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Autore: Vavi_14    09/09/2016    2 recensioni
Jungkook è rinchiuso tra le mura di un reparto psichiatrico ed ogni giorno lotta contro i fantasmi del suo passato, cercando risposte che continuano inesorabilmente a sfuggirgli. Abituato a combattere fino all’estremo, scoprirà presto i limiti del voler affrontare da solo un conflitto più grande di lui.
̴̴ Non sempre affidarsi a qualcuno è sinonimo di sconfitta.
***
«Jimin, sei stato tu ad insegnarmi che gli umani sono creature preziose, che vanno protette e che senza di loro il mondo sarebbe un posto arido e vuoto».
Ha ancora le sopracciglia aggrottate, ma stranamente mi lascia parlare.
«Ho imparato ad apprezzarli per come sono, con tutti i loro difetti e loro strambe abitudini. È stata dura all’inizio, non capivo perché dovessimo dedicare la nostra vita a proteggere degli individui così diversi e così lontani da noi». Faccio una pausa, il suo volto è meno teso. Sta iniziando a capire. «Ma è anche grazie a loro se ora so cosa vuol dire amare e dare la propria vita per qualcuno».
«Sei disposto a morire pur di salvare Jungkook?»
Conosce già la risposta, la legge nella mia anima.

***
[VKook/Vmin friendship ] Mini long.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Kim Taehyung/ V, Park Jimin
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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August/September









 
 
15 Agosto. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 11:30. Jungkook.

Non è ancora arrivata l’ora di pranzo e mi hanno già imbottito di psicofarmaci. Questa roba non fa altro che narcotizzarmi e basta. Ogni singola cellula del mio corpo è come assopita, immobile e incatenata in una morsa che inibisce ogni impulso vitale.
Loro sono spariti, quelle dannate pasticche blu devono averli spaventati: almeno il mio cervello potrà riposare in pace senza dover udire le loro voci fastidiose. Spesso cerco di ignorarle, seguendo i consigli dei medici, e a volte ho come la sensazione di essermi abituato alla loro presenza. Eppure quel verme schifoso continua ad urlarmi contro tutte le notti, senza darmi tregua, ed è inutile ripetersi che prima o poi si stancherà e che la mia mente lo cancellerà esattamente come lo ha creato, perché tutto ciò che desidero in quei momenti è massacrarlo di botte fino a vederlo strisciare a terra e chiedere perdono.
No, razza di bastardo, non avrai mai il mio perdono. Non dopo quello che hai fatto alla mia famiglia.
L’ultima volta ci sono andato molto vicino, ma gli infermieri mi hanno fermato prima che potessi dargli il colpo di grazia. La mano mi fa ancora male, eppure non è niente in confronto all’inebriante sensazione di avergli finalmente restituito il dolore che lui procurò a me, seppur in minima parte.
La notte dopo però era di nuovo lì, al bordo del letto, e mi fissava con quei suoi occhietti vacui che avevano sempre preteso di giudicare senza mai prendersi la briga di chiedere.
«Hai ucciso mia madre. L’hai uccisa».
Glielo ripetevo tutte le volte, ma non avevo mai ricevuto nessuna risposta da parte sua. Non un cenno di diniego né uno di assenso, niente. Solo urla, urla disumane, così come quando, quella notte di un anno fa, aveva aggredito mia madre, lasciandola a terra in preda a mille singhiozzi, con l’animo distrutto. Dopo la morte di papà, aveva promesso a tutti che si sarebbe preso cura di noi, di me e della mamma, perché in fondo era mio zio e a parte noi non aveva nessuno. Ma i soldi del nostro misero conto continuavano a sparire magicamente, la bollette si accumulavano e mia madre non faceva altro che aggrapparsi a lui perché si fidava e papà le mancava terribilmente. Peccato che quel verme avesse un’amante che lo consumava sino al midollo e che, a lungo andare, consumò anche noi:
l’alcool.


