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Autore: elfin emrys    03/09/2016    1 recensioni
{GerIta, capitolo 3/3}
-Ho sentito dire in paese che lei, signor Vargas, c’era quando l’Italia è caduta!
-Ah, dovrei essere molto più vecchio di così, non crede?
-Certamente, ma queste leggende hanno un ché di affascinante, non trova?
L’anziano sorrise.
-Tutte le leggende hanno un fondo di verità.
-Ma, così lei le alimenta, signor Vargas!
-Non ci trovo nulla di male nel farlo.
Genere: Malinconico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Nord Italia/Feliciano Vargas, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ricordi di un Cantastorie
 
“Ti ricorderai del nostro amore, quando non sarò più? Quando la Storia cambierà il suo corso?”
Il ragazzo posò una carezza sul volto dell’amato, guardandolo negli occhi azzurri. Si avvicinò al suo viso, deponendovi un bacio.
“Sempre.”
-Signor Vargas? Signore?
Feliciano aprì gli occhi, guardando con espressione pigra la giovane che l’aveva svegliato. La luce filtrava attraverso le tapparelle abbassate solo a metà e la finestra aperta faceva entrare un vento caldo. L’anziano spostò lo sguardo verso l’orologio appeso sulla parete bianca e sobbalzò capendo quanto aveva dormito.
-Mi dispiace disturbarla, signore, ma il medico è venuto a visitarla.
Feliciano sorrise all’infermiera.
-Ah, certo. Mi attende da un po’, immagino.
Si alzò lentamente, rifiutando l’aiuto della giovane, che tuttavia si premurò di seguire con le mani i suoi movimenti stanchi. La ragazza gli porse il bastone intagliato e Feliciano lo prese, dirigendosi lentamente verso la grande porta a vetri che dava sul corridoio. Fra le pareti risuonavano le risate roche di alcune signore che si erano radunate in una delle sale a giocare a carte.
-Ah, signor Vargas! Venga anche lei, la prego.
L’anziano sorrise loro dolcemente, accennando a un piccolo inchino.
-Mi rincresce di dover rifiutare l’invito di voi belle signore -le donne ridacchiarono, guardandosi fra di loro- ma, purtroppo, i doveri della vecchiaia mi chiamano.
L’infermiera coprì con la mano il sorriso che le era nato spontaneamente vedendo il rossore sulle guance delle signore. Anche se un tempo alcune di loro erano state distaccate nei confronti dell’altro sesso, l’anzianità, il tempo e, forse, un briciolo di saggezza in più avevano ricucito lo strappo che avevano considerato così tanto prezioso. Il signor Vargas era sempre molto galante con tutte le donne della casa. Aveva una cortesia particolare, tutt’altro che sgradevole, che lo rendeva così simpatico e piacevole a tutti coloro che entravano in contatto con lui.
Feliciano salutò con un inchino accennato le signore e continuò a camminare con calma, girandosi ogni tanto per vedere se l’infermiera lo seguiva. Uscì dal corridoio verde e salì sulle scale, che scricchiolarono in maniera assordante al suo passaggio. Ogni giorno dicevano che qualcuno avrebbe dovuto sistemare quelle scale, ma nessuno sentiva davvero il bisogno di curare i malumori di una casa così antica. L’anziano si fermò qualche secondo a metà del tragitto, riprendendo fiato (questo facevano il caldo afoso e la vecchiaia!). Ogni tanto diceva che ci sarebbe morto su quelle scale e le persone ridevano, cercando di coprire il fatto che, alla sua età, sarebbe anche stato possibile. Riprese la salita, tenendo il bastone per camminare stretto nella mano sinistra e scorrendo la destra sulla ringhiera di legno.
-Le do una mano, signore?
-Grazie per la cortesia, Anna, ma credo di reggermi ancora. Forse.
