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Autore: Gwen Chan    12/09/2016    6 recensioni
Arthur e Francis sono ormai abituati alle richieste assurde dei piccoli Alfred e Matthew. Ma certo non si aspettano che i bambini chiedano una sorellina per il loro compleanno.
Be', hanno già adottato due bambini. Perché non adottarne un terzo?
Genere: Angst, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: FACE Family/New Continental Family, Principato di Monaco, Seychelles
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Sorellina ~
 
Gestire due bambini di cinque e sei anni rispettivamente significa avere a che fare, nel caos post apocalittico di robottoni, macchinine, palloni da calcio, partite di calcio, stanze che in confronto l’uragano Katrina è una lieve brezza primaverile, con richieste assurde del genere "un biscotto grande come una casa" o "il calamaro gigante come animale domestico". 
Quotidianamente.
Significa passare ore a spiegare perché certi desideri non possano essere esauriti a meno di non sguazzare in fantastilioni di dollari in stile Paperon de Paperoni e trovarsi sempre con richieste se possibile ancora più strampalate delle precedenti.  Per fortuna Arthur e Francis erano ormai diventati dei maestri a riportare l'attenzione dei piccoli Alfred e Matthew su desideri più facilmente esaudibili.
L'ultima richiesta di Alfred era stata vedere un vero alieno. Gli avevano promesso un piccolo telescopio.
Matthew aveva dichiarato a colazione di volere adottare un cucciolo di orso polare. Lo zoo locale permetteva di "adottare a distanza" gli animali in esso ospitati. Era stato sufficiente. Così una volta a settimana si andava a trovare Kumak - eh Kumoj - eh Kemat. Qualcosa del genere.
"Spero che la prossima volta domandino l'ultimo videogioco presentato alla TV. Almeno sarebbe una cosa esistente. Tremendamente costosa, ma esistente" biascicò Arthur con la bocca piena di dentifricio. Lo sputò nel lavandino e continuò: "Cioè, siamo fortunati che non fanno capricci."
“Gli orsi polari esistono" gli fece notare Francis. Teneva una cravatta in ogni mano e stava esaminando con occhio critico l'abbinamento con la camicia scelta per il giorno. 
"Senti, ci siamo già passati. Possiamo avere opinioni diametralmente opposte per qualsiasi cosa, tranne quando si tratta dei bambini. Un unico fronte. Soprattutto per quando si coalizzano."
 
Avevano adottato Alfred e Matthew un paio di anni prima, sebbene i documenti fossero stati regolarizzati completamente solo negli ultimi mesi. Non ricordavano la ragione dietro a una scelta così importante se non un improvviso desiderio di paternità unito a una più ponderata volontà di rendere meno dura la vita per qualcuno. A onore di cronaca era stato Francis a dare l'input una mattina a colazione – Arthur diceva che suo marito avrebbe adottato tutti i bambini del mondo se avesse potuto - e Arthur  era a poco a poco passato dal considerare l'idea come assurda a ritenerla persino fattibile. Così si erano rivolti a un’agenzia specializzata e, siccome ad entrambi provocava disagio il pensiero di dover scegliere un bambino o una bambina come se fosse stata merce su uno scaffale, avevano preferito lasciare carta bianca a chi di dovere.
Poco tempo dopo aver fatto domanda, avevano fatto la conoscenza di due marmocchi biondi e sorridenti che rispondevano al nome di Alfred – centodieci centimetri di energia concentrata – e Matthew – un amore di cucciolo finché rimaneva lontano dalla mazza da hockey.
 