15 Agosto. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 14:30. Jungkook.

«Buonasera Jungkook».
L’infermiera è giovane e parla sempre a bassa voce, tenendo il capo chino. Vorrei che si fermasse di più a conversare con me, ma non dev’essere esattamente il suo sogno quello di passare un pomeriggio in compagnia di un matto che sente voci e vede persone che non esistono.
«Ti ho portato le tue medicine».
Già, è sempre la stessa storia. Guardo il vassoio con le pasticche e sento il pranzo risalire verso l’esofago.
«Come ti senti?» Mi rivolge un sorriso appena accennato ma sincero. Lo apprezzo e vorrei poter ricambiare; purtroppo i muscoli addormentati del mio viso non me lo permettono.
«Non voglio prenderle» dico in risposta, gettando un’occhiata al cocktail letale che mi ha appena portato. So che fare i capricci non serve a nulla e riverso la colpa su quelle labbra incurvate alle insù, che mi danno l’illusione di poter essere accontentato, almeno una volta.
«Sono obbligata a somministrartele. Mi dispiace» Parla in modo schietto, evitando di guardarmi, so di metterla in difficoltà.
«Ho dormito per quattordici ore, voglio stare sveglio». Non demordo perché intorno alle sei arriverà mia madre e non voglio che mi veda in questo stato. Anche legato ad un letto d’ospedale cerco di starle vicino come posso, di trasmetterle una forza che vorrei potere avere per tutti e due, ma che in realtà non posseggo neanche per me stesso.
L’infermiera finalmente alza il capo e posso osservare da vicino i morbidi lineamenti del viso; sembra quasi una bambina. I capelli li tiene legati in una coda alta e spesso mi diverto ad osservarli mentre sfuggono al controllo dell’elastico, ricadendo veloci e fluidi sulle guance e sulle spalle.
«Sai che potrei essere licenziata per questo» mormora iniziando a trafficare con le pasticche, eludendo ancora una volta il mio sguardo. Capisco che sta diminuendo i grammi che dovrò ingoiare con l’acqua, per questo le lancio un’occhiata scettica.
«Allora perché lo stai facendo comunque?» Non credo di averle fatto pena, non mi sembra il tipo di persona che si lascia abbindolare dalle suppliche di un ragazzino.
Lei incastra le sue iridi scure nelle mie, mostrando una fermezza che non credevo potesse avere. «Perché tua madre è una brava donna, Jungkook. E tu…»
Suona un allarme da un’altra stanza e la vedo correre via mentre biascica qualche scusa. Mi alzo a sedere e ingoio le medicine, pregando che il mio stomaco non le rigetti un minuto dopo.



