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Autore: piccolo_uragano_    12/09/2016    0 recensioni
Stavo pensando a quella notte, la notte in cui ti ho conosciuta. Mi dicesti di esserti persa, però mi sembravi tutt'altro che persa, in quel momento. Anzi, a dirti la verità, con il senno di poi posso affermare con certezza che non ti fossi affatto persa: tu quella sera hai trovato me, perchè questo era il nostro destino.
Possiamo tornare indietro? Possiamo tornare al punto in cui io rovino tutto e tu te ne vai con le lacrime agli occhi?
Vorrei almeno che un legame come il nostro possa avere un addio, un finale degno di ciò che siamo stati, se proprio dobbiamo finire.
Io ti aspetto qui, domani sera. Stesso posto, stessa ora.
Ti amo. Non sono riuscito a dirtelo, ma ti amo.
A.
Consegno il messaggio alla sua amica spagnola mentre la ringrazio e penso: fa che non stia mentendo, fa che lei sia viva.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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E in quel disordine apparente 
la paura di restare sola.
(Noemi - la borsa di una donna)


Capitolo terzo. 
Guardo Sam con le lacrime agli occhi. È bella, come sempre, ma sembra pallida e stressata. Wylda gioca di là, insieme a sua cugina, mentre noi, seduti al tavolo della cucina, a quanto pare, discutiamo della fine del nostro matrimonio.
“Sei sicura?” le chiedo, cercando di non far tremare troppo la mia voce.
“Mi dispiace, Aaron.” risponde, con voce fredda.
“Non vuoi neanche provare con la terapia di coppia? O con un periodo di pausa, o qualsiasi cosa?”
“No.” dice. “Sono sicura. Potrai vedere la bambina quando vorrai, ovviamente, e dovresti tenerla ogni due finesettimana più una sera infrasettimanale.”
Scuoto la testa. “Immagino che tu abbia già parlato con un avvocato.”
Lei non ha bisogno di rispondermi: i suoi occhi dicono tutto.

Non ho bisogno di cercare molto: sono in ritardo di dieci minuti buoni, ma vedo dei pantaloni rossi fuoco stretti su due gambe lunghe e magre sfiorare dei capelli blu che si uniscono a una chioma biondissima. Accanto a lei c’è uno zaino da campeggio che sembra stracolmo.
Mi aspetta al ponte come promesso. Cerco di scacciare le brutte cose che l’incontro con Sam mi ha lasciato, ma non ce la faccio, così mi avvicino e senza pensarci dico “Sto per divorziare.”
Lei annuisce piano. “Ciao, Occhi Blu.”
“Scusa.”le dico subito, e mi rendo conto che con lei non ho filtro, evidentemente dico solo quello che mi passa per la testa.
“Beh, che si fa appena divorziati, di solito?” sospira.
“Non sono ancora divorziato.” Preciso, con un nodo in gola.
Lei annuisce di nuovo. “Giusto. E che vuoi fare?”
“Non lo so.”
“Vuoi ubriacarti?”
“Hai una sigaretta?” chiedo in risposta.
Lei sorride e annuisce. “Certo.”mette le mani in quella borsa piena di colori e ne estrae un pacchetto di carta azzurra. Mi porge una sigaretta e se ne appoggia una sulle labbra, poi mi fa segno di avvicinarmi e me la accende in un secondo.
“Sai” dico, buttando giù il fumo. “mi sono reso conto di una cosa.”
Lei mi guarda curiosa.
“Non so il tuo nome.”
“Nemmeno io so il tuo.”
“Aaron.” rispondo, immediatamente.
Lei annuisce piano. “Lola.”
“Non può essere il tuo vero nome.” dico, mentre assaporo quelle quattro lettere.
“Nessuno conosce il mio vero nome, Occhi Blu, sfondi una porta aperta.”
“Ma io non sono nessuno.” dico, indicandole una panchina vuota. “Io sono un quasi divorziato.”