La ragazza annuì poco convinta e continuò a osservare con apprensione i movimenti del vecchietto. Il signore arrivò incolume fino in cima alle scale e si avviò con calma verso la stanza dove, di solito, facevano ricevere il medico. Un tempo vi era un dottore di trent’anni che alloggiava nella casa, ma era morto tempo prima in un brutto incidente durante un viaggio: un giorno era uscito e, semplicemente, non era più tornato. La tristezza allora aveva investito l’intero edificio e tutti i suoi abitanti, poiché un uomo così giovane era morto così improvvisamente, mentre loro, vecchi e malandati, erano ancora vivi. Da allora veniva direttamente il medico della cittadina a pensare a loro. Un uomo con più esperienza del povero deceduto e altrettanto simpatico.
-Ah, eccola, signor Vargas! Come sta oggi?
-Come sempre, caro Sergio. Queste ossa sono come quelle scale: potete sentire quando vengono usate a chilometri di distanza.
Il medico rise, facendogli cenno di sedersi sul lettino, e chiedendo all’infermiera di avvicinarsi.
-Ho sentito dire in paese che lei, signor Vargas, c’era quando l’Italia è caduta!
-Ah, dovrei essere molto più vecchio di così, non crede?
-Certamente, ma queste leggende hanno un ché di affascinante, non trova?
L’anziano sorrise.
-Tutte le leggende hanno un fondo di verità.
-Ma, così lei le alimenta, signor Vargas!
-Non ci trovo nulla di male nel farlo.
Feliciano si sdraiò sul lettino, seguendo i movimenti del dottore.
-Già nessuno sa cosa facesse prima di venire qui: ho sentito moltissime storie su come sia arrivato fin quaggiù. Qualcuno dice addirittura che lei fosse un soldato nella guerra in cui la Germania venne smembrata l’ultima volta, quella definitiva.
L’anziano sussultò a quelle parole. Mormorò un “Davvero?” con voce rotta e distolse lo sguardo.
-Signor Vargas, si sente bene?
L’uomo non rispose. Fece cenno con la mano di continuare tranquillamente la visita e si mise a fissare la parete bianca e lievemente crepata.
-È evidentemente una falsità, però… sì, questi miti a suo riguardo in qualche maniera le stanno bene addosso. Davvero.
Il medico si sentì morire la voce, vedendo l’espressione del suo paziente. Guardò l’infermiera, che scosse la testa con aria addolorata.
-Davvero… davverobene…
 
Feliciano strinse più forte le spalle nude di Ludwig, lasciandosi sfuggire un sospiro pesante. Poteva sentire le sue mani sui propri fianchi e il suo bacino scontrarsi con la sua pelle velocemente e con un ritmo quasi irregolare. Tentò di andargli incontro, ma il suo corpo stanco gli obbedì poco, spossato dal piacere raggiunto pochi secondi prima. Ludwig si piegò ancora di più sopra di lui, sentendo i muscoli dell’amante aprirsi e chiudersi al suo passaggio. Feliciano lasciò andare la testa indietro e sussultò sentendo l’altro liberarsi dentro di sé.
Il tedesco cadde vicino a lui e gli baciò le labbra. Feli gli passò una mano fra i capelli biondi scompigliati e rispose al bacio, posandogliene altri sugli angoli della bocca e sul mento. Rise, sentendo Ludwig stringerlo a sé e cercare con il viso il suo collo.
Una vibrazione d’avvertimento e il cellulare posato sul comodino cominciò a intonare l’Inno alla Gioia.
“Ve, no, non rispondere…”
“Ha suonato almeno quattro volte anche prima, mentre...”
Feliciano sorrise davanti a quell’imbarazzo ingiustificato e seguì con il palmo della mano il braccio dell’altro, teso a prendere il telefono. La poggiò delicatamente sul suo polso, mentre Ludwig rispondeva cercando di sembrare il più tranquillo possibile.
“Hallo. Ja.”
Feliciano gli baciò la giugulare e accennò a un morso sul collo. Il tedesco gli sorrise e con la mano libera sulla sua faccia lo allontanò.
“Ja. Was ist los?”
Il ragazzo cercò di lottare per liberarsi di quella mano e continuare il suo lavoro.
“…Was?!”
L’italiano smise di giocare, vedendo il sorriso sul volto di Ludwig scemare.
