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Autore: Milla Chan    30/08/2016    3 recensioni
Aveva maturato uno strano sentimento nei confronti degli umani. Non c’era più paura, ma non c’era nessuna rabbia, solo un misto di disgusto e indifferenza. Quella situazione, però, non gli pesava quanto i suoi genitori pensavano che avrebbe dovuto; o almeno così sembrava. Kenma passava gran parte delle sue giornate a giocare ai videogiochi, e quando sua madre gli chiedeva se avesse qualcosa da raccontarle, passandogli la mano tra i capelli scuri, lui la guardava con una sorta di senso di colpa negli occhi.
[KuroKen + altre coppie secondarie] [Tokyo Ghoul!AU, ma non è necessario seguire l'opera]
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Koutaro Bokuto, Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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Full many a flower is born to blush unseen
 
Tooru sembrava completamente immerso nel fissare una coccinella che camminava lungo una foglia delle piante tra cui era immerso. Allungò l’indice, lo appoggiò con delicatezza davanti al piccolo animaletto zampettante e aspettò che salisse.
Iwaizumi era incantato da quell’atmosfera: la stanza profumava in maniera incredibile e gli piaceva, gli sembrava di essere in una piccola e delicata foresta, e Tooru incastonato tra quei petali e gli steli che sembravano sbucare da ogni direzione era come un’opera d’arte. Aveva la stessa grazia e la stessa bellezza che aleggiava tra i capelli mossi e castani, dentro gli occhi che avevano lo stesso colore e le stesse striature delle cortecce degli alberi.
Prima che tutti si svegliassero, Tooru scendeva nel negozio ancora chiuso, si sedeva e diventava foglie e corolle.
Iwaizumi Hajime aveva tredici anni, quasi quattordici. Viveva lì da quasi un anno ormai, ma solo da poco si era accorto che l’altro ragazzo si alzava così presto dal letto nell’appartamento al piano di sopra. Aveva iniziato a seguirlo a passo felpato e guardava incantato quel ragazzino insopportabile, suo coetaneo, godersi il suo momento di intima tranquillità. Il silenzio che imbottiva la stanza e i raggi di luce che filtravano dalle tapparelle chiuse lo facevano sembrare una creatura magica, uno spirito, e ad ogni respiro profondo che prendeva, Iwaizumi aveva quasi paura di vederlo dissolversi nell’aria.
Si era sentito un ladro perché rubava quei momenti privati. Si era sentito così finché un mattino Tooru si era girato verso di lui e, senza grandi sorprese dipinte sul suo volto disteso, gli aveva scherzosamente sussurrato che era un guardone. Si era voltato di nuovo prima di aggiungere che se avesse fatto silenzio avrebbe potuto stare a guardarlo tutto il tempo che voleva.
Hajime l’aveva fatto. E quel giorno Tooru gli parlò.
-Vengo qui da un sacco di tempo.-
Gli dava la schiena e per Iwaizumi fu strano sentirlo serio, per una volta, e così chiaramente sincero.
-È silenzioso e tranquillo, e mi rilassa. È come se scacciasse via i brutti pensieri.-
Iwaizumi abbassò gli occhi verdi, come se si sentisse in colpa. Non si era chiesto neanche per un attimo quali fossero quei “brutti pensieri”, pronunciati in maniera così infantile.

L’immagine della Notte di Sangue dell’anno precedente era impressa a fuoco nella sua memoria, e sapeva che per Tooru era lo stesso, perché i suoi genitori erano stati uccisi davanti ai suoi occhi.
Iwaizumi era stato il fatale spettatore di quella scena macabra.
Si era allontanato dallo scantinato al tramonto e, quando il sole calò del tutto, iniziò la tragedia.
Aveva sentito grida e boati di ogni sorta, aveva corso più che poteva per tornare indietro, ma ogni strada, ogni via era bloccata e potenzialmente letale. Aveva appena svoltato un angolo quando, per caso, il suo sguardo cadde su di un ragazzino. Era riverso su un cumulo di vetri rotti che gli tagliavano la pelle, ansante per le ferite. Eppure lo guardava fisso negli occhi, il sangue che colava lungo la faccia, i denti stretti. Sembrava che gli stesse urlando di salvarlo.
Iwaizumi aveva agito d’istinto: l’aveva trascinato via da lì.
