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Autore: DoubleLife    08/09/2016    2 recensioni
"-Oddio, siamo arrivati Kit!!-
Mi limitai ad un sorriso forzato, ma sotto sotto ero eccitata quanto lei. Finalmente eravamo arrivati a San Fransokyo, una delle città più tecnologiche di tutto il mondo. Dal libro di geografia me la ricordavo più antiquata ed orientale, ma per quanto la mia vista si potesse prolungare in avanti riuscivo a vedere dei maestosi grattacieli dalle molteplici finestre toccare il picco del cielo, tipici dell'architettura newyorkese."
Due italiane sbarcano nella caotica San Fransokyo, protetta dai grandi Big Hero 6 da quando hanno sconfitto il malefico Yokai. Ma sarà davvero tutto finito? Scopritelo!
Genere: Avventura, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Hiro Hamada, Nuovo personaggio, Sorpresa, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SAN FRANSOKYO, ORE 8:50
La chitarra suonava come se fosse stata impossessata. Era così eccitante sentire questa canzone. Le mie mani imitavano il pizzicare delle corde del chitarrista, mentre mia sorella non finiva di strillare  come una bambina delle elementari.
-Kit, il ponte di San Fransokyo, guarda!-, picchiettò con insistenza l'unghia rosa confetto curata sul finestrino più euforica che mai, -E' uguale a quella della cartolina!-. 
Odiavo quando usava quella parola. Uguale. Il modo con cui la pronunciava era a dir poco raccapricciante: sembrava un giapponese a pronunciare le prime due lettere-così scure e gutturali- e poi ritornava ad usare la solita voce, terminando con un sorriso che pareva più una boccaccia, facendomi rabbrividire ancora di più. 
Prima che lei potesse aggiungere un'altra delle sue frasi, pescai dalla tasca dei miei jeans il lettore musicale-un bellissimo samsung, avrei aggiunto- e lo impostai al massimo volume. Avrei preferito perdere l'udito, piuttosto che passare l'ultimo quarto d'ora  del viaggio ad ascoltarla mentre indicava  ogni cosa che aveva davanti agli occhi. 
Mentre mi perdevo tra le parole di 'A Real Life' dei Greek Fire con Philip Sneed che mi urlava piacevolmente nelle orecchie, la manica della mia maglietta fu strattonata da quelle unghie malefiche laccate di rosa, mentre dei luccicanti occhi cristallini si piantarono sulla mia faccia, seguita da una moltitudine di ciglia e di lentiggini. Il piccolo nasino all'insù e le labbra sottili si arricciarono in un'espressione meravigliata, mentre proseguiva a parlarmi felice. Quasi mi dispiaceva fingere di starla ad ascoltare e ad annuire ad ogni cosa che diceva, ma probabilmente se l'avessi sentita seriamente non sarei stata capace di seguire il suo discorso per più di cinque minuti e avrei finito per  urlarle in faccia. Non avevo intenzione di mettermi a litigare con lei proprio a fine viaggio, specie se la persona in questione era Serafina, una rompiscatole di prima classe. Se avessero inventato a scuola la materia del 'gossippaggio'(definita così da lei, ma per noi comuni mortali è semplicemente 'spettegolare'), si sarebbe ritrovata un altro dieci nel pagellino di fine anno. Bisognava riconoscere che era una grande studiosa e che la sua curiosità non aveva limiti quando era necessario imparare un nuovo argomento scolastico, ma cavolo. Avrei preferito una sorella più silenziosa e asociale, che a questa sorta di angioletto strepitante, con così tanti riccioli biondi in testa da fare invidia ai cespugli rigogliosi sotto casa nostra!
Ignara del fatto che non la stessi affatto ascoltando, i miei occhi si spostarono sul finestrino, constatando di esser arrivati al capolinea. Il treno frenò dolcemente, accostandosi alla banchina che correva perpendicolarmente alla sua sinistra. Serafina emise un altro squittìo di gioia, convincendomi che quello che si presentava davanti a me non era altro che un topolino di campagna cresciuto più del dovuto.
-Oddio, siamo arrivati Kit!!-
Mi limitai ad un sorriso forzato, ma sotto sotto ero eccitata quanto lei. Finalmente eravamo arrivati a San Fransokyo, una delle città più tecnologiche di tutto il mondo. Dal libro di geografia me la ricordavo più antiquata ed orientale, ma per quanto la mia vista si potesse prolungare in avanti riuscivo a vedere dei maestosi grattacieli dalle molteplici finestre toccare il picco del cielo, tipici dell'architettura newyorkese. 