“Che è successo?”
“Prendi il tuo telefono!”
Feliciano scattò in aria sentendo il tono allarmato della voce dell’altro e cercò il proprio cellulare nella tasca dei pantaloni lasciati a terra. L’aveva messo in silenzioso appena si era spogliato e quindi non aveva sentito nien… Feliciano sbarrò gli occhi. Sette chiamate perse dal proprio capo e altre otto da Lovino.
Guardò indietro e cercò con lo sguardo Ludwig, che si stava rivestendo velocemente e stava quasi gridando al cellulare.
Cosa era successo?
Feliciano si riscosse, sentendo le voci dei volontari del paese risuonare nella stanza dall’atrio della casa. Guardò l’orologio e sorrise. Sempre in perfetto orario quei ragazzi. Venivano quattro volte a settimana ad aiutare le infermiere e a tenere compagnia a loro anziani: erano sempre straordinariamente gentili, con tutta la gioia della giovinezza. Era un piacere vederli e sentirli parlare e tutti loro sentivano una profonda felicità nel vedere quanto quei giovani sembrassero lontani dai tragici eventi che avevano sconvolto i secoli prima. Neppure loro, per quanto vecchi, avevano vissuto le profonde guerre che avevano segnato la fine delle nazioni, poiché la vicenda si era dichiarata chiusa quando i loro genitori erano ancora molto, molto piccoli (alcuni, neppure erano nati!). Ma l’educazione impartita loro dai nonni e dai nonni ai genitori era rimasta per molto, molto tempo, prima che l’età li rendesse troppo deboli per continuare a essere severi. Invece, quei giovanissimi avevano una dolcezza tutta diversa, di chi ancora si ricordava quanto facilmente si potesse cadere nel fango e di chi si era ripromesso che non sarebbe accaduto mai più. Avevano la speranza di un futuro diverso e credevano davvero di poter riuscire a cambiare il corso della storia con quell’approccio così entusiasta, così fresco e gioioso.
Una giovane ragazza si affacciò dalla porta a vetri del salotto e mosse la mano in segno di saluto in direzione dei signori e delle signore. Aveva portato con sé un vecchissimo libro e voleva sapere se uno di quegli anziani volesse leggerlo con lei. Dietro apparvero lentamente tutti gli altri. Alcuni portavano antichi giochi da tavolo, altri dei gomitoli o dei ferri per continuare a imparare quelle piccole cose che la signora Daria insegnava loro, altri ancora avevano portato delle caramelle o dei dolci fatti da loro per rallegrare un po’ l’umore, altri avevano portato semplicemente le loro orecchie per ascoltare qualche fantastica storia.
Feliciano sorrise alla giovane Angela, che si sedeva sempre vicino a lui ogni volta che veniva.
-Buongiorno, come sta oggi?
-Molto bene, grazie, cara. Prego, siediti qui vicino a me.
-Grazie, signore.
La ragazza si accomodò sulla sedia di legno e frugò nella tasca dei pantaloni.
-Allora, cosa mi hai portato oggi?
-Ecco, ho trovato questa foto dentro un libro nella cantina di quella casa abbandonata prima della Guerra Totale… È stato un po’ difficile tenerla perché è molto delicata, ma l’ho messa dentro una scatoletta e spero si sia mantenuta bene.
Angela tirò fuori un piccolo contenitore di metallo e la aprì. Dentro c’era una foto in bianco e nero, probabilmente ritagliata da un libro di storia visto che pareva successiva al periodo che ritraeva.
Feliciano la prese delicatamente e la avvicinò al viso. Annuì.
-Sì, è una foto dalla Seconda Guerra Mondiale.
La ragazza spalancò gli occhi.
-Seconda Guerra Mondiale?
-Sì, vedi?
L’anziano si avvicinò alla ragazza e le indicò un uomo nella foto.
-Vedi questa uniforme? È un’uniforme italiana di quel periodo. Stiamo parlando del 1940 circa.
-1940! È così tantoantica?
-No, la foto no, è più moderna, probabilmente dell’inizio ventunesimo secolo.