Avrebbe voluto non sentire i lunghi lamenti stanchi che emetteva ad ogni singolo e sofferto movimento, quasi sull’orlo dell’incoscienza, e aveva provato ad aiutarlo, a togliere come poteva i frammenti delle vetrine che gli si erano conficcati nella carne.
Quando la notte finì e i danni furono ben visibili alla luce del sole, ammutolirono davanti al disastro e quel ragazzino pianse fino a non avere più lacrime né voce.
Oltre alle vetrine del negozio disintegrate e le finestre dell’appartamento al piano di sopra distrutte, le stanze erano completamente a soqquadro, le piante vittime innocenti di una lotta sanguinosa e, come loro, sua madre e suo padre, o perlomeno ciò che ne era rimasto.
Iwaizumi ricordava di avere distolto velocemente lo sguardo da quell’immagine raccapricciante, in un moto di repulsione, non appena si era reso conto che quelli che stava guardando erano solo i resti di corpi di ghoul. Li avevano mangiati.
Tooru -così si chiamava- non aveva spostato lo sguardo, invece. Si era congelato, gli occhi spalancati davanti ai brandelli di carne e ai fiori insanguinati, e Iwaizumi aveva dovuto prendergli il viso ferito tra le mani e costringerlo a voltarsi per fermarlo dal vedere quell’orrore.
-Non guardare.- gli aveva detto, reprimendo la nausea e fissandolo in quegli occhi in subbuglio, straripanti di panico, odio, dolore e lacrime.
Iwaizumi non era mai più tornato in quel vecchio scantinato, forse per paura che avessero pensato che in un momento tanto delicato e pericoloso avesse preferito abbandonarli piuttosto che tornare da loro, e di non essere quindi più il benvenuto.
Lo zio di Tooru, un uomo di mezza età, non aveva esitato a prendere con sé il nipote e quel ragazzino senza famiglia. Decise di continuare l’attività del fratello defunto, soprattutto perché quello non era un semplice negozio di fiori, ma un luogo di incontro per ghoul, dove si snodavano informazioni di ogni sorta.
Le colombe lo avevano distrutto e altri ghoul si erano intromessi, concludendo definitivamente l’opera, ed era stato necessario abbandonare quel luogo che a Tooru era tanto caro: l’avevano ricostruito, con tanta fatica, da cima a fondo. Un nuovo nome, una nuova località. Tessere nuovamente la rete di conoscenze fu forse il compito più arduo. Da allora, la prudenza non fu mai troppa.
Mai Iwaizumi avrebbe pensato che un giorno avrebbe trovato dei ghoul che possedevano un negozio di fiori. Non ce l’aveva fatta ad andare via.
Aveva presto scoperto quanto Oikawa Tooru fosse un ragazzino vanitoso, appiccicoso, egocentrico, insostenibile, volubile e viziato, e più di una volta aveva pensato di accantonare tutta la sua pietà e di andarsene. Eppure non lo fece mai, non solo perché non aveva il coraggio di tornare da quel vecchio, ma semplicemente e soprattutto perché ciò che provava nei confronti di Tooru non era pietà, ma affetto.
Non gli voleva bene per una predisposizione naturale, ma perché aveva imparato a volergliene, e i suoi capricci, le loro discussioni, i loro abbracci, divennero le sue giornate. Quella pelle chiara accanto alla propria, più olivastra, diventò qualcosa di rassicurante. I sorrisi sinceri di Tooru, più rari di ciò che si potrebbe immaginare, divennero la sua speranza più grande.

-… I brutti pensieri.- mormorò Iwaizumi, e dare voce a quelle parole lo risvegliò da quel lungo viaggio nel passato.
Oikawa si voltò e un raggio di sole attraverso le tapparelle gli colpì direttamente un occhio, illuminandolo e mostrando tutta la bellezza delle venature di quel marrone, e parte della guancia, dove l’unica cicatrice rimasta dalla Notte attirò tutta l’attenzione di Iwaizumi.
Oikawa possedeva un kagune rinkaku e forse era stato proprio grazie alle eccezionali capacità rigenerative offerte dalle sue cellule Rc che l’unico segno visibile fosse una singola linea bianca di due o tre di centimetri.