26 Agosto. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 1:30. Jeongkook.

«Vattene, va via!»
Sta facendo avanti e indietro attorno alla brandina, ha un andamento scattoso, veloce, mi spaventa. La signora anziana che condivide la camera con me si volta dal lato opposto, emettendo un grugnito. Per sua fortuna è sorda.
Tiro la coperta fino al naso e strizzo gli occhi. Non c’è, non c’è, lui non esiste veramente. E’ in qualche prigione a marcire lontano da qui.
Le rughe che gli increspano la pelle lo fanno sembrare ancora più vecchio, sento il suo alito insopportabile a pochi centimetri dal mio naso. Urlo, non ce la faccio più ad averlo vicino, e gli tiro un destro con tutta la forza che ho. Lo vedo sbattere contro i ferri di un lettino e cadere a terra, picchiando forte la testa. Un rivolo di sangue segna gli interstizi del pavimento, destando in me la stessa rabbia che provai quel giorno, quando tentai di porre fine alla sua vita davanti agli occhi terrorizzati di mia madre. Lo odiavo e lo odio ancora, con tutto me stesso, eppure non sono riuscito ad ucciderlo, così come ora non riesco a cacciarlo via dalla mia mente incasinata. Perché lui torna sempre, ed ogni volta è più forte di prima.
«Quand’è che ti decidi a morire, eh?» Mi alzo dal letto e gli rifilo un altro calcio prima che possa avere il tempo di rialzarsi, ma nel giro di un secondo sento la porta della camera aprirsi e due infermieri mi bloccano le braccia, trascinandomi a forza sulla brandina.
«Lasciatemi! Non capite? Fin quando non lo ucciderò, lui continuerà a perseguitarmi!». Perché non me lo lasciano fare? Perché non provano nemmeno a comprendere come mi sento? Mi viene da piangere e cerco di divincolarmi ma le mie braccia non sono più forti come prima, i medicinali e la scarsa quantità di cibo che mangio mi rendono ogni giorno più debole; quattro mani bastano e avanzano per immobilizzarmi e costringermi ad ingurgitare altre pasticche che sicuramente mi faranno dormire.
«Vi prego…». Ho la gola secca e le corde vocali consumate. Una volta le usavo per cantare, alla mamma piaceva tanto. Adesso invece, sono urla e lamenti la colonna sonora della mia vita. Prima di cedere alla morsa del sonno riesco a scorgere la sagoma di una donna accanto al mio letto. È sfocata e non riesco a vederla bene, ma compare sempre nei momenti più difficili. Se ne sta seduta su una sedia invisibile, col volto nascosto tra i palmi e i lunghi capelli lisci gli carezzano le braccia come lacrime d’ebano. Sta lì, e piange. Continuamente.



1 Settembre. Luogo sconosciuto, ora sconosciuta. Identità sconosciuta.

«Jimin, non posso più aspettare».
Mi fa strano chiamarlo col nome da umano che si è scelto, ma so di avere qualche possibilità in più e ho tutta l’intenzione di giocarmela al meglio.
Lui si volta e mi guarda con severità. Quel viso un tempo paffutello è ormai divenuto austero e spigoloso. A dispetto della sua bassa statura, Jimin sa incutere soggezione anche al più enorme degli angeli.
«Hai davvero bisogno che ti ripeta qual è il nostro compito?»
Sbuffo, non lo sopporto quando fa così. Siamo cresciuti insieme, è il fratello che ogni angelo vorrebbe avere, ma alle volte sa essere davvero irritante. Mi conosce più di chiunque altro e sa che quando mi metto in testa una cosa è quasi impossibile farmi cambiare idea.
«Il mio compito è proteggere Jeon Jungkook. Lo faccio dal momento in cui è nato ed ho intenzione di continuare a farlo sino alla fine».
«Non potrai proteggere più nessuno se rinuncerai alle tue ali, razza di incosciente».
È testardo e si scalda facilmente, ma io non demordo. «Potrò parlargli, faccia a faccia, non chiedo altro che questo. Ha bisogno di qualcuno che gli mostri le cose da un altro punto di vista».
«Ha bisogno del suo angelo custode, non di un’altra stramba visione!»
«Invece è proprio adesso il momento giusto per andare. Forse non si fiderà subito di me ma-»
«È un suicidio».
«Lo so ma-»
«Dannazione, hai pensato alle conseguenze?»
«Certo che ci ho pensato!» Quasi lo urlo, sovrastando la voce di Jimin. Rinunciando alle mie ali, otterrò la possibilità di essere visto da Jungkook per un determinato periodo di tempo. Un angelo può sopravvivere solo qualche mese in un corpo da umano, dopodiché la sua essenza si sgretola e finisce per scomparire definitivamente. In poche parole, muore. E indietro non si torna.
«Allora che ti prende, sei forse pazzo?»
«Jimin, sei stato tu ad insegnarmi che gli umani sono creature preziose, che vanno protette e che senza di loro il mondo sarebbe un posto arido e vuoto».
Ha ancora le sopracciglia aggrottate, ma stranamente mi lascia parlare.
«Ho imparato ad apprezzarli per come sono, con tutti i loro difetti e loro strambe abitudini. È stata dura all’inizio, non capivo perché dovessimo dedicare la nostra vita a proteggere degli individui così diversi e così lontani da noi». Faccio una pausa, il suo volto è meno teso. Sta iniziando a capire. «Ma è anche grazie a loro se ora so cosa vuol dire amare e dare la propria vita per qualcuno».
«Sei disposto a morire pur di salvare Jungkook?» Conosce già la risposta, la legge nella mia anima.
Annuisco in conferma. «Non posso più vederlo ridotto così. Non sarei il suo angelo custode se non facessi qualcosa».
Jimin sospira e si massaggia le tempie. La nostra conversazione sembra averlo prosciugato dall’interno. Capisco ciò che sta provando più di quanto lui creda.
«Sei il peggior allievo che abbia mai avuto» sussurra, scuotendo il capo. Si avvicina e mi afferra per le spalle, stringendole con forza.  «Se avessi saputo che un giorno sarebbe finita così, non ti avrei neanche-»
Lo abbraccio, soffocando il resto della frase. «Abbi cura di te» mormoro vicino al suo orecchio. «Mi mancherai, fratello». Quando mi allontano vedo i suoi occhi brillare e qualche lacrima tradire quel contegno che aveva cercato di darsi dal momento in cui era stato nominato responsabile degli angeli custodi.
«Resterai sempre ChimChim il piagnucolone» lo canzono, beccandomi un pugno sulla spalla.
«Vedi di non fare casini, laggiù» replica, asciugandosi svelto gli occhi. «Non avrai una seconda possibilità».
Gli sorrido, sperando che la mia partenza non influisca negativamente sul suo modo di vedere gli umani. Come al solito mi legge nel pensiero e ricambia timidamente il sorriso. «Tranquillo, resteranno sempre i miei preferiti». Mi dà un buffetto sul braccio ma la sua espressione torna ad incupirsi.
«Ora vai» aggiunge solo, mentre inizio a sentire le ali svanire poco a poco.
«Addio Jimin».
Un ultimo sguardo, prima di voltarsi. «Addio».