Angela prese la foto, guardandola come si poteva guardare un fantasma.
-Ventunesimo secolo… È antichissima!
Feliciano rise, coprendosi gli occhi con una mano.
-Sì, se vuoi vederla così. A me sembra così recente…
La ragazza rimise la foto dentro la scatola con ancora più cura e la guardò come se fosse la cosa più preziosa che avesse mai avuto fra le mani.
-Mi racconta la Seconda Guerra Mondiali, signore?
-Mh?
-La Seconda Guerra Mondiale. L’ho letta in qualche libro molto vecchio, ma nessuno sa dirmi precisamente cosa sia successo.
-E cosa ti fa pensare che io lo sappia?
-Beh, lei mi ha detto che questa foto ne ritrae un’altra di allora. E poi lei sa sempre tutto, signor Feliciano! Le potremmo portare anche qualcosa del, non so, del diciottesimo secolo e lei saprebbe dirci che cos’è e da dove viene e saprebbe raccontarci la storia di quel periodo come se lei fosse stato là. Si sapevano così tante cose prima della Guerra Totale, ma poi è andato quasi tutto perduto, tranne che per lei.
L’anziano distolse lo sguardo da quello della ragazza e sorrise tristemente.
-È così che nasce la leggenda che io abbia davvero vissuto tutti quei periodi, vero?
-Credo di sì, signore. Lei racconta tutto con precisione, come se l’avesse vissuto veramente e, invece, a noi paiono tutte favole che appartengono a un mondo lontano lontano.
Feliciano si sistemò meglio sulla poltrona, mentre vedeva qualche altro curioso avvicinarsi per sentire la storia. Angela si protese in avanti, facendo cenno alla sua amica Ofelia di venire a sentire quello che l’anziano signore aveva da raccontare. Qualche altro vecchio mosse leggermente la sedia nella sua direzione, pronto ad ascoltare cose che da giovane aveva sentito solamente alla lontana, oppure non aveva sentito affatto, persi com’erano da generazioni nel solo pensiero di sopravvivere. Feliciano li guardò tutti e attese che ci fosse abbastanza silenzio per cominciare.
-Allora, per parlare della Seconda Guerra Mondiale dobbiamo andare molto indietro, anche prima del suo effettivo scoppio, nel 1939. Dobbiamo arrivare, addirittura, al 1883, vicino Forlì, dove nacque un uomo di cui forse i più anziani fra noi avranno sentito parlare…
Li guardò tutti, notando le loro facce confuse e già rapite dalla storia. Feliciano si fermò un attimo, chiuse gli occhi e, sospirando, iniziò a raccontare.
 
Angela si girò l’ultima volta a salutare il signor Feliciano, che, affacciato alla finestra, li osservava. Non vedeva l’ora di tornare dopo due giorni: la storia di quel pomeriggio era stata davvero avvincente e davvero strana. C’erano tante cose che non era sicura di aver capito e tante su cui aveva molte domande. Per esempio, già si stava dimenticando alcune delle nazioni che erano state nominate.
-Ofelia?
-Sì?
-Stavolta faccio il giro lungo. Devo passare prima dal dottore ché la signorina Gabriella mi ha detto che una signora s’è sentita poco bene questa mattina.
L’amica annuì e la salutò, mentre Angela girava sulla strada per i campi. Camminò dritta sulla strada sterrata, mentre le voci dei suoi amici cominciavano a non distinguersi più, finché non le perse del tutto. Si fermò a guardare l’orto degli Esposito, poi continuò a camminare approfittando del sole estivo che stava tramontando. Angela tagliò in mezzo alle piante di rosmarino che crescevano selvatiche ai lati della strada e cominciò a camminare in a una viottola stretta che tagliava a metà il campo di tulipani rossi. In realtà le venivano un po’ i brividi quando vi passava: la leggenda diceva che un tempo su quella terra si era svolta una terribile battaglia in cui erano morti quasi tutti i soldati di entrambe le fazioni. Una volta terminata, gli abitanti di un villaggio vicino erano andati sul posto a vedere e avevano trovato, come unica cosa rimasta viva, un tulipano rosso. Da allora la popolazione coltivava quei fiori in quel preciso luogo, come ricordo della vita che continuava anche quando tutto sembrava perduto.