“Già. Sicuro di non volerti ubriacare? Sarebbe divertente.”
Io scuoto la testa. “Come faremo adesso?” sospiro.
“Firmerai le carte e piangerai un po’. Poi, piano piano, ti rialzerai e sorriderai.”
Io la guardo e trovo due occhi pieni di pensieri.

Quando Aaron ordina la terza tequila, il suo sorriso è già più che brillo. Mi ha raccontato ogni cosa di quello che sembrava un matrimonio perfetto: una casa grande, con tante stanze, la cucina luminosa, una stanza in più perché volevano dare a Wylda un fratellino, un cane, e persino un terrazzo con il dondolo per guardare le stelle con sua moglie.
Era tutto perfetto.
Tutto come lo sognavo anche io.
Come lo sognavo prima.
Prima che il mio mondo crollasse. Prima che i colori smettessero di esistere. Prima che smettessi di essere felice. Prima che sentissi la necessità di scappare da una piccola città in cui tutti mi guardavano storto perché conoscevano la mia storia.
Prima.
“Lola” mi richiama Aaron. “Dimmi di te.”
Il suo tono tradisce un livello di alcol in circolo superiore a quello a cui è abituato.
Mi tornano velocemente in mente immagini delle ultime dodici ore. Gente che indica. Sguardi delusi. Sussurri. Persone che improvvisamente vengono a sapere chi sono davvero. Una decisione non così sbagliata di scappare senza lasciare traccia.
“Sono scappata dal college dove stavo.” Dico, come se non avesse importanza, come se stessi dicendo che oggi, a Londra, piove.
Lui non smette di sorridere e mi offre un altro giro di tequila. Il sole ormai è tramontato e Londra sembra essersi svegliata. “Perché?”
“Le persone hanno scoperto chi sono.”
“E chi sei?”
“Un mostro.” Rispondo, prima di mandare giù la tequila.
“Non sei un mostro.”
Lo guardo. È bello. È davvero bello. È uno di quegli uomini che se li incontri per strada ti giri a guardarlo. E lui sta seduto in uno squallido pub a bere tequila con me. Mi ha appena detto che non sono un mostro.
Ma non sa.
Non sa di chi ero prima.
Oh, prima ero un mostro di gran lunga peggiore.
“Ti credo solo perché sei brillo.” Sorrido, scacciando via certi pensieri.
“Hai un posto dove stare?”
Scuoto la testa.
“Vuoi venire a stare da me?”
Io annuisco prima di rendermi conto di volerlo davvero.

Mi sveglio con un mal di testa assurdo. Non faccio nemmeno in tempo ad aprire gli occhi che sento dolore ovunque e il bianco soffitto della mia stanza sembra accecarmi.
Calmati, Aaron. Che hai fatto ieri sera?
Ieri sera. Ieri sera. Dove sono stato?
In un locale di Warren Street.
Che ci facevo in Warren Street?
Ho bevuto. Questo è poco ma sicuro.
Sento Nelson che abbaia al piano di sotto e mi allarmo: perché non è qui? Perché non mi è corso incontro quando si è reso conto che mi sono svegliato?
Divorzio. Questo me lo ricordo. Sam vuole divorziare. Sarò un padre a ore.
Mi alzo dal letto facendo finta di non fare fatica a stare in piedi.
Divorzio. Assaporo la parola. È tagliente, mi fa male. Non va giù.
Divorzio.
Scendo le scale. “Nelson?” chiamo.
Divorzio. Forse potrei prendere un altro cane e chiamarlo ‘divorzio’ per abituarmi all’idea.
No, che direi a Wylda?
Wylda. Questo si che è un suono dolce. Il nome di mia figlia rende dolce ogni cosa.
Wylda. Apro la porta della sua stanza, piena di giocattoli e poster. La stanza rosa. La stanza di Wylda.