Mentre mia sorella si alzava dal proprio confortevole posto a sedere intenta a prendere le nostre valigie(e fallendo miseramente, data la sua altezza), rimasi a contemplare il bel tempo che quel giorno valorizzava ancora di più la città e mi misi a contare tutti i puntini colorati ben visibili nel cielo terso; quelli dovevano esser palloni aerostatici.
-Ho bisogno del tuo aiuto, bella addormentata!-. Di nuovo quell'insopportabile voce. La mia testa non ne poteva più.
-Sì, adesso ti aiuto...-, le risposi vagamente, muovendo pigramente le mani. Costretta a bloccare Kygo in 'Firestone' al ritornello, mi alzai dalla mia postazione, ciondolando  da Serafina. Non mi sembrava affatto strano il fatto che mi chiedesse aiuto: messa accanto a me raggiungeva a malapena il mento. 
Presi i bagagli, tra cui un semplice trolley di stoffa rossa logora e uno rosa sgargiante arricchito da una tempesta di brillantini alquanto irritante-come del resto lo era anche la proprietaria dell'oggetto-, ci incamminammo verso l'uscita della stazione. 
La quantità di gente che ci circondava era grande e varia. Prestavo attenzione ad ogni cosa che potevo sentire, dalle risate inglesi, alle battute tedesche ed infine ai battibecchi spagnoli; mancavano solo che si aggiungessero i cinesi e i russi a quel tripudio di lingue, ma ero convinta che anche loro erano sbarcati in stazione. Sentivo ogni tipo di nazione immaginabile, ma non origliai nemmeno una parola in italiano di sfuggita. Che fossimo uno dei pochi turisti italiani a visitare quella fantastica città? Molto probabilmente sì.
Serafina non faceva altro che chiamarmi, chiamarmi e chiamarmi. Sembrava solo che esistessi io sulla faccia della Terra, ma tenni duro fino a quanto mi era stato concesso dalla mia pazienza. Mi voltavo, rispondevo e l'accontentavo. Una bottiglietta d'acqua? Va bene, la compriamo al primo bar che ci capita in stazione(senza perdere qualche battito una volta scoperto il prezzo) e continuiamo a camminare. Il bagno? Okay, ci fermiamo immediatamente ai servizi e ci meravigliamo del fatto che le loro asciugatrici sono all'ultimo grido(e a quel punto fui costretta a  trascinarla fuori dalla saletta, visto che ormai voleva vivere lì dentro, scaturendo le occhiate divertite dei sconosciuti) e riprendiamo il nostro viaggio. Un attimo di riposo, perchè le fanno male i piedi? Le feci passare anche questa, ma le avevo detto che mettersi i tacchi a spillo che le piacciono tanto non le avrebbe giovato affatto durante la camminata.
Così, tra una cosa e l'altra, con il malumore fino alle stelle in un'ora e mezza di supplizio psicologico, uscimmo dalla stazione. Se al chiuso sembrava di stare in un nido di vespe, all'uscita era ancora peggio: una schiera disordinata di persone di tutti i tipi da ogni parte che si potesse immaginare trafficava, tra valigie, borsoni, zaini, carrelli e animali: cani, gatti, cocoriti e addirittura mi era sembrato di vedere un caimano al guinzaglio al fianco di una donna robusta. Ma dove ero accidenti finita?!
Presi per sicurezza la mano di Serafina e, più irruente che mai, mi feci strada in questo trambusto. Feci attenzione a non perdere la presa della minuta mano di mia sorella, mentre questa pipitiava per le vesciche ai piedi e, per fortuna, non avevo tempo per prenderla a schiaffi. Più andavamo avanti, più la folla scemava, fino a giungere in una strada non troppo affollata e abbastanza tranquilla. Mollai la mano di quel cespuglio rompiscatole, che nel frattempo aveva sfogato la sua rabbia mentre la avevo trattenuta, piena di sospetti segni rossi che correvano per tutto il palmo. Invece di scatenarmi adesso, davanti ad un pubblico discreto, decisi di chiudere un occhio anche su quello che scorreva lentamente lungo le linee della mia mano.
