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Autore: Gatto Magro    01/09/2016    0 recensioni
Per sempre disumanamente tua.
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il lungo addio

 

La prima farfalla sottovuoto.

 

 

 

 

 

 

 

There was a star riding through clouds one night,

 

& I said to the star,

 

“Consume me.”

 

 

 

“E la verginità?”

 

Soffiò perfino in una frettolosa boccata di fumo arancione. Ed era sempre di quel colore, quando abbandonava le sue labbra. Non era colpa del tramonto, pensavo, ma del fuoco che covava sotto la lingua. La luce che si diffondeva obliqua non c’entrava nulla, come non erano blu le mie braccia per il fatto di trovarsi invischiate nelle ombre sottili che i frassini assetati distendevano sui miei polsi. La carne del mondo non era la luce; restarne convinti a diciassette anni sarebbe stato una svista fatale, e già all’epoca mi pareva lampante non dover aggiungere un errore di quella portata alla lunga lista di cazzate che ricamava la mia esistenza. Era già troppo tardi: avere diciassette anni e pensare che la luce potesse essere d’aiuto per decifrare il mondo. Per capire perché ci trovavamo ancora una volta insieme uno di fronte all’altra, seduti per terra a gambe incrociate, il milkshake a sgocciolare sui pantaloni.

 

“Quella no.” risposi. “Solo un orecchino, una scarpa, il mazzo di chiavi di mio fratello. E poi la lente destra degli occhiali da sole, il guanto sinistro, ma quello ancora in terza superiore, conta qualcosa?”

 

Sì, contava, mi fece segno con la testa. Ad occhi chiusi, visualizzando l’elenco di tutte le cose che avevo perso in momenti che da un po’ di tempo avevano preso a brillare fiochi nel buio delle mie notti insonni; puntini luminosi sparpagliati nelle tenebre, come stelle che i miei occhi non riuscivano a far diventare gambe, braccia, archi tesi contro l’universo.

 

E, infine, costellazioni.

 

Ma lui sì, per forza: lui aveva gli occhi azzurri delle creature dei racconti fatati e studiava astrofisica. Lui doveva avere una lente magica, verdastra e spessa quanto il fondo di una bottiglia, contro le quali i miei terrori avrebbero assunti nomi tremolanti e traiettorie polverose. O un cristallo inciso di rune, fantasticavo, che aveva tradotto la voce del cielo quando esso aveva un’altra consistenza, forse un altro colore.

 

“Sono tutte cose che fanno il paio.” disse.

 

Lo ignorai, per forza di cose e perché proprio non riuscivo a rollare la sigaretta, che mi rimaneva incollata ai polpastrelli appiccicosi di zucchero e rimpianti inspiegabili e le cose che non avevo ancora detto a mia madre.

 

“E l’accendino che avevo comprato con Virginie. Lunedì notte, pure quello. Scivolato e inghiottito dall’erba.”

 

Questo perché ormai tutte le notti erano ubriache, infreddolite, con il naso rosso e il passo strisciante. Puntualmente, qualsiasi fosse il punto di partenza – le sedie scompagnate di un pub, le panchine scorticate di un parchetto pubblico, il divano la veranda il dondolo millenario – e lì sì, mi venne in mente, lì c’era sicuramente una costellazione messa insieme dalle stelle smosse con i piedi penzolanti nel vuoto – finivamo a terra, braccia e gambe spalancate, le dita tese spasmodicamente nella carezza innumerevole degli steli d’erba umida che andava a finire dappertutto, ed era proprio allora che un pezzo di vita mi scivolava via dalle tasche e anche dalla memoria, e l’erba se lo beveva insieme alle mie risate forse felici davvero.

 

“Quello, però, non va in coppia con niente.”

 

“Invece sì, perché lei aveva preso le sigarette e una ad una gliele ho accese io. Tu non sai quanto è bella Virginie quando la fiamma di un accendino lambisce il suo viso. L’ombra della sigaretta taglia le labbra nella metà esatta, le attraversa il viso fino all’angolo degli occhi. Tu non lo sai.”