Wylda, mamma e papà divorziano.
Wylda, mamma e papà non saranno più una famiglia.
Famiglia. Questa ha un suono strano. Aspro.
Scendo ancora le scale e quando la vedo in piedi in cucina ho un brutto presentimento.
Lola.
Oh, questo si che è un bel suono. Spumeggiante. Quasi quanto lei.
Lola ha i capelli raccolti in una treccia che parte praticamente dalla sua fronte, indossa un pigiama di pile rosso con le casette colorate e una felpa che credo sia mia.
Lola.
Famiglia.
Wylda.
Divorzio.

Ho un terribile flashback. Credo di essermi ubriacato dopo aver visto Sam (Sam – oh, questo suono si che fa male) per via del divorzio. Credo di essermi ubriacato con Lola, una ragazza che conosco appena che adesso è in piedi nella mia cucina ed è in pigiama.
Cazzo. Che ho fatto?
Mi basta sforzarmi pochi secondi per avere una sfocata immagine di me che la bacio.
“Cazzo!” strillo, tirando un calcio al muro.
Lei si gira di colpo e notandomi scoppia a ridere. Mi sono fatto male al piede.
“Buongiorno a te. Stavo cercando del caffè.”
“Ci siamo baciati, ieri sera?” chiedo, allarmato.
Lei trasforma la sua risata in un sorrisetto malizioso. “Non portare le mani così avanti, Occhi Blu. Tu hai baciato me, ma eri così ubriaco che hai vomitato sulle scarpe di uno sconosciuto dopo mezzo secondo.”
Mi mordo un labbro cercando di ricordare. Ho un vago ricordo del suo viso che si fa sempre più vicino, di un buon sapore sulle labbra, ma poi più niente. Niente. Zero.
Niente. Lola.
No, il nome di Lola non sta bene accanto a ‘niente’. Lola merita un ‘tutto’.
Io ho baciato te?” chiedo, cercando di metterla sul ridere.
“Sì.” Risponde lei sicura. “Ma te l’ho detto, hai vomitato subito dopo. Grazie, a proposito. Non mi era mai capitato che uno vomitasse dopo avermi baciato senza neanche un po’ di lingua.”
“Neanche un po’?” domando, sedendomi su uno sgabello mentre la guardo cercare il caffè con Nelson che la insegue. Le indico lo scaffale sopra il lavandino e lei trova le cialde. Mi chiede con uno sguardo se ne voglio una e io annuisco, mentre lei accende la macchinetta.
“E dopo che ho vomitato?”
“Ho chiesto scusa da parte tua a quel tipo.”
“Oh, grazie.” Ironizzo.
“Non c’è di che. Hai dei biscotti? O del pane tostato?”
Le indico di nuovo lo scaffale contenente le cose con cui io (e Sam) faccio colazione di solito.  Lei annuisce e ride.
“E poi?” chiedo, ancora.
“Ho chiesto al tipo di chiamarci un taxi. A casa so guidare, ma qui è tutto al contrario, dannati inglesi, e non sarei stata in grado di arrivare qui.”
“Al contrario?” domando sorridendo, mentre mi passa la mia tazza piena di caffè. Lei, senza saperlo, ha preso la tazza preferita di Sam.
“Lato sbagliato della macchina, lato sbagliato della strada.”risponde lei, mescolando il caffè con aria assonnata. “Comunque non ti preoccupare, dopo il viaggio in taxi la serata si è spenta. Il tuo cane mi ha quasi aggredita, ma poi abbiamo fatto pace. Il taxi lo hai pagato tu, a proposito, io non avevo un centesimo e rubare il portafoglio ad uno così ubriaco è un gioco da ragazzi.”
Quanto ubriaco?”
Molto ubriaco.”
Scuoto la testa. “E poi? Perché sei rimasta con me?”