Mi guardai intorno, indecisa sul dove  andare. Dov'è che albergavamo in questi giorni? La memoria non aiutava affatto e, preso il cellulare, rilessi con attenzione lo screenshot che avevo conservato nella galleria. Il posto appariva come un'università, particoleggiato dalla presenza di due torri e da una massiccia e imponente statua d'oro di un tipo col cappellino, il che mi fece ricordare della reazione che ebbi quando la vidi  per la prima volta: ero rotolata dalle risate sul letto, fino a cadere per terra. Mi ero fatta male alla testa, ma almeno quella figura aveva migliorato il mio umore, quella volta. Era il tipico impiegato del mese che avresti trovato ad un qualsiasi Autogrill nei pressi di un'autostrada. 
-Mi sembra opportuno chiedere indicazioni, che ne dici?-, mi rivolsi a Serafina, che non aveva perso tempo con il suo telefono per aggiornare lo stato su Facebook.
-Oh...-, incominciò, boccheggiando come un pesce rosso, poi strinse le spalle e sbottò con un 'ok', ritornando a ridacchiare ai post su cui era stata taggata. Bah, che imbecille.
Andai dal primo passante che mi capitò sotto tiro, un uomo di mezza età con il completo grigio e le scarpe lucide nere, e gli domandai in inglese come giungere alla meta. Non sembrò afferrare nessuna delle mie parole, quindi, dopo aver scandito le parole una per una e non aver ottenuto uno straccio di informazione, gli mostrai la foto; allora quello, da prima con un'espressione confusa, capì che cosa gli stavo chiedendo e mi disse in giapponese, con tanto di gesti per giunta, che strada dovessi prendere. Inutile dire che poi mi lasciò più disorientata di prima, perdendomi per la periferia di San Fransokyo. Serafina non aveva fatto altro che seguirmi, tenendo in mano il telefono e cercando la rete wi- fi, lasciando che fossero qualche imprecazione a prendere il posto di parole meno fiorite. 
Alla fine, sfatta ed esausta, mi resi conto che si era fatta ora di pranzo. E, stranamente, lo stomaco supplicava una pausa e anche quello di Serafina, che ricominciò a lagnarsi come era solita a fare. 
-Io ho fame! Non ne posso più di girare e non riposarmi, basta!-. Seccata e più isterica che mai mi piantai davanti a lei: ne avevo abbastanza.
-Senti un po', Miss rompicazzi-di-prima-categoria, mi sto facendo in quattro per capire dove andare. Ho chiesto ad ogni fottuta persona di questo quartiere e mi sto sforzando di rimanere lucida e tranquilla. Per tutto il viaggio non hai fatto altro che parlare, anzi, urlare, lamentarti per i tuoi pidocchiosi tacchi da Barbie e stare attaccata al telefono. Siccome l'unica persona che sà parlare decentemente sei lingue sono io e, visto che te non potresti esser d'aiuto in alcun modo, sei pregata di non fiatare nessuna e dico, NESSUNA parola che potrebbe mettermi ancora più difficoltà o capace di farmi perdere pazienza. Ti giuro sulla tua bella testolina a cespuglio che alla prossima lamentela ti pianto qui, mentre io andrò per conto mio all'istituto di San Fransokyo-. I signori che intanto passavano tranquillamente in quella stradina si erano improvvisamente fermati, man mano che alzavo la voce. -Ti è chiaro? O vuoi che te lo ripeta un'altra volta?-. Mia sorella, che era anche più piccola di me di ben due anni, non proferì nessuna parola e si limitò a guardarmi con gli occhi ormai usciti dalle orbite per lo spavento. 
-C-chiarissimo.-
-Perfetto-. La mia voce si assottigliò fino a diventare un sibillìo che sfiorò la sua fronte. Mi girai dalla parte opposta, rendendomi conto che non mi ero fatta passare inosservata: la gente ci osservava stupiti, come se fossimo state delle attrazioni da luna park. Probabilmente non avevano capito nulla di quello che ci eravamo dette, ma potevo palpare la tensione che si era creata, ora che avevo perso la pazienza. E, ciononostante, ero pienamente soddisfatta della reazione suscitata da ciascuno, più di tutti da Serafina, che aspettava che mi rimettessi a chiedere indicazioni ai passanti. Sembrò che il tempo si fermò per un attimo, ma poi tutti i presenti ripresero a camminare e a continuare ciò che stavano facendo, incluse noi. 
