poi la perdita dell’equilibrio, il vortice negli occhi e, infine, la cosa più dura da tollerare: il venir meno di quel senso di potenza e invulnerabilità che non l’aveva mai abbandonata lungo tutto l’arco della sua breve avventura sulla Terra. Le radiazioni erano aumentate sensibilmente, quel che bastò per atterrare anche lei. La potente Wanheda, la comandante della morte. Clarke era a terra, sdraiata sul terriccio bagnato, con gli occhi al cielo, le palpebre che sbattevano ad intermittenza, le labbra dischiuse. Come volesse ancora dire qualcosa, utilizzare la diplomazia o lanciare una minaccia contro il suo nemico per aggirarlo e vincere l’ennesima battaglia per la sopravvivenza. Ma il suo nemico non era umano e niente era più in suo potere per uscirne indenne.
Ora un’ombra occupava buona parte del suo campo visivo. Non riusciva a metterlo sul serio a fuoco, era troppo debole per farlo e anche per muoversi o parlare, ma i suoi sensi continuarono impietosamente a registrare. La toccava, le prendeva la testa tra le mani. La chiamava.
«Clarke… Clarke, ti prego. Ti prego»
Conosceva bene questa voce. Forte, chiara, anche se sensibilmente incrinata, spezzata. Immagini nel suo inconscio cominciarono a legarsi come perle in una collana di ricordi. Qualcosa si destò nella sua testa, un’auto-rivelazione. Un nome.
Bellamy.
Finalmente i contorni del suo volto si fecero chiari. I capelli corvini e leggermente arruffati gli ricadevano sulla fronte. I suoi occhi, di solito fermi e sicuri, ora erano lucidi e spalancati, due immense pozze nere, come se si potesse guardarvi sempre più in profondità, fino a cadervi dentro, e continuare a cadere per sempre.
Clarke mormorò qualcosa, ma di nuovo i suoi sensi tornarono a vacillare.
«Ti porto via da qui», le sussurrò accennando un sorriso, che si spense un attimo dopo.
La prese in braccio e con lunghe e svelte falcate si avviò verso Arkadia.
L’accampamento era lontano. Raven era riuscita a realizzare all’interno una camera stagna priva di radiazioni. Purtroppo, lo spazio non era nemmeno lontanamente sufficiente per l’intera popolazione mondiale. Non lo era nemmeno per trenta persone. La giovane meccanica era ancora lì, a lavorare sull’intero isolamento dell’accampamento, ma il lavoro stava risultando lungo e complesso. Ma di nuovo, lo spazio non sarebbe stato sufficiente. E poi chiudersi lì dentro, selezionare chi potesse o dovesse avere il privilegio di potervi entrare… Ma chi erano loro per giocare ancora a fare Dio? Per decidere chi deve morire e chi deve vivere?
Bellamy camminava a passo veloce, le gambe si muovevano svelte, senza il suo controllo. Sentiva la forza abbandonarlo, l’adrenalina diminuire, ma non si sarebbe fermato. Sorpassò alberi e rametti secchi, ignorò l’odore penetrante della resina e gli ostacoli sul suo cammino. Dopo il bosco, sarebbe arrivato all’accampamento e una volta lì, avrebbe rinchiuso Clarke nella camera stagna, che lo volesse o meno. Concedere il libero arbitro non era mai stato il suo forte. Gli misero in mano una pistola, tanto tempo fa, per dargli una via d’accesso alla navicella che trasportava sulla Terra i Cento, tra cui sua sorella minore Octavia, in una missione suicida. Con quella pistola avrebbe sancito l’accordo che gli permetteva di proteggere l’unica persona al mondo che amava. La violenza per la salvezza. Un morto per una vita. Bellamy Blake una volta era stato un ragazzo pulito, ma quando la vita di chi ami dipende da qualche particella di piombo che dorme nella canna di una pistola, non puoi tornare indietro. E non tornerai. Clarke sarà al sicuro nella camera stagna. Non importa quante imprecazioni gli riserverà perché non vuole stare lì mentre la sua, la loro gente, muore. Non importa finchè lei è viva.