 
1 Settembre. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 15:00.
Jungkook.

Sono ancora immerso in uno stato di dormiveglia. Sento le palpebre vibrare impercettibilmente; so che a breve dovrò sostenere il solito colloquio con lo psichiatra. A dire la verità, da quando sono rinchiuso qui non è che abbia fatto chissà quali progressi, anzi. Purtroppo non riesco ad aprirmi con lui, è troppo difficile raccontare la mia vita davanti ad uno sconosciuto. Faccio ancora fatica ad accettare io stesso ciò che è successo, figuriamoci sbandierarlo ai quattro venti. Quell’uomo è paziente, fossi stato in lui non avrei retto neanche due giorni in mia presenza. Sostanzialmente sono due ore di silenzio quasi assoluto. Mi blocco, è come se qualcosa mi impedisse di tirar fuori la voce: ci provo, ma un groppo alla gola mi assale ogni volta che tento di spiegargli come mi sento. Sa cosa vedo, più o meno, e con quanta frequenza lo vedo. Ha anche parlato con mia madre, ma non è la stessa cosa, ciò che ha vissuto lei non è ciò che ho vissuto io.

Percepisco dei rumori provenire da fuori e apro gli occhi, deciso a ricompormi prima del suo arrivo, ma ciò che mi appare di fronte rischia di farmi cadere giù dal lettino.
Vedo una persona ferma a pochi centimetri dal mio volto: mi fissa come fosse interessato e si scansa all’improvviso solo quando si accorge che anch’io lo sto guardando. Non ha il camice e non è una faccia che ho già visto all’interno dell’ospedale. Non è neanche un paziente, qui dentro sono il più giovane e questo sembra avere la mia età o poco più.
No. Non ancora. Non di nuovo. Non un altro.
D’istinto scendo giù dal materasso, barcollando un poco, e in me inizia a nascere l’amara consapevolezza che anche quella persona non è altro che il frutto della mia mente malata. Vorrei ignorarlo, far finta che non esista, ma lo spavento è tanto e poi sembra diverso dalle solite allucinazioni. Di solito loro non mi guardano così insistentemente.
«Il tuo naso è più grande di quanto pensassi!»
E soprattutto non fanno commenti sul mio naso. Stiamo scherzando? Lo ha detto davvero?
Faccio ancora qualche passo indietro, avvicinandomi alle mura della camera. Per un secondo, solo uno, rincorro la speranza che quel ragazzo sia fatto di carne ed ossa. È l’entrata del dottore, poco dopo, a smontare la mia illusoria teoria.
«Jeon Jungkook, che sta facendo?»
Ha una cartellina in mano e mi osserva con aria stanca. Senza dubbio un convalescente schiacciato su una parete con lo sguardo fisso del vuoto non è una visione troppo stramba per uno psichiatra.
In quell’esatto momento, il ragazzo inizia a farmi gesti strani, agitando in aria le mani e negando con il capo. «Non dire niente di me, per favore». Sussurra marcando i movimenti labiali e io rimango pietrificato, senza riuscire a rispondere alla domanda del dottore. Ingoio saliva a vuoto e continuo a fissarlo. La mia mente è sull’orlo di esplodere.
«Vede qualcuno, Jungkook?». L’uomo riparte all’attacco, avvicinandosi cautamente a me.
Sposto lo sguardo su di lui, con gli occhi ancora spalancati, e annuisco debolmente.
Il ragazzo comincia a muoversi di nuovo, stringendo i denti e segnando impensabili traiettorie con le braccia. Se non fossi paralizzato dal terrore, lo troverei anche piuttosto buffo.
«Chi?» continua il dottore, prendendomi per un polso ed accompagnandomi sulla poltrona accanto al lettino. «Il bambino che gioca?»
No, quello non è così fastidioso; tira la palla al muro e la riprende, ridacchiando di tanto in tanto. Ma lui, questo ragazzo… chi diavolo è?