Si prospettava una lunga e faticosa giornata nella fantomatica e rinominata città tecnologica di San Fransokyo.

SAN FRANSOKYO, ORE 18:50
Giravamo a vuoto da circa quella mattina, da quando avevamo lasciato la stazione. Ormai avevo esaurito tutte le energie che avevo in corpo e faticavo a camminare. Per non parlare del fatto che Serafina, da quando le avevo gridato in faccia, non mi aveva più detto una cosa, nemmeno una singola parola. Non che mi dispiacesse ciò, anzi, ero felice che non strepitava più come una cornacchia, ma temevo che fosse potuta cascare da un momento all'altro sull'asfalto della millesima strada che ci aveva suggerito una coppia di anziani dieci minuti prima che piombassimo lì. Non dovevano esser molto comodi quei tacchi, dopo una lunga passeggiata. 
Avevamo entrambe fame e il caldo afoso d'estate si faceva sentire anche lì, a San Fransokyo. In momenti come questi rimpiangevo il pungente freddo d'inverno che, per quanto possa esser gelido, è contrastabile con caldi e morbidi piumini, calzoni di lana e spesse sciarpe pelose. Con il caldo, l'unica cosa da fare è spogliarsi fino a quanto è possibile, ma mantenendo un certo contegno. Avrei girato allora completamente nuda, pur di sentire un alito di vento sfiorarmi la pelle, ma non era della mia indole. Nemmeno Serafina era capace di esser tanto trasgressiva in tali momenti e meno male, perchè lei è solita ad indossare vestiti striminziti e gonne troppo corte per poter passare inosservata. 
Ero ormai sul punto di piangere per la disperazione, quando ci ritrovammo davanti ad uno strano edificio. Sembrava una di quelle case che si potevano vedere solo nei film americani, ma era visibile un'insegna che campeggiava sulla strada perpendicolare alla nostra opposta.
-Lucky Cat Cafè?-. Era Serafina a parlare, con una voce che sembrava più che esausta. Non mi girai, ma avrei voluto dare un abbraccio a quel cespuglio di capelli biondi: temevo che fosse diventata un senza-voce degli Hunger Games.
-Adesso stabiliamo una tregua e ci prendiamo qualcosa-, le dissi, ma sembrò parlare al vento; mi aveva già preceduto. 
Sbuffai e la seguii a ruota. Chi meglio di me non la poteva capire? Era meritevole per entrambe prendersi un attimo di riposo. 
Un campanellino tintinnò allegramente quando mossi il portone. Un'abbondante ventata fresca di aria condizionata mi investì, facendomi rabbrividire dal piacere. Finalmente sentivo una brezza di aria freschissima d'inverno.
La prima cosa che notai fu una signora, bassa e un pochino in carne che faticava di comprendere cosa le stesse chiedendo la cliente, una signorina esile poco più alta di lei per i tacchi a spillo rosa confetto, un vestitino a pois rossi semplice e una cascata di capelli ricci biondi che le cadevano sulle spalle. Aveva ai suoi lati un trolley sgargiante rosa brillantinato, una tradizionale borsa di Louis Vuitton e un'ulteriore borsa per portare i suoi costosissimi cosmetici; gli avambracci lucidi per il sudore erano pieni di bracciali brillanti d'oro e d'argento e al collo aveva un grazioso, ma sobrio ciondolo(cosa strana per me, visto gli accessori che aveva ai polsi), che raffigurava un'evidente 'S' d'oro bianco. Campeggiava sulla sua testolina boccolosa un cappello di paglia da spiaggia, da cui saltava bene all'occhio il foulard blu oltremare che si faceva notare per il grazioso fiocco blu al lato. La visiera ormai era afflosciata per il troppo caldo, anche lei arresasi sotto l'accecante sole di San Fransokyo, per cui la cameriera faticò anche a vederle la faccia. 
Mia sorella era una Barbie in tutto per tutto e non ne andavo molto fiera. Le avevo detto che agghindarsi con qualcosa era giusto, perchè rientrava nei diritti di una donna, ma purtroppo era troppo tardi per correggerla, mentre diventava più grande. Fosse stato possibile, avrei detto ad ogni cittadino di quella città che quella non era mia sorella, ma una sconosciuta qualsiasi. La cosa può esser possibile, viste le chiare differenze che abbiamo: siamo l'opposto noi due. Ma non mi feci tentare da quell'idea tanto malvagia, anche se avrei voluto, e le andai incontro.