 
Luglio si stava avvicinando e con esso i compleanni dei bambini, il primo e il quattro rispettivamente. Era un periodo che Francis e Arthur attendevano con un misto di trepidazione e terrore. Trepidazione perché allestire la festa di compleanno era qualcosa che entrambi adoravano. Per il primo era l'occasione per dare sfogo al suo culinario estro creativo, mentre il secondo dava il meglio di sé nelle decorazioni.  Magia rispondeva alla folla di madri che chiedevano come avesse fatto dei festoni dove farfalle di carta sembravano prendere di colpo il volo.
Terrore al pensiero di cosa Alfred e Matthew avrebbero chiesto in regalo.
 “Avete pensato a cosa volete per il vostro compleanno?” si decise infine a domandare Francis mentre preparava la spremuta per la colazione.
Matthew e Alfred si guardarono, i cucchiai pieni di cereali ancora sospesi qualche centimetro sopra le ciotole gemelle. 
"Noi" esordirono quasi all'unisono - e c'era da sperare che avrebbero chiesto un'unica cosa da dividere -  "vorremmo" - Arthur incrociò con discrezione le dita sotto il tavolo -  "una sorellina" conclusero esultanti. Ci fu un attimo di imbarazzato silenzio prima che Arthur poggiasse il mug di tè, tirasse indietro la sedia, si alzasse e scomparisse su per le scale. Francis fece cenno ai bambini di finire la colazione.
"Poi possiamo andare a giocare in giardino?" cinguettò Matthew con le mani impiastricciate di zucchero e le labbra sporche di succo. C’erano dei pezzi di cereali sulle guance di Alfred.
“Solo se prima andate a lavarvi la faccia” acconsentì Francis. I bambini annuirono obbedienti, poi corsero via.
 
Francis trovò Arthur in camera da letto, intento a gettare vestiti alla rinfusa in una piccola valigia. 
“Mi sono perso qualcosa?”
Arthur non si voltò nemmeno per rispondere.
“Ho deciso che vado in Islanda a pescare il calamaro gigante. In paragone era una richiesta molto ragionevole.”
 Allungò un braccio dietro di sé agitando appena la mano. “Passami quel maglione” chiese ma Francis scosse piano la testa, prima di cominciare con calma a svuotare la valigia e a rimettere i vestiti nell'armadio, raccogliendoli dal pavimento e da ovunque l’altro fosse riuscito a farli arrivare. “E poi dici che il melodrammatico sono io.”
Arthur abbassò la testa, come se si fosse reso conto dell'assurdità della propria scenata e se ne stesse ora vergognando. Guardò fuori dalla finestra verso il piccolo cortile dove Alfred stava usando il povero Matthew come bersaglio per i suoi lanci.
“A volte mi chiedo da dove gli vengano certe idee. Forse guardano troppa televisione.”
“Hanno solo una vivida immaginazione” replicò Francis, che che dei due era sempre stato il più indulgente.
 
 
Considerato come fosse decisamente troppo presto per fare il discorso ai bambini – Arthur era stato ir-re-mo-vi-bi-le – e non trovando un’idea sostitutiva che fosse soddisfacente, si pensò di chiedere loro il perché di una simile richiesta.
L'idea era venuta ad Alfred. Matthew, venuto a sapere che la presenza di una sorellina lo avrebbe liberato dall'eterno ruolo di principessa da salvare che il fratello gli affibbiava sempre, era stato ben felice di appoggiare il progetto.
“Sapete cosa significherebbe darvi una sorella?”
Matthew e Alfred si guardarono. “Avremmo un'altra persona in casa. Una bambina” risposero senza esitazioni. Alfred anticipò l’obiezione successiva: “La camera mia e di Matty ha abbastanza spazio per un altro letto.”
Non era vero, a meno di non mettere un letto a castello e anche in quel caso una ragazza non avrebbe potuto condividere la camera con due maschi. Avrebbe potuto funzionare per qualche anno, poi avrebbero dovuto trovare il modo di creare un’altra stanza. Arthur ebbe l’improvvisa consapevolezza che il suo studio sarebbe stato considerato come “sacrificabile”.
“E ci sarebbe una mano femminile in casa” aggiunse Matthew, ripetendo a pappagallo quanto sentito in un film.
“Oh, per quello basta Arthur” commentò Francis. Ricevette un calcio negli stinchi.
 