Lei ci mette un attimo per rispondere. “Inizialmente te lo avevo chiesto, perché sono scappata dal college. Quando ti ho rimboccato le coperte, invece, mi hai chiesto di restare con te. Poi mi hai chiamata Sam, e ti sei addormentato come un bambino.”
Umiliante. Lola. Tutto. Sam. Niente.
Rido e scuoto la testa. “Mi dispiace, Lola, davvero. Avresti meritato una serata migliore.”
Lei alza le spalle. “No, io mi sono divertita. Insomma, non capita spesso di dover chiedere scusa a uno sconosciuto per il vomito altrui.”
Mangio un biscotto e combatto contro il mal di testa cercando di ricordare qualcos’altro, ma i ricordi sono come sigillati da qualcosa di più grande.
“Come mai sei scappata dalla scuola?”
Lola perde il sorriso. E nel momento in cui il suo viso si spegne, io vorrei non averlo mai chiesto.
“Questa è un’altra storia.” Risponde, mentre i suoi occhi si offuscano di pensieri.
“E me la racconterai mai?”
“Hai davvero bisogno di saperlo?”
“Ti fa stare tanto male?”
Lei fissa un biscotto che ha lasciato cadere nel letto e poi annuisce. “Sono un mostro.”
Istintivamente, mi alzo e raggiungo l’altro lato del tavolo. Le prendo il viso tra le mani e le bacio la fronte, mentre vedo i suoi occhi azzurri riempirsi di lacrime. Nel momento in cui poso la sua testa contro il mio petto e le stringo le spalle, lei ricambia l’abbraccio e scoppia a piangere.
Mi stupisco di me stesso per averla abbracciata: è una cosa che faccio davvero di rado. Sam si lamentava sempre del fatto che non la abbracciassi mai. Mia sorella Gemma poco tempo fa mi ha rinfacciato di averla abbracciata solo quando si è laureata. Invece con Lola, in questo momento, è la cosa più naturale del mondo: la tengo stretta al mio petto e lascio che mi rovini la maglietta del pigiama con le sue lacrime mentre le accarezzo i capelli e lei sembra liberarsi di qualcosa di più grande di lei.
“Scusami, Aaron …” dice, tra i singhiozzi.
Io scuoto la testa. “Non ti devi scusare.”  Le bacio i capelli e mi rendo conto che ha davvero un buon profumo.
Qualsiasi cosa le sia successa, so che dovrò salvarla dalle ombre che la perseguitano.
“Sono un m-mostro.” Singhiozza.
“No.” le dico, sicuro. “Forse è quello che pensa la gente, ma a me è bastato parlare con te un paio di volte per rendermi conto che non sei affatto un mostro.”
“Tu non sai niente!” mi dice, sciogliendo l’abbraccio.
Vedere il suo viso rigato dalle lacrime mi procura un groppo in gola. “Allora raccontami. Tu sai tutto di me. Di Sam. Del divorzio. Di Wylda. Della mia famiglia. Sai tutto, Lola. Io di te non so niente.”
Eccole. Le parole su cui non ho fatto altro che rimuginare ora stanno fluttuando tra me e lei.
“È stata tutta colpa mia. Solo colpa mia!” si copre il viso con le mani – e si, è decisamente la mia felpa. Le sta larga e le mani sono coperte dalle maniche, ma nulla, nemmeno la mia felpa nasconde il suo dolore. La abbraccio di nuovo. Mi arriva a malapena alle spalle. Lei mi stringe con le sue braccia flebili mentre trema. Nelson abbaia. Sono le nove e trenta del mattino. Londra vive attorno a noi mentre Lola piange.
Sento un telefonino che vibra. Lei si allarma, e guarda il tavolo, raccogliendo l’iPhone su cui appare di nuovo il nome di Michele. Lei lo guarda per un po’, senza smettere di piangere. Rifiuta la telefonata e spegne il telefono.
Poi mi guarda e ripete “Fu solo colpa mia.”
   
 
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