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Autore: Cialy    01/05/2009    4 recensioni
Il mondo là fuori ha ripreso a scorrere con l’obiettivo di dimenticarlo e ciò che gli è rimasto è solo quella torre nera, quella cella che, pian piano, seguendo il suo medesimo destino va in pezzi e uno spiraglio nel muro per osservare, senza poterlo toccare, tutto ciò che ha perduto.
[Fic partecipante alla V Disfida di Criticoni]
Genere: Generale, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Beta: Fireflie, Eowie
Conteggio Parole: 1.760 (W)
Avvertimenti: Vaghi accenni alla violenza e alla morte
Disclaimer: I personaggi della storia appartengono ai rispettivi proprietari e creatori, che ne detengono i diritti. Nulla di ciò è scritto a scopo di lucro.
Note:
• Fic partecipante alla V Disfida di Criticoni e scritta sul bando Affascinante. I tre prompt utilizzati sono stati, rispettivamente: muffa, gelsomino, terra bagnata.
• È ambientata, a grandi linee, nei cinquant’anni di prigionia di Gellert; le indicazioni di anno specifiche si trovano ad ogni inizio di sezione.
• Oltre al cognome di Albus, è in originale anche il nome della Bacchetta dei Doni della Morte (mi spiace, ma “Bacchetta di Sambuco” mi fa veramente schifo. xD Elder Wand è decisamente meglio).
• Il titolo viene dalla canzone All these things that I’ve done dei The Killers, con le opportune – impercettibili – modifiche.
• Grazie, mille grazie, a Fireflie, che mi è stata accanto in modo impeccabile. xD Si è sorbita le mie pare, le idee che continuamente tiravo fuori, le mie ansie e si è letta la fic non so più quante volte. Lo stesso posso dire per Eowie, ecco. Non mi è davvero chiaro come abbiano potuto sopportarmi in questo periodo, sono state proprio magnifiche. ç_ç E un bel ringraziamento lo merita anche Namida, perché sì, ho ossessionato anche lei. (E perché mi ha trascinata lei in tutto questo, ma ssshhh!)
• C’era sicuramente dell’altro, ma l’ho scordato. xD
Non fateci caso, è l’ansia.


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All those things that I have done


1952


A volte, quando apre gli occhi all’improvviso incontrando unicamente il buio della cella, gli sembra che l’odore di muffa che gli riempie le narici arrivi dalle sue stesse ossa.

Non sarebbe poi così strano, finire col marcire tra le tetre mura di Nurmengard, e si rivelerebbe un destino talmente ironico che non potrebbe evitare di riderne persino lui.

Ridere di sé: questo è qualcosa che, ancora, non ha provato. È qualcosa che il mondo esterno, però, fa ormai da tempo. Gli stessi maghi e streghe che, trepidanti, hanno osservato la sua ascesa, gli stessi Purosangue suoi sostenitori, hanno voltato le spalle alla sua caduta, hanno denigrato e rinnegato le sue azioni.

Il mondo là fuori ha ripreso a scorrere con l’obiettivo di dimenticarlo e ciò che gli è rimasto è solo quella torre nera, quella cella che, pian piano, seguendo il suo medesimo destino va in pezzi e uno spiraglio nel muro per osservare, senza poterlo toccare, tutto ciò che ha perduto.


A volte, quando la luce del sole inizia a filtrare e scaccia il buio, questo viene sostituito dai ricordi. Gellert vive con ferite ancora troppo fresche – che, se stuzzicate, riprenderebbero in un attimo a sanguinare – e il peso del fallimento adagiato sul petto.

Vive questi giorni con l’eco di elogi lontani e di grida di vittoria nelle orecchie, che contrastano così tanto con il silenzio di Nurmengard da bruciargli i timpani. Chiude gli occhi e si diverte a richiamare ognuno dei propri successi, a metterli in ordine crescente d’importanza – la fila si chiude sempre con la scoperta del termine della scia di sangue della Elder Wand, con il momento in cui, per la prima volta, l’ha stretta tra le dita e ha avvertito il potere.

Riapre gli occhi e le immagini si spezzano sulla pietra dura del soffitto, la realtà – composta da sogni infranti e fatica sprecata – gli crolla addosso.

All’inizio della sua prigionia si alzava in preda ad una strana ansia, si muoveva – camminando in circolo come un animale in gabbia – tentando di sviare la mente altrove, di non ricordare. Ma, con la scaltrezza di un serpente strisciante, i ricordi continuavano ad insinuarsi nella sua testa.