Delle urla strazianti lo accampagnarono per tutto il tragitto. Ogni giorno l’aria si faceva più irrespirabile e le radiazioni superavano lentamente ogni limite di sopportazione. I Terrestri furono i primi a non sopportare le radiazioni, poi era toccato al Popolo del Cielo. I più forti continuavano a resistere, ma ormai era solo questione di tempo. A terra, centinaia di corpi lottavano tra la vita e la morte, e speravano di morire al più presto per non provare più dolore. Bellamy camminava silenziosamente tra di essi, compatendoli e commiserandoli. La vita umana è così fugace. Mentre lui e quella ragazza bionda caduti dal cielo per tutto il tempo avevano giocato a fare Dio. Nulla poteva raggiungerli e nulla poteva sconfiggerli davvero. Lui era il dio della notte, dell’oscurità e della violenza; lei la dea dei cieli, degli inganni e della morte. Eppure di fronte alla fine del mondo, erano quello che erano: due semplici essere umani, il Re e la Principessa di una terra sconfitta.
Bellamy superò il bosco, Arkadia era un lontano miraggio, ma finalmente riusciva a vederla. Il sollievo fu tale da risultare doloroso, ma ancor più dolorosa fu la fitta che gli attraversò il corpo, ora che iniziava a rallentare il passo. Il ragazzo rovinò a terra, stringendo ancora Clarke tra le braccia. Quando i loro corpi toccarono l’erba secca, la ragazza riprese improvvisamente i sensi, ma di nuovo fu tragicamente difficile riuscire a muoversi. E di nuovo, si ritrovò in silenzio a fissare il cielo, solo che stavolta lo faceva con Bellamy sdraiato al suo fianco. Entrambi respiravano a fatica.
«Stai… stai bene?», riuscì a domandare Clarke, sempre con gli occhi rivolti al cielo ricoperto da striature cremisi.
Qualche attimo di silenzio, un grosso respiro. «Sono stato meglio», rispose il ragazzo, la voce rotta.
Clarke tentò di voltarsi per guardarlo, riponendo tutte le sue energie in quel gesto come se ne andasse della sua vita. Bellamy era sdraiato prono, aveva gli occhi semi chiusi e i denti stretti. Clarke strinse gli occhi, per poi riaprirli e puntarli in quelli di lui.
«Fa male anche a me», mormorò la ragazza, accennando un sorriso, come se fingere di non aver paura in due fosse meglio che avere paura da soli.
Di nuovo, la risposta di Bellamy tardò ad arrivare. Il ragazzo sembrò trovare nella voce di Clarke un motore propulsivo per cambiare le cose e sollevò, con estrema fatica, la faccia da terra. «Ti porto via da qui», ripetè, alzandosi lentamente.
«Dove?»
«Nella camera stagna»
Clarke scosse la testa, lanciandogli uno sguardo gelato e di rimprovero. «Non voglio andare lì. Lo sai. Non è giusto»
«Raven troverà un modo, e tu sarai lì quando arriverà il momento»
«Bellamy, non c’è spazio»
«Troverò io un modo»
Il ragazzo era in ginocchio, allungò il braccio per afferrare la ragazza sdraiata accanto a lui, ma i suoi gesti inaspettatamente rapidi lo sorpresero. Clarke estrasse dalla giacca la pistola e gliela puntò contro.
«Ho detto no»
«Oh, andiamo»
Bellamy guardò l’arma, poi la ragazza dietro di essa. Sarebbe stato tanto semplice strapparle la pistola dalle mani così come vedersi partire un colpo. Dopotutto, era pur sempre la Comandante della morte. L’aveva vista uccidere un uomo a sangue freddo. Ma non poteva avere paura di lei. Se Clarke fosse un’esplosione di radiazioni, egli sa che quelle impazzerebbero in tutte le direzioni, ma per qualche sconosciuta legge della fisica si curverebbero e cambiarebbero direzione di fronte a lui.
«Clarke», la implorò. «Non abbiamo tempo»
«Il nostro tempo è già finito, Bellamy»
Un sorriso amaro si dipinse sul suo volto. «Non ancora»
Clarke impugnò ancora più forte la pistola, stringendola con entrambe le mani. Bellamy le era sopra ed era l’unica ombra che si stagliava tra una miriade di luci che lei non seppe indicare se reali o semplice frutto della sua pazzia. Soli, comete, esplosioni, temporali. O semplici allucinazioni.
«Il sovraffollamento di quella stanza non ti è cosa ignota», disse Clarke, un sussurro che si gonfiava della sua rabbia. «Se anche solo potessi entrare io, tu dove andrai?»