 

“Forse ti stai svuotando a poco a poco.”

 

“Forse sì.”

 

“Forse le stelle vogliono che tu parta leggera.”

 

“Forse sì.”

 

Non ci credevamo affatto.

 

“In quelle notti, li ho abbracciati come mai prima d’allora.” Ma lui non avrebbe mai capito. Infatti mi guardò vacuo, la noia dipinta in volto. Mi bruciavano le labbra screpolate, ma bevvi un’altra sorsata di coca calda tanto per avere qualcosa da fare, per non dover dire nulla. Si chinò verso di me e mi accese la sigaretta – io tenni la mano sul cuore, per nostalgia, e non gli dissi cosa fosse a mancarmi (le lunghe corse in auto, io con i piedi sul suo cruscotto, scomposta e deliberatamente imbronciata, impegnata unicamente a sentirmi stupida e a fumare come una disperata. E a scrutare l’orizzonte per cogliere il mondo in fallo. Ah!, avrei esclamato saltando su sul sedile, scorgendo un errore di sistema, una falla visiva che avrebbe svelato l’inganno. Magari mi aspettavo che il cielo si scollasse dalla terra, o che le persone si deformassero alla periferia del mio sguardo. Non sapevo ancora che non avrei nemmeno dovuto sforzarmi tanto.)

 

“Oggi ho sognato un cadavere. Aveva i capelli rossi, e non l’ho sognato.”

 

“L’hai inventato?”

 

Scossi la testa. Non avevo fantasie così dolorose; paurose, semmai, paralizzanti. Non mi conoscevo abbastanza a fondo da sapermi procurare veramente del dolore.

 

“L’ho vista poco fa, era la mia migliore amica. La mia anima gemella decomposta. Vedessi com’è diventata grande, e saggia, senza di me.”

 

“Enif,” disse, senza più ascoltarmi. “l’orecchino. Pietre false e ricordi amari, adesso pesano solo da una parte della testa. Cammina senza paura, con il volto di profilo, il più schematico e primitivo, diverrai la donna dalla testa d’uccello delle tavole egiziane. Sai che significa?”

 

“No,” sussurrai, con ormai le lacrime agli occhi e i pensieri impigliati a lei, ancora, dopo tutti gli anni mai trascorsi che ci separavano.

 

“Che un giorno imparerai.” Socchiuse gli occhi, guardandomi per la prima volta con dolcezza.

 

“Ras alhague. Il mazzo di chiavi. Ti troverai coperta d’acqua, e lì scoprirai che la morte è attraversata da una porta dai contorni luminosi. La chiave è la seguente: non hai mai perso il mazzo, ma mentendomi hai svegliato la stella, la quale sibila fra le nebulose: sarai Mertseger, che veglia sui morti. Semina bei fiori per loro, ma non insistere ad aspettare le loro risposte, se parlare non vogliono più. Sai che significa?”

 

Scossi la testa. Ero esausta.

 

“Che il bruciore del veleno si attenuerà. Piano piano smetterai di sanguinare. La tua colpa sarà un ricamo sulla tua pelle di seta. Ti sarà dato di decidere dove vuoi veder comparire le cicatrici, ma non sarà sufficiente a non soffrirne. Nella tua ombra si agiteranno i serpenti.”

 

“Alniyat, lo scudo del cuore. Ceduto in pegno per poter attraversare il baratro di Albali senza le scarpe alate. Il guscio lucente, l’ingannevole gabbia per un organo che non esiste più. Indosserai la maschera di corno di Iside, e tramuterai un sasso trovato sulla spiaggia in un nuovo cuore, liscio e inutilizzabile. In un giorno lontano, troverai una mappa e allora saprai di animali estinti, come l’amore. La maschera di corno di Iside ha una strana apertura al posto della bocca, e la tua voce non suona più allo stesso modo. Sai che significa?”

 

“Sì. Ma non dirmelo.”