-Serafina, sei la solita. Aspetta, ci penso io.-. Lei, balbettando un timidissimo 'help', lasciò che fossi io a parlare con la donna, che era entrata in crisi per quella che era riuscita a capire da una straniera alle prime armi.
-I am so sorry, madam; she is not able enough to speak well english. Could we have a snack, please?-. La naturalezza con cui pronunciai tali parole la riportò alla calma, aiutandola a svolgere il suo lavoro. 
-Oh, yes you can. One moment, please. Take seats in this table!-. La voce era calma, cordiale e gentile, come quella dei passanti a cui chiesi tempo prima indicazioni. La gente di queste parti era molto gentile da quanto avevo potuto constatare. Indicato il tavolo con il palmo girato a due passi da noi, ci sedemmo. Non sentii il fondoschiena appoggiarsi sulla sedia, per quanto mi avesse fatto male in quelle ore. Buttammo senza alcun riguardo i nostri bagagli sul pavimento del cafè e, messe le mani sui graziosi menù che poggiava semiaperto davanti a ciascuna di noi, provammo a leggere le specialità di quel locale. 
Spiegata brevemente ogni portata a Serafina, che mi ascoltava molto attentamente ad ogni traduzione che le facevo, e scelti i piatti, chiamammo la cameriera con cui avevo parlato appena entrata. Lei arrivò dalla rampa di scale che costeggiava in fondo alla stanza, sempre con un delizioso sorriso di cordialità che mi scaldò il cuore. Si fece strada tra i tavolini vuoti del cafè e, con un taccuino, segnò le nostre scelte; poi, con la stessa sveltezza, risalì al piano superiore. Chissà che cosa ci stava di sopra.
-E' un posto delizioso, non trovi?-, disse la Barbie, che poggiava comodamente i gomiti sul piano del tavolo, con le mani che le incorniciavano il viso di porcellana. Annuii, contenta quanto lei di aver trovato un posto del genere per mangiare con calma. Sebbene il locale si presentasse in maniera alquanto rustica, dovevo ammettere che ogni colore entrava in armonia con ognuna delle tonalità presenti: a partire dall'arancio acceso al blu cyan, al verde mela e al motivo grezzo del legno. Le venature ebano sembravano aver preso il sopravvento dentro al locale, ma tutto ciò non faceva che trasmettermi un senso di tranquillità; sembrava di stare dentro alla casa della mia cara nonnina(nel senso positivo).
Io e Serafina parlavamo del più e del meno, cercando un modo per ammazzare il tempo. Seguivo il suo discorso sulla moda attuale e mi aveva rivelato che non le faceva impazzire l'idea di girare con la maglietta corta e con i shorts fluorescenti. Anche se ero una completamente negata per seguire il trend del vestiario come lei stessa faceva, ero pienamente d'accordo con lei. 
-E poi... non fa alcuna differenza se ti metti le cose alla moda, se non hai un fisico bello e slanciato! Dico, ma le ragazzine dei nostri tempi che hanno in testa oggi?-. Parlava lei, che aveva compiuto sedici anni il mese precedente, con un paio di tacchi a spillo a dir poco volgari per una della sua età. L'occhiata sospettosa che le lanciai parlò prima di me, notando poi di averla fatta sentire una stupida.
-A-anche se sono ragazzina, io so mettere le cose bene  assieme, non come quelle della nostra scuola che sembrano abbiano pescato alla cieca nel loro armadio!-. Adoravo quando riuscivo a  farle dire qualcosa di più coerente e sensato di quello che solitamente mi raccontava, escludendo l'importante carriera scolastica che aveva addirittura sorvolato le mie aspettative quell'anno. 
-Pensa che a me non è mai importata così tanto la moda...-
-E invece dovresti!-, squittì indispettita con le sopracciglia grano aggrottate. Oh no, non poteva ricominciare a fare il topolino da campagna proprio lì dentro!