«Non è importante»
«Io non entrerò»
«Non ti sto offrendo delle alternative»
«Dal momento che non prendo ordini da te dovrai convincermi in un altro modo»
«Non posso perdere anche te. Okay?»
Clarke tentennò. Avevano già avuto questa conversazione, ma al contrario. Era lei che non poteva perdere anche lui dopo… dopo la morte di Finn. «Di che cosa stai parlando?»
Bellamy sospirò, la linea dura delle sue labbra si aprì appena e si abbassò appena ai lati.
Clarke ricordò. Prima di perdere i sensi nel bosco, si stava dirigendo ad Arkadia, di ritorno da Polis. Anche Bellamy ed Octavia erano lì. Ma dov’era ora Octavia? Finalmente capì. Abbassò la pistola. Che gesto stupido; pensava davvero, nelle sue condizioni e dopo tutto quello che era successo tra di loro, che Bellamy credesse alle sue minacce? Si tirò su sui gomiti, poi lentamente riuscì a mettersi in ginocchio, all’altezza del ragazzo che aveva di fronte.
Bellamy guardò altrove, sbattendo ripetutamente le palpebre per scacciare le lacrime. «E’ morta tra le mie braccia, Clarke»
Clarke lo abbracciò. Gli mise le braccia attorno al collo, stringendolo quanto più poteva. Come se lui non aspettasse altro, la strinse a sua volta, circondandola con le braccia e affondando la testa nell’incavo del suo collo. Clarke non poteva vederlo, ma sapeva che delle lacrime gli stavano rigando il volto. Come se non fosse stato abbastanza perdere già Monty, Jasper, Abby e Kane. Avevano toccato il fondo troppe volte.
Bellamy era caldo, Clarke sentiva circondarsi di un tepore e di una quiete che non avvertiva da giorni. Da quando per la prima volta lui l’aveva baciata.
 
 
Si erano ritrovati sempre più vicini a girarsi intorno come un pianeta e il suo satellite. Lei era la Terra e lui la Luna, e nel momento della collisione, si erano amati. Si erano fissati a lungo, quella notte sotto un cielo privo di stelle. Avevano discusso riguardo la questione della camera stagna, sul concetto di responsabilità e di sacrifico. La vittoria passa attraverso il sacrificio, aveva detto Clarke, come se stesse pensando a voce alta o stesse ricordando una vecchia lezione. Ma l’elettricità che i loro occhi incrociati e infuriati avevano provocato impediva ai due di muoversi o anche solo di distogliere lo sguardo, e lentamente l’ira si trasformò in altro: desiderio, amore, intesa. E Bellamy era sempre stato un po’ infatuato di questa principessa coraggiosa ed era sempre stato un uomo di pancia, che si lascia trasportare dal cuore e dalle forti passioni, concedendo loro di travolgerlo come un fiume in piena. Perciò quando i suoi sentimenti si erano fatti troppo intensi aveva allungato il braccio e l’aveva baciata, percependo però, come anche lei stesse pendendo, letteralmente pendendo verso di lui, come un magnete. All’improvviso si staccò da lei – forse era stato troppo istintivo – ma le sue mani continuavano a tenerle il volto.
Clarke Griffin era sempre stata ben capace a dominare le proprie emozioni e i propri istinti, tanto che poteva sembrare una specie di iceberg, e tutti erano sempre a un passo dal suo cuore, senza però arrivare mai. Invece Bellamy riusciva ad avvicinarsi di continuo e, mentre il tocco di Finn o di Lexa poteva assomigliare a una carezza, il suo la colpiva come un pugno in piena faccia. Come fosse possibile che tutte le sue difese crollassero di fronte a quel ragazzo, restava ancora un mistero piuttosto oscuro.
Perciò non era riuscita a ritrarsi. E nemmeno lo voleva. Infatti, mentre Bellamy ancora la fissava, stupito dal suo stesso gesto, lei si rifiondò sulle sue labbra. Si baciarono con una ferocia che non avevano mai usato, come un milione di minuscole costellazioni che prendevano fuoco nell’oscurità dell’universo dopo millenni di quiete ed aspettativa. Rientrarono all’interno di Arkadia e in qualche modo si ritrovarono nella stanza di Bellamy. Fecero l’amore, e non fu delicato. Fu più una lotta per il piacere come per la sopravvivenza, fatta di gesti dolci e selvaggi allo stesso tempo.