Spesso Iwaizumi, prima di addormentarsi, malediceva il suo cervello perché, per qualche motivo, gli mostrava di nuovo quel viso pieno di lacrime e sangue e frammenti di vetro. L’immagine lo scuoteva, lo turbava, e lo faceva pensare a lungo perché era sicuro che sarebbe bastato avere un altro tipo di kagune perché quel volto tanto delicato rimanesse sfigurato per sempre.
-Anche Iwa-chan scaccia i brutti pensieri.- disse Tooru con leggerezza, rivolgendogli un sorriso abbastanza rilassato.
Iwaizumi si trovò a scuotere la testa senza accorgersene.
-Non scaccio via un bel niente.- borbottò, gli occhi che si erano spostati sulle piastrelle ruvide.
Oikawa non gli ripeteva ogni giorno quanto gli volesse bene, ma glielo dimostrava ogni volta che ne era possibile. A volte, anche con i gesti più piccoli, con un movimento della mano o uno sguardo, lo cercava, o gli mostrava le sue debolezze. Ad Hajime, il sapere di averlo tra le sue mani nella sua forma più pura dava una responsabilità che, forse, non sentiva di meritare a pieno.
-Sì invece. Se non ci fossi stato tu quella notte, io ora non avrei brutti pensieri da scacciare, o bei pensieri da ricordare. Non avrei niente. Non sarei qui e basta.-
Di salvezza, Iwaizumi non ne sapeva niente. Non si vedeva come un eroe e non era vero che Tooru sarebbe morto se non ci fosse stato lui: si sarebbe salvato da solo, Iwaizumi ne era… sicuro?
Quella era la sua verità, e se fosse reale o solo costruita dalla sua coscienza, non poteva saperlo. La storia era andata in quel modo.
Gli passò l’indice sulla cicatrice, quasi difficile da vedere, tanto era chiara la sua pelle. Oikawa si alzò prendendo un respiro profondo e si portò le mani sui fianchi.
-Non fare quel faccino triste, Iwa-chan! Oggi arriva il furgone, e noi dobbiamo essere belli e freschi come i fiori nuovi! Capisco che per te sia difficile, ma vedi di sforzarti. Non tutti hanno il mio talento dopotutto, non credi anche tu?-
Eccolo. La corrente aveva cambiato verso, improvvisamente, come sempre. La carezza di Iwaizumi si trasformò in una mano premuta in faccia per allontanarlo.

Verso la fine di quello stesso giorno, il cielo era totalmente sgombro, tendente all’arancione del tramonto. In un appartamento in un’altra zona di Tokyo, la luce passava attraverso i vetri delle ampie finestre del soggiorno e invadeva la stanza rivolta ad ovest. Kuroo guardava fuori dalla finestra con fare malinconico, seduto sulla sedia con il mento sul palmo della mano. Sentiva solo la matita di Kenma che si muoveva sulla carta. Tirò un lungo sospiro e Kenma alzò la testa per guardarlo.
-Tutto a posto?-
-Non ti viene mai voglia di cacciare? Correre un po’?-
Kenma appoggiò la matita sul tavolo e lo guardò con la testa leggermente inclinata di lato.
-Non ho mai cacciato.-
Kuroo sgranò gli occhi e si passò una mano tra i capelli. -Non hai mai ucciso nessuno?-
Vide la fronte del più piccolo contrarsi per un attimo. -No.-
Una pausa.
-Avrei dovuto intuirlo.- commentò poi Kuroo, tornando ad abbassare la testa sul libro. -Non lo fai perché hai paura di non saperlo fare?-
-Perché non ne ho bisogno.- rispose con naturalezza Kenma.
Il silenzio che cadde nella stanza gli diede una brutta sensazione.
Kuroo aveva alzato lentamente il capo e aveva fissato le pupille nelle sue, gelido.
-Non ne hai bisogno?-
Ripeté le sue parole con un’intonazione beffarda e un’espressione incredula. A Kenma generalmente piaceva il sorriso di Kuroo, ma quello che c’era in quel momento sulla sua faccia non lo rese affatto tranquillo.
-Pensi che ci sarà sempre qualcuno a darti tutto quanto?-
Kenma ritrasse le mani dal tavolo e le appoggiò sulle cosce. Avrebbe voluto scappare ma il suo sguardo lo teneva incatenato alla sedia e gli stringeva lo stomaco.