Una sorellina per Alfred e Matthew. Avere un’altra persona in casa. Una bambina. Sarebbero stati in grado di crescerla? Con Alfred e Matthew la questione non si era mai davvero posta. Tuttavia Arthur dubitava delle sue capacità di allevare un essere di sesso femminile, nonostante gli stereotipi legati al suo orientamento sessuale. Si immaginò a comprare gonne, a parlare di trucchi e bambole, a spiegare cosa fosse un ciclo.
Lezioni di danza. Perché ci sarebbero state le lezioni di danza, quale bambina non aspirava a diventare una ballerina provetta?
Nastri per capelli ovunque.
Rosa. Tanto rosa.
E mentre lo immaginava decideva che avrebbe accollato buona parte di quei compiti a Francis che a naso sembrava decisamente più portato.
E poi si immaginò Alfred e Matthew a giocare con una sorellina, come dei piccoli e valenti cavalieri in miniatura. Si immaginò come sarebbe potuto essere avere tre, invece di due, scalmanati a giocare in giardino o a correre per casa. Si immaginò cose come ricevere una spazzola al suono di “papà, mi fai la coda” o tremare nel sentire il primo “papà, ho un ragazzo.”
Si immaginò questo ed altro.
Infine pensò che l’idea dei bambini non fosse poi così assurda.
 
“Non riesco a credere di esserci cascato!” borbottò comunque in fila per una serie di documenti. Francis aveva portato i bambini in piscina. Ogni occasione era buona per sfuggire all’incubo della burocrazia, eh. Arrivato davanti all’impiegata, Arthur cercò di spiegare a grandi linee la situazione senza apparire uno stupido.
“Cioè, mi rendo conto che le motivazioni potrebbero essere poco ortodosse, ma è il fine che conta, no? Cioè, l’ultima ispezione è andata bene.”
La voce del buon senso gli suggerì di tacere. Già, probabilmente era infinitamente meglio che blaterare come un adolescente con un vocabolario da prima elementare davanti a un’impiegata che forse stava pensando di chiamare i suoi superiori per dire che, no, il signor Arthur Kirkland non era una persona calma ed equilibrata come era parso all’inizio.
“Be’, come sa bisognerà controllare che la vostra situazione finanziaria e familiare sia adatta ad un adozione. Tre bambini possono essere difficili da gestire. Soprattutto in età prescolare se non c’è nessuno in casa.”
“Matthew va già a scuola. E Alfred si iscriverà in prima elementare a settembre. E sia io sia mio marito possiamo chiedere di lavorare da casa per un certo periodo.”
L’impiegata annotò qualcosa sul proprio computer da ufficio. Disse che qualcuno avrebbe telefonato a breve per fissare un’ispezione e un colloquio.
“Nel caso in cui tutto andasse liscio, avete qualche preferenza?”
Arthur ci rifletté sopra. “Che abbia più o meno la stessa età degli altri due.”
“Perché non fate scegliere ai bambini?”
“Mi scusi?”
“Perché non fate scegliere ai bambini chi vorrebbero come futura sorellina?”
“Mi sembra altamente inappropriato” ribatté Arthur scivolando sull’accento British che oltre dieci anni negli USA avrebbero dovuto cancellare, ma che invece riemergeva sempre quando era irritato.
Quotidianamente insomma.
L’impiegata gli porse ugualmente un biglietto dove aveva scritto l’indirizzo del sito in questione.
 
Una settimana dopo, mentre Francis ritagliava inviti di compleanno, Arthur decise che dare un’occhiata non avrebbe fatto male a nessuno. Era un sito chiaro e immediato, dove ogni bambino papabile di adozione aveva la propria scheda informativa, completa di allergie, problemi fisici e malattie ereditarie.
Tutto molto trasparente.
Stava studiando il profilo di un certo Will – dodici anni e appassionato di nuoto – quando una palla passò sfrecciando sopra la sua testa dalla finestra – chiusa - per finire a rimbalzare contro il muro, mancando di pochi centimetri il quadro lì appeso.
“Scusate!”
Matthew e Alfred non ebbero nemmeno bisogno di essere chiamati per presentarsi sul luogo del misfatto, le teste basse e strascicando i piedini.
“Qual era la regola per giocare a baseball in giardino?”
“Non stare vicino alle finestre” pigolò Matthew
“E?”
“Non fare fuoricampo” aggiunse Alfred che pareva aver cancellato dal suo vocabolario la parola “lento”.
 