In realtà quell’anno avevano avuto una fioritura piuttosto insolita e longeva, che aveva portato grande gioia e speranza all’intera popolazione.
Angela guardò il sole. Il cielo arancione lasciava come dei riflessi sui fiori, il cui colore sembrava ancora più vivo. Lontano, dall’altra parte, a est, già si vedeva spuntare un azzurro cupo che lentamente diventava blu mano a mano che scendeva verso il suolo.
La ragazza sorrise e continuò a guardare avanti, intravedendo in lontananza la casa del medico, che era stata costruita tanto tempo prima poco fuori il villaggio per evitare il dilagare di malattie.
Angela si fermò pochi secondi a guardare il tramonto e già una lieve brezza notturna le accarezzava il viso. La giovane fece pochi passi avanti e sobbalzò appena rigirò lo sguardo sulla stradina.
Un giovane uomo vestito di scuro stava in mezzo alla via. Si stagliava alto e robusto sopra il rosso del tulipani e il giallo striato del cielo.
-Mi scusi… Non… non l’avevo vista…
Angela fece un passo indietro, stringendo le mani dentro le tasche. L’uomo si tolse il cappello, mostrando dei capelli biondi ordinati e un paio d’occhi azzurri e severi.
-Buonasera, Fräulein.
Aveva un accento strano. La giovane lo guardò con diffidenza.
-Io… non mi chiamo “Froilain”.
L’uomo accennò a un sorriso.
-Lo so.
Sembrava un uomo rispettabile, ma quegli abiti strani, quel cappello rigido, dalla visiera scura e lucida le mettevano angoscia, addirittura terrore. C’era qualcosa che non andava in quello straniero, come se non dovesse trovarsi lì. L’uomo ricominciò a camminare, le passò vicino con passo pesante e lei poté vedere meglio il suo viso ben definito. Angela fece qualche passo in avanti velocemente, poi si girò –troppa era la curiosità oltre al timore- a guardare lo sconosciuto. Lo vide camminare con calma, risistemarsi il cappello sulla testa. Batté le palpebre una, due volte, continuò a fissarlo. Guardò in avanti, verso la sua destinazione, poi si rigirò e sussultò. Iniziò a correre verso la casa del medico.
L’uomo era scomparso.
 
Feliciano si lasciò andare all’angolo della strada. Le persone quasi correvano andando da una parte all’altra della città. Era l’Inferno. Sapevano che presto anche quel luogo, con la sua storia, i suoi monumenti, la sua bellezza, sarebbe stato buttato giù. La popolazione, divisa fra chi sarebbe morto con la propria città e chi la avrebbe abbandonata al suo destino, lottava, ognuno per andare dove doveva andare.
Feliciano sentì gli occhi inumidirsi e bruciargli. Tirò su col naso, tentò di alzare la testa, ma la lasciò ricadere lungo lo stipite del portone di quel palazzo. Con il piede spinse un pezzo di vetro, in cui si vide riflesso. Stanco, era, e sporco di terra sulle braccia, sui vestiti e su parte della faccia.
Quanto tempo era stato sdraiato accanto a quella tomba? Quanto tempo era stato senza mangiare, né bere? Feliciano aveva visto il sole e la luna scambiarsi molte e molte volte. Aveva sentito i morsi della fame e la secchezza della sete nella gola. Mal di stomaco, mal di testa. Si era sentito troppo stanco per alzarsi o per muoversi. Solo, ogni giorno girava la testa verso la scritta sulla lapide. Ogni notte guardava i riflessi di quelle lettere metalliche.
Non aveva mai visto una nazione morire, Feliciano.
Sarebbe voluto morire vicino a lui, ma il tempo era passato senza che la morte lo prendesse. Perché? Perché nonostante non mangiasse, bevesse o dormisse, continuava a vivere, a respirare?
Perché la sua nazione era ancora viva, mentre quella di Ludwig era ormai sepolta con lui?