-Forse credi anche che a furia di vivere con gli umani, un giorno diventerai come loro?-
Avrebbe voluto aprire la bocca e rispondere, dire qualcosa, ma il suo cervello era vuoto e lavorava troppo lentamente per stare dietro al ritmo incalzante di Kuroo. Lo vide alzarsi e sporgersi verso di lui, i gomiti appoggiati sul tavolo.
-Ti svelo un segreto.- disse a denti stretti il più grande, sottovoce. -Tu sai fare cose che gli umani non sanno fare, in parte le fai già, e in parte le farai, non perché è un tuo dovere, ma perché è la tua natura. Non puoi scappare, pensare che non succederà. Perché succederà. Puoi intorpidire l’istinto quanto vuoi, ma lui c’è. Esiste, e si farà sentire. Magari ora ti spaventa, ma quando succederà ti sembrerà di non essere nato per altro. Sei abituato ad una casetta candida, ordinata e pulita, ma il mondo fuori da qui non è così, specialmente per noi. Specialmente tra di noi.-
Kenma sentì la gola secca nel vedere i suoi occhi farsi neri come la notte e rossi come il sangue, e fissarsi nei propri con tanta intensità che gli sembrò che volessero trapassarlo.
-Non possiamo vivere una vita normale. Siamo mostri e non abbiamo una scelta.-
-Basta.-
Il più piccolo si alzò dalla sedia con un gesto secco.
-Credi davvero che non lo sappia? Non hai capito niente.- soffiò Kenma con un filo di voce.
Si voltò immediatamente e si incamminò a passo svelto e nervoso verso camera sua, chiudendo la porta dietro di sé.
Kuroo cercò di placare il cuore che aveva iniziato a battere troppo forte e si risedette composto sulla sedia. Sentiva un formicolio di irritazione diffondersi nel petto e lungo le braccia, fino alla punta delle dita.
Aveva visto qualcosa che non aveva mai visto sulla faccia di Kenma. Non era propriamente paura, né angoscia. Era più un’indignazione accusatoria che lo fece sentire come se non fosse stato lui quello che aveva pronunciato quelle parole aspre, ma quello che le aveva dovute subire.
Inspirò profondamente e tornò a guardare il libro, senza riuscire a leggerne neanche una parola. Non passò neanche un minuto che lo chiuse con violenza.

Kenma si era rannicchiato sul letto e, con la faccia affondata nel cuscino stretto tra le braccia, aveva cercato invano di svuotarsi la testa. Avrebbe voluto non pensarci, non agitarsi, dimenticarsi quello che aveva detto, ma le tempie che gli facevano male dimostravano che non ce la stava facendo.
Lo sapeva. Sapeva cos’era e cosa facevano quelli come lui, non ne aveva timore: piuttosto, era l’idea del caos a disturbarlo. Avrebbe solo voluto vivere una vita tranquilla, senza doversi muovere troppo, senza alcun rumore che gli perforasse le orecchie all’infuori di un ventilatore d’estate e le fusa del suo gatto.
Invece no, era stato condannato dalla natura a combattere contro pulsioni omicide in modo da trascorrere una vita relativamente serena, costretto a vivere di bugie da cui dipendevano la sua vita e la sua morte, obbligato a raccontarle a persone con cui non era riuscito a instaurare alcun tipo di legame significativo. Tranne nel caso di Shouyou. Ma anche a lui aveva mentito.
Come pensò il suo nome, lo schermo del telefono si illuminò e Kenma poté confermare a se stesso, con un piccolo e amaro sorriso, quanto quel ragazzino fosse tremendo. Prese il cellulare con un sospiro e aprì la mail di Shouyou.
Kenma aveva dodici anni e mancava poco più di un mese alla fine delle elementari e all’inizio della primavera. Da quando aveva conosciuto Shouyou, aveva sempre fatto la strada assieme a lui, all’uscita da scuola, e aveva preso con lui la metropolitana. Era piacevole stare in sua compagnia, ogni giorno aveva qualcosa di divertente da raccontare riguardo a qualcosa che gli era successo a casa o in classe. Kenma non sapeva come facesse ad essere sempre così allegro, o perché avesse un sorriso costantemente stampato in faccia, ma non lo infastidiva: anzi, al contrario, gli piaceva, lo faceva sentire un po’ più leggero, perché ormai quelli erano i suoi venti minuti di svago.