“Mi piace lei!”
Arthur fece un balzo sul posto. Matthew era il genere di bambino tranquillo e silenzioso che poteva stare in una stanza senza essere notato da nessuno. Sarebbe diventato un’ottima spia. O uno psicopatico serial killer a causa di un trauma infantile del genere “mio fratello mi usava come bersaglio per le freccette”. Il bambino al momento stava semplicemente indicando la terza foto della prima riga sulla schermata del computer. “Alfie, vieni a vedere!”
“È come Tempesta!”
La bambina era l'unica tra le venti foto della pagina ad avere la pelle scura. Non sorprendeva che i bambini l'avessero notata subito.  Arthur cliccò sulla fotografia. Michelle. Madre di origini africane (Seychelles), padre sconosciuto. Sottratta alla famiglia per sospetti abusi. Quattro anni. Nata probabilmente il 29 giugno. Allergia ai latticini. 
 
Se c’era una cosa che Arthur e Francis avevano imparato su Alfred e Matthew era che sapevano essere molto insistenti quando si fissavano su una cosa. Non il genere il insistenza capricciosa, ma quell’insistenza argomentativa contro cui non c’erano difese.
L’ispezione poi era andata bene.
Fu così che Arthur si ritrovò a cercare di guidare senza investire qualcuno mentre due scalmanati saltellavano sul sedile posteriore. Avevano tanto insistito a voler andare a prendere la loro nuova sorellina che Arthur si era trovato costretto ad accettare.
"Matthew, Alfred, la prossima volta che sento il rumore di una cintura slacciata vi riporto a casa" minacciò, imbroccando una curva un po' troppo velocemente. Nello specchietto retrovisore vide Matthew rotolare contro il fratello e di nuovo al suo posto quando la vettura tornò a proseguire in linea retta. Arthur rallentò. Alfred e Matthew allacciarono obbedienti le cinture. Poi le slacciarono. E le riallacciarono.
Arthur si era quasi abituato al continuo rumore metallico delle fibbie quando parcheggiò finalmente la macchina nello spiazzo davanti al centro sociale. Spense il motore senza togliere la sicura alle portiere, consapevole che i bambini non avrebbero aspettato un secondo per sciamare via. Poi scese per aiutare Alfred a scendere dal seggiolino. Matthew viaggiava già senza. I piccoli  trotterellarono entusiasti alla volta del portone di ingresso, troppo bassi per raggiungere i maniglioni antipanico, mentre Arthur si dava al contorsionismo per montare il seggiolino per Michelle.
 