-Hai un fisico così bello... Sai quante volte avresti potuto far cadere ai tuoi piedi quelli del tuo anno?-
-E basta! Sarà la millesima volta che me lo ribadisci, ma a me non frega nulla dei ragazzi, punto e basta. E poi te lo ripeto: la moda non mi interessa affatto-. Stava riemergendo la ragazza minacciosa che ore prima era riuscita a farla zittire per tutto il tragitto; mia sorella però non sembrò tanto intimorita come quando le avevo urlato in faccia in quella via sperduta di San Fransokyo.
-Ridimmelo quando ti innamorerai perdutamente di un ragazzo; vedremo se riprenderai il discorso con la stessa stizza!-, buttò tutto d'un fiato un bicchiere d'acqua fredda e continuò, -Certo che tu sei proprio strana!-. Ricambiai con uno sguardo acido e la imitai nel bere il bicchiere d'acqua, rischiando di strozzarmi per la freddezza che quest'ultima pungeva aspramente la gola. I ragazzi non mi erano mai piaciuti e nessuna delle persone  che conoscevo -inclusa Serafina- ne sapeva il motivo. Non che avessi qualcosa di terribilmente vergognoso da nascondere, come una delusione d'amore o un'attrazione per il mio stesso sesso(cosa che non succederà mai, credetemi). Semplicemente non avevo mai trovato un ragazzo compatibile per la mia persona. Anche se mia sorella mi incoraggiava a buttarmi su uno di quei bellimbusti del mio anno perchè potevo avere chance con qualsiasi di quei ragazzi, io non li consideravo neanche lontanamente alla mia portata. Invece lei, che mostrava in questo modo una certa gelosia nei miei confronti, si sarebbe immediatamente fiondata su Andrea Sala, un ragazzo della mia classe definito da tutte le ochette della sua classe come Mr Muscolo. Ma l'unica cosa che mi passò di mente in quel tavolino da cafè fu il pelatone tutto muscoli della pubblicità con in mano il flacone per  ostruire i tubi del bagno, con la faccia da idiota che lo caratterizzava in televisione e l'orecchino al lobo sinistro. Risi come un'imbecille a quella figura che balenava nella mente, sperando che facesse una visita anche in quella testa riccioluta bionda che reagì più che male alle mie grasse risate, che credeva mi stessi prendendo gioco di lei. Peccato che non avessi ereditato dai nostri genitori dei superpoteri telepatetici; almeno mi avrebbero fatto comodo in quel momento.
Quando Serafina aveva deciso che avrebbe fatto meglio rovesciare l''intera bottiglia addosso a me e mi intimava di smetterla di fare tutto quel baccano, sentimmo qualcuno scendere le scale di soppiatto. La cameriera era ritornata da noi, con in mano due piatti fumanti. Il loro profumo giunse ai nostri nasi, azzittendoci in un battibaleno. 
Serafina aveva ordinato un club sandwich che aveva l'aria di essere superbo, mentre io avevo chiesto delle ali di pollo piccanti e anche queste sembravano di essere assai buone. La cameriera ci pose i piatti, la ringraziammo di cuore e lei, con il cordiale sorriso di un angelo, ritornò ai piani superiori. 
Io e la Barbie ci guardammo, incerte se toccare o meno quelle prelibatezze sui nostri piatti. La presentazione era così perfetta che spostarle avrebbe potuto causare uno squilibrio nell'intero Universo.
-Buon appetito!-. Serafina diede il via a quella strepitosa cena delle sette di sera. Non avevamo mangiato granchè a colazione, data la fretta per raggiungere il treno, ed entrambe non ci vedevamo più dalla fame.
Addentai con gusto una delle alette di pollo, mentre Serafina affondò i canini sulla punta del tramezzino tostato. Nessuna delle due aveva qualcosa da dire: avevamo le bocche troppo occupate per poter spiccicare una parola.