Ogni volta che riceveva una sua mail lo ringraziava mentalmente, perché i suoi messaggi lunghissimi e pieni di punti esclamativi sembravano avere il potere di fargli dimenticare cosa stesse facendo, e gli faceva sentire nel petto una sensazione familiare, come se fosse seduto affianco a lui sul treno della metropolitana.
Rivolse un piccolo sorriso allo schermo e trovò la forza di scrivere una breve risposta, per niente degna, rispetto al papiro che aveva ricevuto.
Fortunatamente le future scuole medie di Kenma non sarebbero state molto distanti dalla scuola elementare, e sarebbe riuscito ancora ad incrociare Shouyou e a sedersi vicino a lui sul treno per tutto il viaggio di ritorno. Kenma ne era felice, perché sapeva che finalmente aveva trovato un amico, e non avrebbe voluto che Shouyou si dimenticasse di lui, né che lui stesso lo lasciasse da solo.
Aveva passato i suoi primi anni a scuola convinto che non avrebbe mai trovato una persona a cui affezionarsi, e non poteva negare che gli dispiacesse, ma non perché si sentisse invidioso nel vedere gruppetti di bambini che ridevano con la pancia in mano e stavano sempre insieme. No, in realtà Kenma si preoccupava di cosa avrebbero pensato gli altri di lui, di come lo avrebbero considerato.
La sua situazione, però, ormai sembrava essere un po’ cambiata: ora aveva Shouyou, aveva Kuroo…
Ah, Kuroo.
Il suo cervello aveva deciso di tornare su di lui, come un cerchio che si chiudeva e dal quale non poteva sfuggire, e tutti i suoi pensieri tornarono a rivolgersi verso ciò che era successo poco prima.
Accettare l’arrivo di Kuroo era stato difficile, all’inizio. Aveva totalmente scombussolato la sua vita e quella dei suoi genitori, e dover cambiare routine era stata la cosa più fastidiosa che gli fosse mai capitata. Però si era affezionato a lui. Era stato inevitabile, condividevano la casa e buona parte della giornata, era un ragazzino simpatico, furbo, buono, ma anche attivo e pieno di energia e Kenma aveva costantemente paura che i suoi genitori potessero spronarlo a prenderlo come modello di riferimento, e lui non voleva.
Non era arrabbiato con lui, ma quando discutevano -e succedeva abbastanza spesso, forse perché erano del tutto divergenti- si sentiva come se Kuroo non sapesse con chi stava parlando.

Quando Kuroo aprì piano la porta, qualche ora dopo, e sbirciò dentro la camera, vide la schiena di Kenma alzarsi e abbassarsi ritmicamente e capì che si era addormentato. Entrò e si sedette sul materasso. Allungò il collo e vide i suoi capelli scuri e un po’ troppo lunghi sparsi sulla coperta e la faccia nascosta contro il cuscino che stringeva tra le braccia.
Sembrava ancora più piccolo, così accoccolato. Era visibilmente più minuto di lui, e il pensiero che avessero appena un anno di differenza era strano. Quando viveva per strada, non era di certo un anno a fare la differenza.
Aveva pensato tutto il pomeriggio a quello che era successo e la conclusione a cui era giunto era una sola: non aveva ancora capito come trattare quel ragazzino.
Avevano vissuto due vite completamente diverse fin dalla nascita, col senno di poi era abbastanza logico che non potesse pretendere che i suoi metodi funzionassero su una creatura così delicata. Forse, appunto, troppo delicata: era di questo che voleva avvisarlo. Avrebbe voluto scuotergli via di dosso quel velo di nivea leggerezza, perché non ci sarebbe stato posto per quella nel mondo. Kenma doveva sbarazzarsene per continuare a vivere. Voleva solo che Kenma sapesse come comportarsi in futuro, evitargli brutte sorprese.
Evidentemente, era stato troppo brusco nel farlo, forse quel velo non era qualcosa che si poteva togliere a comando, e se ci avesse provato sarebbe stato come strappare la pelle dalla carne viva. Doveva trovare la calibratura giusta, imparare a gestire i propri atteggiamenti perché, dopotutto, non poteva pretendere di integrarsi in una nuova società senza sforzo.