Adesso, non lotta più, permette loro di fluire e sparire senza provare ad evitarlo. Si lascia riempire dalla sensazione di potere che la Elder Wand gli dava e la guarda scomparire con una fitta acuta di dolore, come l’acqua dell’oceano che si ritira scoprendo la roccia.

Ogni tanto, è lui a richiamarli. Desidera riesaminarli con attenzione, ripercorrerli per scoprire dove, esattamente, ha sbagliato. E l’errore non è mai l’espulsione da Durmstrang, né lo sono le morti di cui si è macchiato le mani: l’errore è uno solo, evidente nella forma di due occhi azzurri che aveva pensato, in passato, di avere la capacità di portare con sé.

L’errore è l’uomo che ha attraversato mezza Europa per mettere fine alla sua ascesa e gettarlo nella polvere. E il risentimento – la rabbia – per Albus Dumbledore batte quello diretto verso chiunque altro, persino quello per se stesso.


A volte, quando i giorni difficili sono seguiti da giorni peggiori, ha voglia di rifiutare completamente i contatti con l’esterno. Paradossalmente, quella prigione si trasforma quasi in un rifugio, in grado di schermarlo dai giudizi all’inizio e dall’indifferenza poi.

Ha preferito non sapere cosa ne sia stato della propria fama – immaginandola calpestata e infangata, ormai inutile dopo essere stata faticosamente conquistata – e non sentire gli scherni e le umiliazioni che il mondo gli rivolgeva.

Eppure, ancora adesso, in quei giorni peggiori, gli sembra che le loro risate giungano fino lì, trasportate dal vento attraverso il tempo e lo spazio, e infestino la cella al pari degli spettri più fastidiosi ed inquietanti.

E comprende che è solo questione di tempo: arriverà un momento in cui l’intera situazione apparirà ridicola anche a lui, in cui l’allungare la mano nell’oscurità alla ricerca di una bacchetta che da sette anni non è più sua gli provocherà il desiderio di deridere se stesso.

Allora sì che sarà davvero finita, e ciò che rimarrà del mago che era si limiterà ad un misero cumulo di ossa e carne destinato ad imputridire e ad infestare l’aria di Nurmengard – il suo potere appena un ricordo sbiadito.



1973


Il cimitero della chiesa odorava intensamente di gelsomino. Le piante decoravano i cancelli e il recinto esterno, scorrevano tra le lapidi, macchiando di fiori bianchi la pietra annerita dal tempo.

Il ricordo torna prepotente, con la stessa nitidezza di un’immagine evocata da un Pensatoio. Gellert si domanda perché – perché adesso, perché proprio quella –, ma non riesce a rispondere, la mente annebbiata dalle sensazioni del passato.

Gli sembra di essere lì, di guardare quelle tombe antiche e scure, di percepire il profumo dei fiori, di avvertire il calore del sole di luglio sulla pelle.

La giornata era limpida e il sole bruciava; se avesse alzato la testa, avrebbe osservato un cielo di un azzurro abbagliante, senza nemmeno una nuvola a sporcarlo. Ma non aveva tempo né voglia di levare lo sguardo: il suo obiettivo era lì, a terra, da qualche parte – doveva esserci, perché non avrebbe potuto sostenere affatto il pensiero di essersi sbagliato. Doveva esserci.

Albus lo precedeva di qualche passo; si era fermato di fronte alla lapide della propria madre e si era perso ad osservarla per alcuni istanti, una punta di dolore negli occhi. Gellert avrebbe voluto richiamarlo, dirgli: “Non adesso, non c’è tempo. Cerchiamola, forza, andiamo”, però aveva ingoiato la fretta ed era rimasto immobile, in attesa.

Non aveva osato riprendere a camminare, finché Albus non l’aveva di nuovo raggiunto. “Dobbiamo trovarla insieme,” continuava a pensare, “così saprà che ho ragione, che è tutto vero.”

Credeva ancora che sarebbe andata bene, allora. Era fermamente convinto, senza nemmeno un briciolo d’incertezza, che una volta attestata la realtà della leggenda, una volta scoperta una traccia, per quanto piccola, ogni cosa sarebbe diventata semplice. Albus non avrebbe più potuto mostrarsi scettico, non avrebbe più potuto negargli la ragione; avrebbe capito, saputo che c’era solo una strada da percorrere e gli sarebbe stato accanto per ogni singolo miglio.

Così come gli era accanto nell’avanzare per il pietroso sentiero del cimitero, schiacciando fili d’erba ed esaminando ciascuna lapide incontrata nel percorso. Nomi Babbani si alternavano a quelli di importanti famiglie magiche, in un contrasto che gli faceva domandare come fosse possibile che i morti convivessero tanto pacificamente, quando in vita gli scontri erano all’ordine del giorno.