Quando si abbandonarono a terra sfiniti e soddisfatti, Bellamy le stava accarezzando i capelli ed entrambi si ritrovarono in silenzio a fissare la lampadina accesa sul soffitto.
«Alla fine di tutto questo, l’unica luce in fondo al tunnel è quella di questa lampadina nei tuoi occhi»
Anche Bellamy aveva perso la speranza. Allora davvero non c’era più niente da fare. Era finita, dopo tutto. La folle rincorsa tra la sopravvivenza e il pericolo stava toccando il traguardo. Clarke lo guardò. «A forza di sfuggire dai pericoli, dovevamo pur fermarci. Ma sai chi troverai alla fine del tunnel?»
Bellamy fece un sorriso amaro. «Se mi va bene, un paio di pallottole»
«No, ci troverai me»
 
 
L’aveva trovata infatti. Ed erano ancora stretti in quell’abbraccio. Quando si sciolsero, le lacrime che Clarke aveva incastrate fra le ciglia erano ormai precipitate sulle sue guance.
«Mi dispiace»
Bellamy si passò una mano sulla faccia, per nascondere la sua disperazione. «Qual è il dannato senso di tutto questo? Siamo precipitati sulla terra perché la nostra casa stava morendo. Ed ora è tutto da rifare, di nuovo. Vivere. Lottare. Morire! E poi?»
Clarke gli strinse le mani, cercando di non cadere di nuovo a terra. Si era fatta quelle domande molte volte da quando si trovava sulla Terra, ma non aveva trovato risposta. La sua testa pragmatica era andata oltre, aveva annullato il concetto di senso della vita o scopo o missione. Come se avesse ucciso, dietro quei suoi occhi rigidi, ogni speranza. E poi… e poi un altro pensiero a sangue freddo, un altro lucido piano per il prossimo passo. Dovevano sfruttare quello che avevano tra le mani: le forze che rimanevano loro, e il tempo, finchè resta. Ma quella domanda tornava sempre, anche se la scacciava, e provocava rabbia e tormento. Era come un rumore di sottofondo. E’ davvero tutto qui? Moriremo senza nemmeno poter combattere?
«Forse un senso non c’è. Forse stiamo pagando un prezzo troppo caro, in un mondo che aveva già una taglia sulla testa, ed è tutto troppo grande per noi. Forse non siamo così potenti come credevamo»
Bellamy scosse la testa. Poi tossì, piegandosi. Quando si sentì meglio, riaprì bocca; la voce roca, parlò lentamente e a voce bassa, come gli costasse troppa fatica. «Non lo accetto. Se questa fine che è dolore ed ostinazione violenta, potesse essere combattuta, io la accetterei. Ma siccome è un gioco subdolo, un ridicolo lasciarsi prendere, non posso. E non lo farò»
I contorni di Bellamy si fecero meno nitidi. Clarke continuava a stringergli le mani, ed ebbe come l’impressione di non avere più peso e che stesse fluttuando. «Vorrei che avessimo avuto un po’ più di tempo», la sua voce era un soffio leggero, «Ma in mezzo a tutti questi guai, sono stata, qualche volta, molto felice. Ed è forse poco, in questo mondo colpevole che solo trafigge e spezza?»
«…Clarke?»
«Sono felice che tu sia qui…»
Clarke cadde a terra, e si lasciò cullare dall’oscurità.
 
 
Quando Bellamy chiuse gli occhi per sempre, l’ultima cosa che volle vedere prima di morire, era Clarke. Stringeva ancora la sua mano, come se avesse potuto ancora trascinarlo da qualche parte nel mondo. Ma Clarke non poteva. E quando capì che era finita, un pensiero fu per i suoi compagni, per sua sorella – la sua famiglia. Anche lui era stato, come diceva Clarke, ogni tanto, molto felice. Più giovane di cinque anni, quella ragazza gli aveva insegnato così tanto. Forse aveva ragione, non era poi così poco su una vita intera, in questo mondo umano, troppo umano, che non segue regole umane. In questo mondo colpevole contro cui ci si rivolta, inutilmente ma necessariamente, in maniera sincera, ostinata e contraria solo per un attimo di felicità.

 
 
 
NOTE:
E' la prima volta che pubblico qualcosa su EFP, infatti ho un pò d'ansia ahah. Sono stata ispirata dalla canzone che cito all'inizio del testo, ma non so cosa ne sia uscito. Ringrazio comunque chi sia arrivato fino alla fine :)
  
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