Non era una bestia selvatica, aggressiva e senza cuore, ma fino a quel momento si era abituato a coltivare quel lato di sé, anche se non era quello dominante per natura, e ogni volta che vedeva il disagio farsi strada sul volto di Kenma imparava dove fosse il limite.
Kenma sentì delle braccia avvolgerlo e si svegliò con un sussulto. Abbassò gli occhi e vide le mani di Kuroo attorno al suo petto.
-Scusami se sbaglio.- lo sentì sussurrare. -Non so ancora come, ma farò tutto il possibile per farti stare bene.-
Kenma fissò il muro con gli occhi spalancati e sorpresi. Non capiva come gli fossero venute in mente quelle parole.
Non era la prima volta che l’atteggiamento di Kuroo lo disturbava, ma dopo un po’ in genere si riappacificavano grazie alla buona volontà del più grande: Kenma sarebbe potuto rimanere in silenzio per giorni interi, ed era anche abbastanza sicuro che qualsiasi altra persona lo avrebbe lasciato lì sul letto a marcire. Kuroo invece no, Kuroo voleva parlare, mettere a posto le cose, stirare tutte le pieghe di quel lenzuolo raggrinzito, scavare a fondo.
Quel giorno però disse qualcosa di nuovo, e fu proprio quello a stupire Kenma. Farlo star bene? Era quello il suo scopo? Non riusciva a crederci, sembravano solo parole buttate all’aria.
-Io non sono come Bokuto.- fu l’unica cosa che riuscì a dire dopo un lungo silenzio, a voce bassa. Rimase a fissare il muro, perché la forza di muoversi davvero non la trovava.
Kuroo aveva capito cosa intendeva.
-No, non lo sei.-
Strinse le labbra ma non allentò l’abbraccio e Kenma fu sicuro di essere riuscito a recepire tutta la tristezza di quelle parole.
-Perché lo fai allora?- continuò il più piccolo, riprendendo il discorso.
-Perché non devi sostituire nessuno. Voglio essere tuo amico.-
A Kenma sembrò strano sentire quella parola riferita a lui, e il blocco duro e gelido nel suo petto si sciolse come se fosse stato esposto al sole. Era suo amico.
Deglutì e si allontanò quel tanto che bastava per rigirarsi su se stesso, guardarlo negli occhi e parlare.
-Insegnami qualcosa di nuovo. Qualcosa che facevi prima di venire qui.-

Kuroo non se l’era fatto ripetere due volte.
Qualche giorno dopo quella discussione avevano preso la metro ed erano scesi in una zona periferica, poco trafficata e parecchio grigia.
-Tokyo ha molta più superficie di quanto credi.- spiegò Kuroo sfiorando il muro con una mano mentre camminava. -È come se fosse costruito tutto su livelli. Basta guardare bene e abituarsi a vedere punti a cui aggrapparsi e su cui saltare. Ci sono davanzali, sbarre, tetti, sporgenze, lampioni, impalcature…-
Kenma ascoltava con un’espressione non proprio sicura. Era già caduto un paio di volte ed era pronto a tornare a casa, ma Kuroo l’aveva spronato ad essere più risoluto e a non mollare, e l’aveva costretto a restare lì nonostante le ginocchia sbucciate e la stanchezza.
-Mi senti? Mi hai chiesto di insegnarti qualcosa, ma mi sembra che tu non ci stia neanche provando!-
Kenma gli rispose con un verso basso e infastidito, qualche metro più in alto di lui, seduto nella nicchia di una finestra. -Tu lo facevi sembrare più facile.-
-Ma è facile! Basta allenarsi un pochino!-
-… Gatto.-
L’espressione di Kuroo passò da amareggiata a confusa e seguì con gli occhi lo sguardo di Kenma, che a sua volta era diventato incredibilmente attento. Vide un gatto camminare velocemente sul bordo del marciapiede dall’altra parte della strada e, voltando di nuovo il capo verso Kenma, gli mostrò un sorriso ambiguo.
-Se riesci a prendere quel gatto, per oggi non ti faccio fare più niente.-
Kenma lo fissò negli occhi, come per capire se stesse scherzando.
-Serio?-
Kuroo alzò le mani in segno di resa. -Tu mi porti il gatto, io ti riporto a casa.-
Il più piccolo saltò giù e, dopo essersi silenziosamente accucciato per terra, cercò di attirare l’attenzione del gatto dall’altra parte della strada con un debole schiocco delle dita.