«Sì, è il bambino» dico invece ad alta voce. Non so neanche’io perché ho mentito, forse ho solo bisogno di inquadrare bene la situazione, prima di riferirla al dottore. «Ma è strano oggi, mi ha… mi ha fissato negli occhi». Invento di sana pianta, infilando nel racconto anche qualche particolare dell’incontro con il ragazzo, che nel frattempo sembra aver assunto un’espressione più serena. Mi rivolge un pollice in su e si siede inaspettatamente sul letto della signora anziana, come in attesa che io finisca di parlare.
Non appena il medico lascia la stanza lui scatta di nuovo in piedi, afferrando con due mani le sbarre del mio letto. Tiro su le gambe, stringendole al petto, eppure non riesco a fare a meno di guardarlo. Ora mi sorride anche. La sua bocca assume una strana forma rettangolare.
«Cosa vuoi?»
Di solito non parlo con le allucinazioni, ma è stato lui a rivolgermi per primo la parola, perciò devo cercare di capire che cos’altro sta succedendo dentro il mio cervello.
«Presentarmi, prima di tutto».
Presentarsi? Sto davvero sforando il limite del ridicolo.
«Ci conosciamo?» Non so perché, mi sembra di averlo incontrato da qualche parte. Forse a scuola, eravamo così tanti che potrei averlo incrociato nei corridoi: si, è sicuramente un’opzione plausibile.
«Più o meno. Io conosco te, Jungkook».
Mh, sembra la battuta di uno stalker.
«Quanto mi conosci?».
E questa la replica della sua vittima.
«Abbastanza da sapere che collezioni profumi da donna».
«Cos-?» Devo essere sicuramente sbiancato perché sento la terra mancarmi sotto i piedi. Nessuno, a parte mio fratello, sa delle essenze che conservo in un cassetto di camera mia. Che poi non sono mica tutte da donna, si tratta di profumi unisex!
«D’accordo, chi cavolo sei?» Mi trattengo dall’imprecare e non ho più voglia di giocare agli indovinelli.
«Mi chiamo Vasariah».
Il timbro della sua voce si fa più basso e quel nome esce dalle sue labbra come fosse l’eco del vento. Sembra quasi che lo abbia detto in un'altra lingua, tanto quei suoni mi appaiono estranei.
«Ma tu puoi chiamarmi V, se ti fa piacere». Si sposta al lato sinistro e si accomoda tranquillamente sul mio materasso. «Sono il tuo custode».
«Custode?» Davvero, penso di aver inarcato un sopracciglio, perché il tutto è oltremodo surreale. «Tipo un angelo custode?» Probabilmente questa conversazione segnerà l’addio definitivo all’ultima briciola di sanità mentale che è in me, ne sono sicuro.
Lui sorride di nuovo, ma stavolta il suo sguardo sembra malinconico. «Solo custode. Non sono più un angelo ormai».
Ok, credevo di non poter arrivare più in basso: a quanto pare non c’è mai fine alla pazzia. Inspiro ed espiro lentamente, chiudendo gli occhi.
«D’accordo V, o come cavolo ti chiami. Chiaramente sto peggiorando, perciò da oggi in poi farò esattamente come mi hanno consigliato i medici. Farò finta che tu non esista, quindi non parlarmi e stammi lontano. Tu e tutti quegli altri maledetti che mi perseguitano. Lasciatemi in pace».
Mi sento un’idiota ad avanzare richieste davanti a qualcuno che è solo un’immagine, come se potesse davvero agire e pensare di testa propria. Loro sono solo un brutto scherzo che l’alterata percezione della realtà mi gioca. Non sono malato, so di non esserlo. Ma devo combatterle se voglio uscire di qua; finché continuerò a vederle e ad essere pericoloso per me stesso, non mi lasceranno mai andare. Devo farcela.
Riapro gli occhi e, a parte la signora che dorme, la stanza è vuota. Il ragazzo non c’è più.