 

Piegò il capo da un lato, forse per scorgere i miei occhi sbiaditi. Ormai dovevo ridisegnarmeli sul volto tutti i giorni.

 

“Nessuno ti amerà mai quanto ti ho amata io.”

 

“E tu mi hai amata?”

 

“Sì. Disperandomene. Abitando in molti corpi, che mai hanno visto il mondo per com’è davvero. Dal momento che guardavo soltanto te.”

 

Ormai piangevo di quel pianto silenzioso, difforme e totale a cui si dedicano i bambini, quando li prende quella sensazione spiazzante di essere persi nella buia vastità dello spazio, percepita con distinzione e nettezza cartesiana eppure indicibile, inaffrontabile. Perciò si piange. A bocca aperta, con il naso tappato, senza fiato.

 

“Il tuo guanto è finito a orbitare intorno a Tabit, insieme alla mano perduta di Min. Colui che sostiene e protegge ha un’andatura tutt’altro che eroica.”

 

“Ma io chi sono? Il protetto o il protettore?” dovetti pensarlo soltanto, e lui mi sentì.

 

“Le tue labbra sono state fatte perché io vi piantassi le unghie. Non dimenticare l’altra mano di Min, sempre protesa ad affermare: io sono, nell’eterna durata di questo presente io sto esistendo e mi affermo come essere e come creatore. Io sono, dunque ho sofferto, dunque trasformerò il dolore in una sostanza infiammabile con cui darò fuoco alla volta del cielo, tratta dal cranio di Ymir. Vedi? Non è che un pensiero, la trasparenza che ci ricopre. E tu, il mio eroe maledetto, fendi questa liscia materia con le tue dita luminose. Non avere paura. Certe luci non smettono mai di bruciare.”

 

“Altarf, la lente dei tuoi occhiali. La saliva del Leone ha fatto sciogliere la colla che la teneva nella montatura. Il Leone sta dicendo: perché non hai il coraggio di guardarmi negli occhi? Sono scuri abbastanza, per fissare il sole splendente. Taglia le teste di serpente di Qed-her, poi lascia cadere i coltelli – le lame risuoneranno a lungo, precipitando nel cielo e nel ricordo, ché sono la stessa cosa; lui non è tuo nemico, dal momento che respira l’aria dai tuoi polmoni, sente i sapori dalla tua lingua e muore nelle nebbie del tuo fegato. Disperdile. Lui ti insegnerà a digerire la sventura.”

 

Allungò una mano e la poggiò sul mio viso. Se mi avesse mai toccato, prima, non riuscivo a ricordarlo. Le lacrime si raccoglievano sulle sue dita, che parevano berle. Alla periferia della coscienza sentii che stavo per terminarle, nonostante pensassi di poter continuare a piangere per sempre, a partire da quel pomeriggio.

 

“E l’accendino e Virginie.” dissi, un mormorio impastato a fior di labbra.

 

“La Fenice ti farà presto ritrovare una delle sue lacrime. La Fenice è il sole e Virginie è la Luna. Sono nei tuoi occhi: oro nel sinistro, argento nel destro. Non se ne andranno: lo sai. Di me, non chiedi?”

 

“Non occorre,” risposi. “di te so ogni cosa, perché di te ho voluto ogni cosa. Tu mi sei addosso come una pelle, e mi sei dentro come il più denso dei sogni.”

 

“Io sono con te ovunque.”

 

Erano talmente belli i suoi occhi, fusi nel mondo.

 

Non facemmo altro, quel pomeriggio. Ci attendeva il tramonto e la caduta della sera.

 

Avremmo atteso le stelle, e la loro fredda carezza sulle pupille.

 

 

 

 

 

 

 

 













 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note.

 

Forse la coca cola sgasata e i milkshake suoneranno familiari per qualcuno che ha letto una certa mia storia. Chissà. Ma poi, che importa?
Con tutte le dovute scuse all'astronomia e al pantheon egizio,

 

 

sempre più disumanamente vostra,

 

 

 

Gatto Magro

 

 

 

 

 
   
 
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