Di quel giorno Arthur avrebbe ricordato solo un persistente mal di capo e il fatto di essersi addormentato a tavola con la testa che minacciava di ciondolare nel purè di patate. La giovane che li aveva accolti - "Miss D." - aveva proposto ai bambini di aspettare nella sala dei giochi, dove avrebbero potuto salutare i loro vecchi compagni, ma i due non ne avevano voluto sapere preferendo correre per il corridoio  - Alfred correva, Matthew cercava di fermarlo – mentre Arthur firmava una serie infinita di carte.
“Al momento non riusciamo a contattare la madre. Rimane sempre il rischio che ricompaia e chieda della bambina. Finché il giudice minorile non ratificherà l’adozione Michelle sarà solo in affido provvisorio secondo la legge. Lei comprende vero?”
Sì, comprendeva. Sperava tuttavia che la faccenda in tribunale si sarebbe sbrigata in fretta. Sapeva quanto poteva essere stressante per dei bambini. Tuttavia, aggiunse, se la madre avesse riottenuto la potestà sulla ragazzina, non avrebbe protestato. Era sua madre, dopotutto.
La piccola Michelle aspettava in uno dei dormitoi, tirata a lucido, con i piedini poggiati sul coperchio morbido della sua valigia. Non cercò di nascondersi, ma alzò con curiosità gli occhi scuri.
Alfred e Matthew le corsero subito incontro, uno per lato, sommergendola di domande. Alfred provò anche ad “assaggiarla” mordendole una guancia, ottenendo in cambio uno schiaffo in miniatura. Vivace la ragazzina! Gli occhi del bambino si riempirono di lacrime mentre correva a nascondersi dietro le gambe del padre. Arthur si scusò, portando Alfred fuori dalla stanza perché si calmasse. Si inginocchiò per guardarlo negli occhi. “Non ci si comporta così con una signorina.”
Alfred si asciugò il naso con la manica della felpa. “Volevo sentire se sapeva di cioccolato!”
Arthur sorrise suo malgrado, poi prese dalla tasca un fazzoletto pulito perché il bambino si pulisse la faccia e si soffiasse il naso.
Rientrando nella stanza, con le dovute scuse, trovarono Matthew e Michelle che chiacchieravano piano sul pavimento. La bambina si alzò in piedi, scuotendo la gonna a palloncino, si guardò attorno, infine si volse verso Miss D. La donna si chinò per dirle qualcosa. Quando ebbe finito, la bimba camminò titubante verso Arthur. Matthew la prese per mano.
Prima di andarsene, Arthur si avvicinò a Miss D. abbassando la voce perché la conversazione rimasse tra gli adulti. “Michelle sa … insomma, le avete spiegato che … la sua nuova famiglia sarà … diversa da quella degli altri bambini?”
“Quando abbiamo trovato Michelle non mangiava e non veniva cambiata da due giorni. Sua madre a malapena si ricordava di avere una figlia. Avere due genitori gay sarà l’ultimo dei suoi problemi.”
“Spero che lei abbia ragione. Andiamo bambini.”
 
“Allora, com’è andata?” li accolse Francis in cucina, asciugandosi le mani con uno strofinaccio. Arthur guardò lui, poi Michelle, incrociando le dita. Francis si accovacciò di fronte alla bambina.
“Ti chiami Michelle?”
Michelle annuì, gli angoli della bocca appena rivolti verso l’alto.
“È uno splendido nome. Io mi chiamo Francis. Spero che non ti dispiaccia avere due papà.”
“Non credo” mormorò Michelle, seria come solo i bambini sanno essere. Poi: “Ho fame”.
 
 
Pochi giorni dopo, già ambientatisi, Michelle faceva il broncio perché i suoi nuovi fratelli insistevano a volerle dare un ruolo preciso nei loro giochi.
“Ma io voglio fare lo stregone!” protestava, pestando i piedini. “
“Ma ci serve una principessa!” gridò Alfred che aveva già reclamato per sé il ruolo di eroe della fiaba e non lo avrebbe ceduto a costo di giocare da solo. Sul prato erano sparse spade e corone di cartone, mantelli ricavati da vecchie lenzuola, qualche scatola da trasformare in un castello e persino la testa di un drago in cartapesta dall’ultimo carnevale.
A quanto pareva Matthew avrebbe continuato a fare la “principessa”.
 