Era difficile – se non inconcepibile – allora, ritenere che si potesse arrivare ad un punto in cui determinate cose perdono importanza, sbiadiscono; era difficile ritenere che la morte, benché definitiva, potesse cancellare interi secoli di sfide e dissidi. Eppure la dimostrazione della sua forza era lì, davanti agli occhi di Gellert, ma lui era troppo cieco per poterla vedere.

Quello che vide, pochi passi più avanti, richiamato all’attenzione dalla voce dubbiosa di Albus, fu la tomba di Ignotus Peverell, concreta e reale come mai nulla gli era sembrato prima. Fu la prova che non solo non si era sbagliato, ma che sì, la morte poteva essere sconfitta, imbrigliata, dominata. Fu la prova che, presto o tardi, lui avrebbe trionfato.

Era stato così incredibilmente stolto: quante cose si comprendono con il tempo e la solitudine. E sul petto, adesso, inizia a pesare un macigno dai contorni frastagliati, che lo graffia dall’interno. Non ne è certo, ma teme si tratti di rimorso.



1997


A volte, quando la pioggia cade, Gellert sfida la stanchezza e la debolezza del suo vecchio corpo e raggiunge lo spiraglio che funge da finestra per guardare il paesaggio.

Ultimamente accade spesso: sembra che una grigia coltre nebbiosa sia calata sul pianeta e sembra che non esistano più colori, dilavati via dall’acqua. Sa che questo dipende dagli sconvolgimenti che il Mondo Magico sta affrontando; sa del ritorno di Voldemort, sa della morte di Albus e sa che lì, nella sua torre nera, nulla può davvero toccarlo, perché più nulla c’è da perdere.

La pioggia colpisce il suolo con insistenza, quasi con violenza, e l’odore di terra bagnata che si dipana nell’aria entra persino nella sua cella, dove il resto non prova nemmeno a mettere piede. Gellert non ha più niente da temere dai ricordi – non dopo tutti questi anni, non dopo che il rancore iniziale si è assopito, che l’ira è precipitata nell’insania – eppure quel profumo è legato in modo indissolubile al suo vecchio amico.

Chiude gli occhi, inspira profondamente e vede Albus, nella sua veste luminosa e chiara, avanzare sicuro verso di lui, la bacchetta levata e lo sguardo duro, il cipiglio intransigente di chi è venuto per sconfiggere. Non gli aveva rivolto una sola parola; non a lui personalmente, almeno: parlava al mago oscuro che aveva di fronte, all’assassino che aveva lasciato sprofondare il mondo intero – non solo quello magico, non solo – in una sanguinosa guerra. Parlava a questo nuovo Grindelwald, intimandogli di consegnarsi e mettere fine a quella follia.

Avevano lottato, mentre la pioggia cadeva intorno a loro e l’odore della terra li aveva avvolti insieme a quello di bruciato, degli incantesimi andati a segno. Ancora oggi, Gellert si domanda come sia stato possibile perdere lo scontro; ancora oggi, il dubbio di avere, forse, inconsciamente, provocato di proposito la propria disfatta lo tormenta.

Riapre gli occhi, facendo correre lo sguardo sul prato bagnato e secco che circonda Nurmengard, e decide che saperlo non ha più importanza. Non ora che l’altro è scomparso, svanito per sempre insieme alla possibilità di influenzare ulteriormente la sua vita, non ora che il mondo lo ricorda a malapena – Grindelwald è il nome lontano di una calamità lontana – e non ora che le stesse azioni di cui un tempo andava fiero gli pungolano la coscienza come spilli appuntiti.

Torna a sdraiarsi sulla branda, scivolando nuovamente nell’apatia della sua prigionia. Poche cose possono scuoterlo ormai, e forse la pioggia è quella che ci riesce maggiormente.

Fissando il soffitto di pietra, crepato dal tempo e reso odioso dalla solitudine, Gellert riflette sulla morte. Non si chiede più come dominarla, o sconfiggerla, o sfuggirle, ma pensa a lei come ad un’antica conoscenza che non vede da anni, va alla ricerca dei tratti che gli permetteranno di individuarla.

Si domanda, in particolare, quale sia l’odore che porta con sé. Forse è un miscuglio di cose putride e vecchie, penetrante quanto disgustoso, oppure è la semplice assenza di ogni odore e di ogni desiderio di sentirne. O, forse, la morte arriverà insieme all’odore della terra bagnata, come ha fatto la sconfitta cinquant’anni prima, e allora sarà persino più dolce, più amichevole.

Qualunque esso sia, comunque, Gellert spera unicamente di avvertirlo presto.

  
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