15 Settembre. Ospedale di Seoul, reparto psichiatrico. Ore 18:00. V.

Jimin mi aveva avvertito che non sarebbe stato un compito facile, ma in qualche modo pensavo che Jungkook avrebbe capito. Avevo qualcosa di diverso dagli altri; quel legame speciale che ci aveva uniti da sempre doveva aver lasciato sicuramente qualche traccia di sé nel suo cuore. Anche se in modo inconsapevole, speravo che Jungkook mi riconoscesse come una parte del puzzle che componeva la sua difficile esistenza.
Lo osservo da giorni, ma lui non può vedermi adesso. Fintanto che la sua coscienza mi sarà ostile, preferisco non mostrarmi.
La routine è sempre la stessa e francamente penso che stare chiuso qui dentro peggiori le sue condizioni più di quanto lo facciano i medicinali. Ora che sono accanto a lui, posso vedere nitidamente le persone che lo perseguitano nelle allucinazioni. Le nostre anime rimangono connesse, percepisco ancora ciò che sente, le sue intenzioni e le sue paure.

Proprio mentre sono sovrappensiero, entra un’infermiera, quella che solitamente gli porta la giusta dose di medicine da prendere durante la giornata. Si avvicina a lui e prova a chiamarlo, ma Jungkook sta riposando e ha il respiro pesante. Stanotte lo zio lo ha tormentato anche nei sogni.
Gli si avvicina cautamente, spostandogli le ciocche di capelli sudate dalla fronte. Prende un fazzoletto dalla tasca e gli tampona con delicatezza il sangue che fuoriesce dalle labbra secche e screpolate. Poi si guarda intorno e, dopo un attimo di esitazione, tira fuori dal camice un barattolino in vetro contenente una strana sostanza giallo chiaro. Vi immerge un dito e ne prende un po’, dopodiché la spalma sulla bocca di Jungkook, stando attenta a non svegliarlo. In un attimo le sue labbra sembrano rinate e il suo volto acquista subito un aspetto più sano. Immagino che la ragazza debba tenere molto a lui, si percepisce dalla premura che dimostra in ogni suo gesto.