***
 
A otto anni Michelle, innamoratasi dell’acqua dopo una gita al mare, pregò i genitori di iscriverla a un corso di nuoto.
Occorrevano quaranta minuti, due mani e una trentina di forcine per costringere i capelli di Michelle sotto la cuffia di gomma. La ragazzina avrebbe presto imparato a compiere da sola una simile operazione, ma ora era ancora Arthur a stare in piedi fuori da uno spogliatoio pieno di mamme, con la bocca occupata da un paio di elastici, a cercare di ricordarsi come si facevano le trecce.
"Ahi" protestò Michelle quando Arthur si liberò di un nodo tirando con troppa forza. 
"Scusami, sweetie."
A volte una delle mamme si avvicinava, con premura e solidarietà, offrendogli un aiuto che Arthur non rifiutava. Eppure vedendo fare in pochi secondi quello che gli richiedeva il triplo del tempo, a volte si sentiva di troppo. O fuori posto. Vedete, nessuno lo fissava con curiosità quando accompagnava Alfred agli allenamenti di pallacanestro o Matthew a quelli di hockey. Nessuno gli domandava "La madre era impegnata?" Nessuno chiedeva se fosse vedovo. O divorziato.  Ma in piscina, tenendo Michelle per mano, con lo zainetto di scuola della Sirenetta su una spalla e la borsa col logo della palestra sull'altra, erano cose che Arthur doveva gestire. 
Michelle lo tirò per la manica della giacca. “Papà, la lezione sta per cominciare” gli fece notare saltellando impaziente con una treccia ancora fuori dalla cuffia. Arthur gliela sistemò prima che Michelle potesse correre via.
“La lezione finisce alle sei e mezza” gli ricordò la bambina, prima di scomparire dietro il portone color acquamarina sporca che conduceva alla piscina della palestra.
Tutto questo accadeva ogni singolo mercoledì.
Il venerdì invece toccava a Francis accompagnare Michelle a lezione di danza, finché la ragazza non avrebbe dichiarato qualche anno dopo di non poterne davvero più.
 “Lo fanno anche con te?” chiese Arthur infilandosi sotto le coperte dopo aver dato il bacio della buonanotte ai bambini.
“Cosa?”
“Le mamme. Sommergono anche te di domande?”
Francis soffocò una risatina dietro il pugno chiuso. “Domande del tipo dov’è mia moglie?”
“Esatto.”
“Lo facevano una volta”
“Una volta?”
“Prima che mostrassi loro una tua foto. Mia moglie. Oh, avresti dovuto vedere le loro facce.”
“E Michelle?”
“Michelle ha altro a cui pensare.”
Cose come vincere le regionali dei 100 metri stile libero della sua categoria, portata in trionfo dai suoi compagni di squadra dal palazzetto dello sport fino a casa.
 
***
 
Alfred e Matthew sedevano fuori dall'ufficio del preside. Il primo teneva premuta una sacca di ghiaccio sull'occhio destro e sul labbro spaccato. Un filo d'acqua gocciolava sulla gola dentro lo scollo della maglietta. Le nocche erano scorticate.  Tuttavia era Matthew quello messo peggio. Gli avevano appeso il braccio sinistro al collo. Una macchia rossa si stava allargando vicino all'attaccatura dei capelli, sotto la fasciatura improvvisata. Il naso era gonfio.
“Allora cosa è successo?” domandò Francis con calma. Se Alfred e  Matthew erano abituati a sentirlo urlare soprattutto contro Arthur, sapevano che dovevano preoccuparsi quando la sua voce diventava gelida.
“Non è colpa loro” si intromise Michelle alzandosi. Doveva essersi unita alla rissa anche lei a un certo punto, altrimenti non si spiegavano i gomiti graffiati e le ginocchia sbucciate.
“Con te parlerò dopo” la bloccò Francis, prima di tornare a fissare gli altri due, le braccia incrociate sul petto. Matthew e Alfred si guardarono.
“Allora? voglio sapere perché, stando al preside, avete picchiato un vostro compagno fino a fargli saltare un paio di denti.”
“Se lo è beridado!” borbottò Matthew, con un fazzoletto di carta premuto sulle narici.
“Già, ha chiamato Michelle con la parola con la n” incalzò Alfred, facendo cenno a suo padre di chinarsi perché potesse sussurrargli all’orecchio la causa scatenante della sua improvvisa rabbia.
“Ha chiamato Michelle …” e qui la voce divenne meno di un sussurro nel pronunciare l’insulto.
 
 
Ricevettero due settimane di sospensione. Michelle se la cavò con tre giorni. Francis non diede loro nessuna punizione. Non approvava la violenza, ma le loro ragioni erano state nobili.
Michelle aveva tredici anni.
 