Eravamo così prese dal cibo che non facemmo neanche troppo caso ai ragazzi che entrarono dentro al cafè, sebbene uno di loro, con un berretto giallo banana in testa con stampato un emoji di Whatsapp e una camicia hawaiana che era a dir poco imbarazzante, stesse facendo molto più baccano di quello che avevo fatto io con le mie risate poco aggraziate per Mr Muscolo. Una ragazzina minuta dall'aria rockettara gli diede uno scappelloto, probabilmente intimandolo di smetterla. La cameriera, che si era eclissata al piano di sopra, scese velocemente gli scalini e andò ad accogliere il gruppetto, mostrando più scioltezza con questi che con noi due. Disse qualcosa, poi ci guardò e mi sorrise ed io, spolpata la terza aletta di pollo e presane un'altra, sorrisi a trentadue denti; e mentre un omaccione scuro mi osservava con una strana espressione(forse ero stata poco femminile? Comunque sia non aveva alcun diritto di guardarmi inorridito), la cameriera abbracciò uno dei ragazzi, su cui soffermai la mia attenzione. Era alto dal fisico asciutto e allenato, dalla carnagione dorata. Quando circondò con un affettuoso abbraccio la donna, notai le braccia toniche e il viso, leggermente allungato, la bocca, increspata in un dolce sorriso e una  peluria appena visibile che albergava sotto essa; gli occhi, dal taglio vagamente orientale si riaprirono, scoprendo che questi erano scuri come la notte. Gli vennero arrufati i corti capelli a spazzola dal tipo con il berretto e si mise a ridacchiare; fu musica per le mie orecchie quel brevissimo e piacevole suono. 
Intorpidita da quella visione, mi resi conto dopo che Serafina, finito il primo sandwich, mi guardava con un'espressione interrogativa e si stava chiedendo che cosa stessi fissando. Lasciai ancora una volta che fossero le mie frecciatine minacciose a parlare per me, poichè la bocca era impegnata a mandare giù un altro boccone di aletta piccante. Non doveva assolutamente sapere che cosa avevo appena fatto. Lei abbassò gli occhi terrorizzata, ma avrei scommesso sulla sesta ed ultima aletta di pollo che aveva capito al volo chi aveva  attirato la mia attenzione; mordicchiò impacciatamente uno degli angoli del secondo sandwich, mentre il gruppetto si era accomodato in un tavolo abbastanza grande che costeggiava dietro al nostro ad un paio di tavolini di distanza.
-Non è affatto male, sai?-, disse improvvisamente, con una punta di malizia. Oh cavoli, mi aveva già scoperto.
-Piantala, non è come pensi tu!-, sussurrai nera dalla rabbia, senza che sentissero cosa stessimo dicendo. La bionda boccolosa sorrise e, montando una fittizia ingenuità come lei ne era capace, rispose con tono canzonatorio: -Ma io dicevo il ripieno del panino... è delizioso-. La prima vocale risuonava acida e accompagnava la prima consonante, raddoppiata di almeno tre tempi di troppo. La z era ancora più straziante da sentire, per non parlare della s. Sapeva che odiavo come pronunciava certe parole, ma quella che aveva detto era forse una delle peggiori che lei riuscisse a farla risultare come la più irritante dei termini esistenti della lingua italiana. Trattenni a stento un urlo, mentre questa si divertiva vedermi infuriare senza che io potessi fare nulla capace di farmi sfigurare. 
-Allora ti piace sul serio quel tipo... ma che carina che sei, Kit!-, esclamò tutta contenta Serafina, facendomi sobbalzare dalla sedia più rossa che mai.
-Tanto non ci capiscono affatto: sono giapponesi.-
-Sssh! Non importa nulla, stai zitta!-, le bisbigliai, mettendole le mani davanti alla bocca. 
-Non mi toccare con quelle manacce unte di pollo piccante!-, sbottò schifata mia sorella, lasciando che attirasse tutta l'attenzione dell'assolata sala su di sé. Sentivo che quel ragazzo mi stesse osservando con i suoi amici, per cui ritirai le mani sul tovagliolo di carta e le abbandonai arrendevoli sul piano del tavolo, ungendone il piano coinvolto. Stramaledettissima merda, ormai mi aveva in pugno.
La Barbie sembrò più tranquilla sapendomi indifesa e, con una sfrontata disinvoltura, accennò ad un saluto al tavolo alle mie spalle, lasciandole che le sfuggisse un bel sorriso. Sentii chiaccherare in lingua nippotica dal tavolo rettangolare, come se avessero ricambiato il saluto e ciascunò torno a dedicarsi al proprio tavolo. Adesso Serafina, nonostante stesse ancora sorridendo, mi riservava uno sguardo di ghiaccio. Ero inspiegabilmente terrorizzata da quello che stava architettando quella malefica testolina boccolosa.