Jungkook non cena, prende le medicine e si stende di nuovo sul letto. Ha l’espressione di chi si è stancato di lottare. Mi avvicino a lui, accomodandomi sulla poltrona accanto al lettino. Ho promesso a me stesso di non intervenire, non ancora almeno, ma quando Jungkook si sveglia di soprassalto e scorge la figura dello zio in fondo alla stanza, non posso fare a meno di stare all’erta. L’uomo inizia ad urlare, più forte di ogni altra volta che ho avuto l’occasione di vederlo, e le sue orecchie si tingono di rosso, mentre un tanfo di alcool inizia a riempire la stanza. È vomitevole, non so come Jungkook sia riuscito a sopportare tutto questo fino ad oggi. Si alza di scatto e con un gesto deciso lo spinge lontano. Ha gli occhi infiammati di rabbia e le nocche chiuse, pronto a sferrare, finalmente, il tanto agognato colpo di grazia. Le sua voce copre le urla strazianti dell’uomo e io mi guardo attorno preoccupato, pensando che da un momento all’altro sarebbe di sicuro arrivato qualcuno a controllare.
«Se devo morire voglio morire oggi, ma solo dopo averti visto esanime, zio!»
È fuori di sé, non posso lasciarlo in questo stato. In un secondo gli sono davanti e gli circondo le spalle con entrambe le braccia, cercando di tenerlo fermo.
«Ehi! Che cazzo succede? Chi sei?! Ti avevo detto di sparire, lasciami!»
Cerca di divincolarsi ma i suoi muscoli sono deboli, così come la sua forza di volontà.
«Adesso calmati, Jungkook. Calmati».
«Lasciami, voglio ammazzarlo di botte!»
Lo stringo più forte. «Non è così che risolverai le cose». Sento il suo battito cardiaco accelerare, non sta funzionando. Lo libero velocemente, spostando i palmi delle mani sulle sue orecchie.
«Cosa stai-»
«Non ascoltarlo e guardami, ok?»
Tenta ancora di opporsi, ma poco dopo ricambia il mio sguardo e, in preda alla disperazione, preme più forte i miei palmi affinché il suo udito si isoli completamente. Strizza gli occhi e mormora tra i denti qualcosa che assomiglia a un “vattene”, fin quanto la stanza non piomba nel più assoluto silenzio. Allora solleva le palpebre, esausto, per poi crollare tra le mie braccia privo di sensi. Lo trasporto di peso fino al lettino, dove lo adagio con cautela, rimboccandogli le coperte.
«Cerca di dormire, Jungkook. Veglierò io su di te».



























****

Ehilà! Che dire?
Ho provato a cimentarmi in un genere che adoro e odio: l’angst.
Mi piace scriverlo e mi piace leggerlo, ma ci rimango puntualmente malissimo. Sono fatta così! XD
Questa storia nasce come one shot, ma per questioni di leggibilità migliore ho deciso di dividerla in due parti. Probabilmente non è niente di nuovo, sono da poco approdata in questo fandom e ancora non ho letto molto, perciò ho scritto semplicemente ciò che mi passava per la testa. E dato che questa storia mi ha assorbito completamente per tre giorni di fila (tra una pausa dalla stesura della tesi e l’altra) ho voluto provare a condividerla con voi.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto, spero tanto abbiate voglia di proseguirla. Se così fosse, mi farebbe molto piacere saperlo direttamente da voi!
Incrociando le dita affinché i server di EFP funzionino, vi mando un bacio e, qualora decideste di darmi una possibilità, alla prossima! ^^
 
Ps. "Vasariah", lo strambo nome che ho scelto per V, è la denominazione degli angeli custodi di chi è nato tra il 29 Agosto e il 2 Settembre. :)



Vavi






 
  
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