 
 
Crescono così in fretta fu il commento di Francis nel vedere le foto sviluppate di Alfred, Matthew e Michelle tirati a lucido per il ballo della scuola. Ne scelse con cura una da inserire nell’album di famiglia
“Già, troppo in fretta.”
Soprattutto Michelle aggiunse mentalmente una vocina.
 
***
 
Michelle aveva quattordici anni e tre mesi quando uscì  per la prima volta con un ragazzo, in una calda notte di settembre, mano nella mano, ridendo per un film comico di cui avrebbe presto dimenticato il titolo. Avrebbe dimenticato anche il nome del ragazzo o la sua faccia, un giorno. A quattordici anni e tre mesi, tuttavia, era convinta che sarebbe stata l’amore della sua vita.
Aveva quattordici anni e cinque mesi quando tornò a casa in lacrime per la fine della sua prima storia d’amore.
Aveva quattordici anni e cinque mesi e la convinzione di non poter più sorridere.
Oh, si sarebbe ripresa presto. Quella sera, però, corse singhiozzando tra le braccia di Francis che era l’esperto di cose d’amore.
 
 
A quattordici anni e dieci mesi un altro aveva già conquistato il suo cuore. A quindici anni e un mese Michelle ruppe con lui. Pianse di meno quella volta.
 
A sedici anni appena compiuti si trovò bloccata sul sedile posteriore di una macchina anonima, i polsi stretti dalle mani di un ragazzo che le era parso gentile, ma che ora cercava di toccarla dove non avrebbe dovuto. Michelle lo aveva morso e gli aveva tirato una ginocchiata nell’inguine come le avevano insegnato i suoi fratelli poi era corsa via, incespicando, alla cieca sotto i lampioni di una sera d’estate.
“Che cosa  è successo?” domandò Matthew nel vederla tornare a casa a piedi nudi, i capelli scarmigliati, il vestito strappato e il mento lucido di moccio. “Pensavo avessi un appuntamento.”
Michele annuì mordendosi le labbra, pregando che suo fratello capisse da solo. “Non dirlo a papà” pregò. In un altro frangente Matthew avrebbe risposto con una battuta del tipo “quale dei due?”, ma non quella volta. Quella sera Matthew pensò solo a come vendicare la sua sorellina.
Un paio di giorni dopo i giornali locali parlavano di un diciassettenne trovato in un vicolo col volto tumefatto e qualche frattura.
Matthew aveva capito.
“Nessuno lo dovrà mai sapere” decise Alfred, ficcando la propria maglietta sporca di sangue in una busta di plastica destinata alla spazzatura.  “E se la polizia viene a fare domande, l’idea è stata mia” continuò, tendendo le orecchie nel caso i genitori fossero tornati dal lavoro prima del solito orario.
 
Gli avrebbero dato sei mesi di servizio alla comunità, l’obbligo di una seduta dallo psicologo settimanale e avrebbe perso l’anno.
“Ma lo rifarei.”
 
A diciotto anni Michelle conobbe Marion, spessa treccia bionda e un incredibile talento per il gioco d’azzardo.  Frequentavano lo stesso corso di biologia avanzata.
Marion aveva labbra morbide e il reggiseno di pizzo rosa in una camera da letto dalle pareti color crema tappezzate di locandine di film anni cinquanta.
Aveva gambe lisce e pallide che contrastavano sulla carnagione scura di Michelle
“Sei invitata a cena da me domani” comunicò Michelle sistemandosi i capelli dopo aver fatto l’amore. Marion si soppesò sul gomito.
“I tuoi genitori sanno che esci con una ragazza?”
“Sì.”
“E come hanno reagito?”
Michelle sorrise. “Ho un papà bisex e un papà pansex. Mio fratello Matthew è passato da uscire con una ragazza di origini ucraine con la sesta di reggiseno a fidanzarsi” – mimò le virgolette con le dita – “Con un certo Gilbert un paio di mesi fa.”
“E Alfred?”
“Alfred al momento gioca al tira e molla con Ivan.”
“Braginsky? Il capitano della squadra di hockey prima di Matthew?”
“Esatto.”
Marion rise.
 