-Chiedi del conto, per favore-. Poi, vedendo che ero rimasta taciturna e dubbiosa, aggiunse: -Fallo e ti salvo la reputazione in questo locale.-. La prima volta che minacciò una cosa del genere la presi in giro davanti al ragazzo che le piaceva alla sua festa di compleanno. Ciò che ricordo di quei giorni furono i ceffoni di mamma e il castigo di una settimana. Ero sicura che sarebbe successa una cosa peggiore di quei terribili ricordi se non le avessi dato retta. E, come se avesse chiesto uno dei tre desideri di cui era a disposizione il leggendario genio della lampada, la sua richiesta fu accontentata.
-Ma'am!-. La piccola cameriera sfrecciò alla velocità della luce al nostro tavolo, con un adorabile sorriso di cortesia. -The bill, please.-
Quella annuì e mi portò il foglio con le annotazioni degli ordini e dei prezzi, dandomi infine lo scontrino con sopra riportato la somma da dover pagare. Presi il borsellino, spendendo circa quindici euro italiani. Guardai Serafina, che soddisfatta della mia obbedienza si accarezzò sospettosamente le mani curate, mentre un ghigno stonava sulla sua faccia angelica. Dopo essersi messa un' unghia tra i denti, mi bisbigliò gentilmente: -Adesso chiedile se sa come arrivare all'edificio in cui dobbiamo andare-. 
Il suo secondo desiderio si avverò in men che non si dica. 
Trattenni la cameriera che mi guardava turbata mentre accendevo il display del cellulare. Rovistai per la millesima volta tra le foto scattate, infine piazzando l'immagine dell'edificio apparentemente fascista e di una statua d'oro davanti ai suoi occhi e chiesi nella maniera più carina che potessi se sapesse dove fosse e come arrivarci. I suoi occhi, riconoscendo immediatamente la struttura, si illuminarono e mi informò che i ragazzi al tavolo rettangolare ci andavano ogni giorno. Oh no.
L'angioletto con il sorriso da satanasso che stava dinanzi a me parve di capire attraverso la chiara gestualità della signora quello che mi stava dicendo e con una dolcezza spropositata proferì il suo terzo ed ultimo desiderio.
-Non è che le potresti chiedere se ci ospita da lei per questa notte?-, si rivolse poi alla donna, parlando sempre in italiano, -Non sappiamo dove andare!-. Che strega.
Sperai che mi dicesse che non aveva abbastanza letti a disposizione, o che lei non dormiva e rimaneva alzata ventiquattro ore su ventiquattro in servizio come i vampiri di Twilight, qualsiasi cosa che potesse respingere la sua richiesta. 
-Sure, you can!-. 
La Barbie squittì di gioia e pronunciando goffamente un 'thank you so much', mi guardò con la stessa euforìa della signora, che pareva andare d'accordo con mia sorella.
-Abbiamo ricavato un posto per dormire, che figata!-. Le mie labbra cercarono di incurvarsi per ricambiare il sorriso, ma ci misi non poco impegno per mascherare il mio imbarazzo. 
La signora chiamò la folla del tavolo rettangolare, parlando così velocemente la sua lingua natìa da confondermi ulteriolmente le idee. Quelli risposero, ripresero un breve chiacchericcio e si mossero dalle loro sedie. No, non poteva esser vero: ci stavano raggiungendo nel nostro piccolo e modesto tavolino da tè.
La stravagante gang ascoltò ciò che aveva da dire la donna, proliferando così tante sillabe da non riuscire a capire cosa stessero pronunciando, se una vocale o una consonante; poi, una volta terminato quella sorta di colloquio, la cameriera ci spiegò che avremmo passato il resto della serata con questi simpatici tipi e che, nel frattempo, ci avrebbe sistemato un letto divano che assicurava fosse davvero comodo in queste sitazioni ed infine ci affidò ai suoi amici. 
Calò un imbarazzante silenzio tra di noi e, mentre alzavo incerta la mano, chiedendomi se fosse stata la scelta migliore da fare, mia sorella riprese a cinguettare con la sua voce da cornacchia strozzata quel poco di inglese che sapeva pronunciare decentemente.
-Hi! Nice to meet you!-
***
Salve a tutti! Ritorno con una nuova storia dopo molto tempo. Non ho molto da dire, se non il fatto che alle ultime righe l'inglese è stato trasformato in italiano, poichè non mi andava molto di tradurre il testo. Errore mio, mi scuso moltissimo. 
Bye!
DL
 
  
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