“Feliciano?”
Sentendosi chiamato, alzò gli occhi. Sbatté le palpebre, cercando di riconoscere il viso che gli stava di fronte.
“…Romano?”
Si svegliò, tossendo spasmodicamente. Si batté la mano sul petto, cercando di tornare a respirare bene. Feliciano allungò la mano verso il campanello sul comodino, ma lo urtò facendolo cadere. Sudava freddo, sentiva un peso sullo stomaco. Il campanello fece un rumore assordante che rimbombò nella sua testa, fin dentro le ossa del cranio. Tossì ancora, cercando di rialzarsi, di respirare regolarmente. Poi il peso passò esattamente come era arrivato.
Un’infermiera entrò a tutta velocità dentro la stanza, rossa in viso.
-Signore!
Feliciano le fece cenno con la mano.
-Sto bene, ora, sto bene.
-Dio, Signor Vargas!
La donna gli si avvicinò con aria angosciata.
-Cosa è successo?
Dietro di lei apparve un giovane infermiere. La collega lo guardò.
-Corri a chiamare il medico.
Feliciano le prese la mano.
-Sto bene, ora. Il dottore mi ha visitato l’altro ieri.
-Allora il dottore dovrà rivisitarla.
La donna guardò il viso pallido dell’anziano e gli strinse la mano. Era la prima volta che il signor Vargas si sentiva male.
 
-Non capisco.
L’infermiera guardò il medico con aria preoccupata.
-Non capisco, pare che stia benissimo. È un po’ più acciaccato dell’altro ieri, ma… respira regolarmente, il cuore batte come quello di un giovincello. Forse dovrei fare degli esami più approfonditi.
Feliciano sorrise al dottore.
-Sto benissimo, Sergio.
-Benissimo non direi: ha avuto una crisi respiratoria durante la notte, signor Vargas. Non sono cose da sottovalutare.
L’anziano si alzò dal lettino aiutato dall’infermiera. Il medico stava scrivendo sulla sua cartella. Diede un foglio alla donna e le diede delle istruzioni che Feliciano non capì: troppi paroloni. Sergio gli diede una pacca sulla spalla e gli sorrise.
-Non si preoccupi. Nonostante l’età, lei è sempre stato sano come un pesce.
Il vecchio rise, scuotendo la testa. Era vero, era sempre stato bene. Sempre, anche quando non voleva. Eppure, quella notte… per la prima volta aveva davvero sentito come se avesse fatto un passo più vicino alla propria ora. Per la prima volta aveva sentito il respiro morirgli, come se qualcuno gli stesse stringendo i polmoni, impedendo loro di allargarsi per ricevere aria.
Feliciano uscì dallo studio del medico, cominciando a scendere per andare nella grande sala da pranzo a fare colazione. Salutò con un sorriso e un complimento una signora che stava invece salendo e la sua accompagnatrice.
Sentì un giramento di testa.
-Tutto bene?
Guardò l’infermiera che lo stava scortando.
-Credo di sì.
Ricominciò a camminare.
 
 
Note di Elfin
E finalmente ce l’ho fatta :D Questa storia ha fatto un giro che neppure vi immaginate: credo sia una delle poche cose che io abbia mai scritto che era partita come Originale… ed è finita fanfiction XD Di solito è il contrario, ma pazienza.
Commento di Vale alla storia: “Questa storia è piena di panzeresce!” XD
Spero vi piaccia! Originariamente doveva essere una one-shot, ma poi ho visto che erano 26 pagine e mi sono detta che… che no. Tre capitoli in tutto, già rivisti, corretti, eccetera. Il secondo capitolo ci sarà sabato prossimo!
Lasciate una recensione, mi raccomando, così che mi rialzi il morale ;D E così che mi ritorni la pace, che ho un esame fra cinque giorni e a causa dell’impulso creativo di questa fanfiction sto ancora a carissimo amico -.-“
Grazie intanto per aver letto, ci sentiamo sabato prossimo (o, se commentate, appena vi rispondo XD) ^-^
Kiss
   
 
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