L’anno in cui Michelle conobbe Marion fu anche l’anno del diploma. L’anno delle lettere spedite a tutte le università con un buon programma di biologia marina. L’anno dei libri per il SAT che si accumulavano sulla scrivania. Matthew era già partito due anni prima alla volta di Montreal. Alfred – che aveva un anno in più di Michelle ma era stato rimandato – sarebbe volato a Yale forte di una borsa di studio per meriti sportivi. Marion progettava di tornare in Europa dove aveva trascorso l’infanzia.
Fu l'anno degli addii. L'anno del ballo studentesco dove Michelle non fu incoronata reginetta, ma ballò con chiunque glielo chiedesse. E furono in tanti.
L'anno delle foto sceme con ancora indosso la toga. L'anno in cui Arthur pianse tanto da infeltrire il cardigan di cachemire.
A giugno Michelle aiutò Alfred a incastrare le valigie nel bagagliaio della sua utilitaria.
L'anno delle scommesse.
L'anno delle bravate.
 
Quell'anno Michelle uscì con Marion per il suo compleanno.
"Mi hanno ammesso a ..." comunicò la ragazza facendo il nome di una prestigiosa università Europea.
"E tu?"
Michelle giocherellò con i frutti di mare che aveva nel piatto. Non sarebbe stato male vivere come un gamberetto, senza doversi preoccupare del lavoro e dell'Università, ma solo di non finire sul menù di un ristorante a cinque stelle.
 
 
“Allora hai deciso?” era la domanda posta a Michelle con sempre maggiore frequenza fino a diventare un’abitudine. Glielo chiedevano Matthew e Alfred durante le conferenze a tre su Skype. Glielo chiedevano i professori del liceo quando li incontrava passeggiando per le vie cittadine di ritorno dalla spesa. Glielo domandava Marion imballando un anno di vestiti.
E, certo, glielo chiedevano i suoi genitori, con lo stesso tono di quando era bambina e si avvicinava Natale.
“Sì.”
“La UCLA? La UCB? Ti prego non dirmi Harvard.”
Michelle scosse la testa. Non era mai riuscita a mantener un segreto. Né a nascondere le proprie emozioni. Le labbra si curvarono nella buffa smorfia di un sorriso trattenuto.
Disse il nome di un famoso istituto di oceanografia.
Chiesero la sede.
Ce n'erano diverse ma non c'erano dubbi su quale la ragazza avrebbe scelto
"Sud Africa? Sud Africa!"
Anche se Arthur avrebbe distrutto il suo ultimo maglione o Francis si sarebbe fiondato a controllare quanto costasse affittare un appartamento a Pretoria.
 
 
Quell’anno, prima che Michelle partisse per il Sud Africa, andarono al mare. Solo loro tre. Un’ultima gita insieme. Arthur a malapena stava a galla, Francis preferiva non avvicinarsi all’acqua perché il sale “seccava i capelli”, ma Michelle nuotava come una sirena. Apparteneva al mare e il mare apparteneva a lei. Le riportava memorie lontane delle canzoni che sua madre le mormorava quando era sobria per farla addormentare. Si tuffò, nuotando sul fondo e riemergendo solo quando i polmoni bruciarono per la mancanza d’aria. Avrebbe potuto nuotare fino alle coste africane, fino alle isole dove era nata sua madre. Qualche pesciolino venne a giocare tra le sue gambe, facendole il solletico. Michelle rise con la bocca semi immersa nell’acqua. Piccole bolle ne incresparono la superficie.
Sarebbe andato tutto bene.
 
Note: Sarebbe dovuta essere una roba corta e fluff. Credo che il fluff si sia perso a pagina tre. Chiedo scusa per l’orribile OOC.
   
 
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