-Ehi.- chiamò sottovoce, con un braccio teso.
Il gatto lo ignorò bellamente, continuando a leccarsi il pelo, e il sorriso di Kuroo si fece ancora più ampio, gli occhi ancora più socchiusi.
Kenma attraversò la strada e, non appena l’animale lo percepì, drizzò le orecchie e zampettò via.
-Ti prego non farmi correre.- lo implorò con voce flebile, sperando che Kuroo non lo sentisse, mentre lo seguiva con una camminata veloce all’interno di un viottolo chiuso nel fondo da una rete metallica.
Il gatto si nascose velocemente sotto un cassonetto e Kenma dovette inginocchiarsi di nuovo per terra. Vide le sue pupille dilatate e ritrasse la testa e le mani quando lo sentì soffiare. Guardò sconsolato Kuroo, ma quello non faceva una piega.
-Tu gatto a me, io casa a te.- ripeté come una cantilena, le mani in tasca.
Kenma si imbronciò e si alzò stringendo i pugni.
-Posso tornarci anche da solo, a casa.- borbottò, già incamminatosi verso la metropolitana.
Kuroo lo afferrò per un braccio, poi per le spalle e invertì la sua direzione.
-Guarda, il micio è uscito da là sotto!- esclamò entusiasta e beffardo, indicandogli il gatto che ora se ne stava sul cassonetto, il muso rivolto in alto. -Ce la puoi fare, Ken!-
L’animaletto saltò agilmente sulla rete, la scavalcò e atterrò dall’altra parte senza fare rumore.
I due ragazzi rimasero qualche secondo a guardarlo in silenzio prima che Kenma sospirasse pesantemente.
-Oh, che seccatura.-
Kuroo  lo sentì scivolargli via dalle mani e quasi non poté crederci quando lo vide correre, saltare contro il muro, sul cassonetto, e atterrare dall’altra parte della rete per poi continuare a inseguire il gatto in fuga.

Mezz’ora dopo, Kuroo e Kenma camminavano verso la fermata della metropolitana, quest’ultimo strusciando i piedi per terra e con una palla di pelo tra le braccia.
-Mi hai sorpreso.-
Kuroo sorrideva soddisfatto. L’aveva seguito e l’aveva osservato attentamente mentre correva e saltava da un muretto all’altro, mentre cercava scorciatoie per arrivare al gatto il più velocemente possibile e intrappolarlo in qualche angolo.
-Sei veloce nel pensare a cosa fare, potresti essere molto pericoloso.- aggiunse con una risata bassa.
Kenma non aveva più fiato.
-Odio sudare.- commentò con la minima quantità di voce possibile.
Lasciò il gatto a terra prima di scendere le scale della metropolitana e quello lo salutò strusciandosi contro le sue gambe e miagolando piano.
-Riesci anche a farti amare dai gatti randagi! Basta, me ne vado, sei troppo.- strepitò Kuroo agitando le mani per aria.
Kenma scese i gradini a due a due per raggiungerlo.
-Sei esagerato, ma grazie comunque.- disse, sincero, mentre arrivava il treno e Kuroo gli circondava le spalle con un braccio.
Erano due poli opposti, erano il nord e il sud, ma erano riusciti a toccarsi, in qualche modo, e il sorriso che piegava le labbra di entrambi suggeriva che, da quel momento, dividerli sarebbe stato impensabile.


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Note e chiarimenti
Il titolo di questo capitolo è un verso di Elegy Written in a Country Churchyard di Thomas Gray: molti fiori nascono per sbocciare senza essere visti da nessuno. Ho scelto questo verso per ricollegarmi ovviamente ai fiori del negozio di Tooru e Hajime, ma anche perché credo che Kenma, se non avesse mai conosciuto Kuroo, sarebbe stato proprio come un fiore (dal grande potenziale) nascosto, sarebbe sbocciato senza essere visto, e nemmeno lui stesso sarebbe stato in grado di apprezzarsi.
Ringrazio tutti quelli che hanno inserito la storia nelle preferite/ricordate/seguite e spero che continuerete a leggerla. Il capitolo quattro arriva tra tre settimane!
   
 
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